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La pianta del fico nel mito di fondazione di Roma

2022-01-16 15:48

Claudia Pandolfi

Storia del cibo, Fichi, Romolo e Remo, Il Lupercale, Il fico Ruminale, La dea Rumina, Marte e Rea Silvia, La "pietas" di Enea, Palilie, Lupercalia, La fondazione di Roma,

La pianta del fico nel mito di fondazione di Roma

«Quei fatti che si dicono avvenuti nei tempi precedenti la fondazione o la futura fondazione dell’Urbe, adorni di favole poetiche più che conformi a r

«Quei fatti che si dicono avvenuti nei tempi precedenti la fondazione o la futura fondazione dell’Urbe, adorni di favole poetiche più che conformi a resoconti affidabili dell’accaduto, io non voglio né confermarli né confutarli. Si può ben concedere agli antichi di rendere più nobili le origini delle loro città mescolando l’umano col divino; e, se c’è un popolo a cui si debba concedere di divinizzare le proprie origini e di considerarne autori gli dei, il popolo romano ha una tale gloria militare che, soprattutto quando esso vanta Marte come padre suo e del suo fondatore, le genti accettano di buon animo anche ciò, così come ne accettano il dominio» (Livio, Praefatio, 6-7).     

 

Le  “favole poetiche” relative alla fondazione di Roma hanno inizio dalla leggenda troiana, che vede arrivare nel Lazio Enea, figlio del re Anchise e della dea Venere, sopravvissuto alla distruzione della sua città in quanto destinato a perpetuare la stirpe dei troiani.  

Enea sposerà poi Lavinia, figlia del re Latino, e la storia dei loro discendenti arriverà fino ad Amulio, che caccerà dal trono di Albalonga il fratello Numitore e costringerà la nipote Rea Silvia a divenire una vestale, così da impedirle di avere un figlio che possa un giorno vendicare il nonno: miracolosamente, però, il dio Marte si unirà a Rea Silvia, e dalla loro unione nasceranno due gemelli.  

In realtà – fedele al cauto scetticismo espresso nella Prefazione – Livio non manca di avanzare un’ipotesi meno ‘leggendaria’ in merito  alla paternità divina, scrivendo: «La Vestale, essendole stata fatta violenza e avendo dato alla luce due gemelli, sia che ne fosse realmente convinta, sia perché apparisse meno disonorevole una colpa di cui era responsabile un dio, attribuisce a Marte la paternità della sua prole illegittima» (I, 4). E, dal canto suo, anche Plutarco, nella Vita di Romolo, afferma che la voce del coinvolgimento di Marte nel concepimento era stata sparsa dalla madre, aggiungendo che, secondo alcuni, la Vestale sarebbe stata rapita e stuprata da Amulio.     

 

Inizia qui la seconda “favola poetica” – o, per meglio dire, la seconda parte della leggenda – sulla fondazione di Roma.  Rea Silvia  viene imprigionata e, per ordine del re, i due gemelli sono condannati ad essere gettati nelle correnti del Tevere. Sennonché, la corrente spinge delicatamente a riva, sotto un albero, la cesta in cui erano stati deposti: i bambini sono miracolosamente nutriti da una lupa in una caverna; trovati poi dal pastore Faustolo, vengono allevati da lui e dalla moglie Larenzia nella loro povera casa.  

Come per la paternità divina, anche in merito all’allattamento da parte di una lupa Livio riferisce dell’esistenza di una versione per così dire più razionale dell’evento: «Alcuni – annota infatti – pensano che Larenzia, essendosi spesso prostituita, fosse chiamata lupa fra i pastori: da ciò trarrebbe origine questa straordinaria leggenda» (I, 4). E la stessa notizia si trova in Plutarco.  

Raggiunta l’adolescenza, i due gemelli uccidono Amulio e restituiscono il trono al nonno; abbandonano quindi la loro città e decidono di fondarne una nuova proprio nel luogo in cui erano stati esposti ed allevati. Venuto a lite col fratello, Remo muore, e Romolo diventa a tutti gli effetti il fondatore di Roma.     

 

L’albero sotto il quale la lupa trovò i divini gemelli era un albero di fichi situato alle pendici del colle Palatino, vicino alla grotta del Lupercale. Secondo le fonti, questo fico, chiamato originariamente “Romulare”, prese poi il nume di “Ruminale”.  

Livio, ad esempio, scrive che Romolo e Remo furono abbandonati in una pozza del Tevere straripato «nel punto in cui oggi si trova il fico Ruminale (ficus Ruminalis), un tempo detto, a quanto si racconta, Romulare (Romularem)» (I, 4).  Le due diverse denominazioni sono riferite anche da Ovidio, che, nei Fasti, all’interno dei versi relativi alla leggenda di Romolo e Remo, scrive: «C’era un albero e ne restano le vestigia: era quel fico che ora si chiama Ruminale (Rumina) e che prima era detto Romulare (Romula)» (II, v. 411s.).  

Sull’origine del nome Ruminalis si sofferma dal canto suo Plinio, che, nella Storia naturale (XV, 20), racconta come nel Foro, e più precisamente nel Comizio, si venerasse una pianta di fico nata a Roma: la pianta era venerata perché lì avveniva il rito sacro dell’interramento dei fulmini – una cerimonia religiosa di origine etrusca, in cui il pontefice riuniva simbolicamente le scintille del fulmine abbattutosi e le interrava –, e ancora di più in virtù del ricordo di quel fico che per primo aveva dato riparo a Romolo e Remo: fico chiamato Ruminale, perché sotto la sua ombra era stata trovata la lupa «che offriva ai neonati la sua rumis, antico nome della mammella».  

Ancora, secondo lo storico greco Plutarco, il fico era chiamato Ruminale o dal nome Romolo, o per il fatto che alla sua ombra erano soliti sostare animali ruminanti, o piuttosto perché nei suoi pressi erano stati allattati Romolo e Remo: e gli antichi chiamavano la mammella rumis. Plutarco aggiunge poi che i Romani chiamavano Rumina una dea che si credeva avesse cura del nutrimento dei lattanti, e alla quale si facevano sacrifici col latte (Vita di Romolo 4, 1).     

 

Plinio racconta anche che, nei pressi del fico del Foro era stato consacrato un bronzo rappresentante l’allattamento prodigioso dei gemelli da parte della lupa, come se il fico Ruminale si fosse spontaneamente trasferito nel Comizio: fatto miracoloso, che si sarebbe verificato grazie agli auspici dell’indovino Attio Navio. E questo fico – conclude – non si secca mai, senza che la cosa costituisca un cattivo presagio: in tal caso i sacerdoti si prendono cura di ripiantarlo (XV, 20).  

 

Dal racconto di Plinio, pare di poter desumere che il fico venerato nel Comizio fosse originariamente legato alla cerimonia sacra dell’interramento del fulmine, e che, solo in un secondo momento, questa venerazione si caricasse anche del ricordo del fico Ruminale: testimonianze indirette del fatto che, nel tempo, andate perse le tracce ‘fisiche’ del fico Ruminale, si giunse alla sovrapposizione cultuale delle due piante, finendo col confonderle ed identificarle, ci vengono peraltro anche da Ovidio (Fasti II, v. 411s.) e da Festo, che nel suo dizionario enciclopedico, colloca il fico Ruminale nei pressi della Curia, ovvero nel Comizio (De verborum significatione XVI s.vRuminalis).     

 

La medesima confusione si riscontra – né poteva essere diversamente – in relazione alla statua della lupa che allatta i gemelli, collocata da Plinio nei pressi del Comizio. Diversamente da lui, Livio, con riferimento all’anno 296 a. C., racconta che a degli usurai furono confiscati i beni e che, col ricavato, gli edili curuli provvidero ad abbellire con porte di bronzo, vasi d’argento, statue, ecc. alcuni luoghi della città: la statua dei due fondatori di Roma sotto le mammelle della lupa fu collocata – scrive – vicino al fico Ruminale (X, 23).     

 

Alla luce delle testimonianze letterarie, linguistiche e archeologiche, la prima parte della leggenda, che vede Enea in fuga dal suo paese col vecchio padre, ha origini molto lontane nel tempo, risalendo all’incirca al VI secolo a. C.: mancano però documentazioni conclusive sul quando, il perché e il come si sviluppò, fino a fare di Enea il fondatore di Roma. Certo è comunque il ruolo importante che la virtù della pietas – testimoniata dal pio attaccamento di Enea ai genitori e agli dei Penati – riveste da sempre nella storia secolare di Roma: quella pietas che, attraverso l’Eneide di Virgilio, diventerà non a caso uno dei temi dominanti della propaganda augustea.  

La seconda parte della leggenda è invece di origine latina e risale presumibilmente alla seconda metà del IV secolo a. C.. In essa si intrecciano molti e diversificati elementi, dietro ad alcuni dei quali si possono anche individuare fatti storicamente attestati, come, ad esempio, il ritrovamento sul Palatino di un gruppo di fondi di capanne risalenti alla metà circa dell’VIII secolo, periodo corrispondente al primo insediamento romuleo: il mito, cioè, potrebbe essere cresciuto attorno a ricordi reali, mantenuti e riaccesi nella quotidianità dell’antica Roma da una serie di sopravvivenze a carattere religioso. Basti dire che il fico Ruminale e la grotta del Lupercale erano oggetto di un culto diffuso; e che, ancora nei tempi classici, presso le gradinate che collegavano il Germalo – piccolo prolungamento del Palatino – al Circo Massimo, esisteva la casa di Romolo, chiamata anche tugurio di Faustolo, conservata e trasmessa da una generazione all’altra. In ogni caso, ciò che qui mi preme sottolineare è l’aspetto per così dire pastorale e contadino associato a questa seconda parte della leggenda  in tutte le sue fasi, fino al rito usato da Romolo durante la fondazione, quando egli segnò il tracciato delle mura scavando un solco attorno al Palatino con un vomere cui erano aggiogati una mucca e un toro: una cerimonia avvenuta il 21 aprile del 747 o del 753, commemorata ogni anno con la festa delle Palilie dedicata a Pale, dio dei pastori, e legata al ricordo dei tempi in cui la prosperità dipendeva esclusivamente dagli armenti. Allo stesso modo, Luperco era una divinità rurale, e la festa dei Lupercali, che si celebrava appunto nella grotta del Lupercale, aveva fra gli altri lo scopo di invocare la protezione e la purificazione delle greggi. E, se pure è vero che il lupo era un animale sacro a Marte – come anche il picchio, che nell’iconografia troviamo spesso appollaiato sui rami del fico Ruminale –, e che Marte è conosciuto come il dio della guerra, il trattato Sull’agricoltura di Catone ci tramanda il testo di una preghiera rivolta a lui perché protegga i campi da ogni tipo di sciagura. Inoltre, rimanda sicuramente alla pastorizia – come si è già avuto modo di evidenziare – il nome “Ruminale” dato al fico, ed è sicuramente una divinità rurale la dea Rumina di cui parla Plutarco, alla quale si facevano sacrifici col latte, e che aveva cura del nutrimento dei lattanti.  

A riguardo di quest’ultima, fonte di Plutarco pare essere senza dubbio Varrone, che ne parla in ben tre contesti. 

L’etimologia del nome Rumina nonché l’uso di farle offerte col latte sono presenti in due opere varroniane, giunteci purtroppo frammentarie: «Si fanno sacrifici col latte e non col vino a queste divinità… a Rumina, da ruma, parola antica per mamma – mammella –, ragion per cui ancora oggi gli agnelli sono detti subrumi» (Logisticorum libri – Fragmenta, III, 7); «La dea Rumina è colei che offre la mammella ai neonati, ed è chiamata così dall’antico vocabolo ruma, che significa mammella» (Antiquitates – Fragmenta, II, XIV frg. 193). Ma particolarmente interessante appare, nel nostro contesto, il passo del De re rustica (Sull’agricoltura) in cui, parlando dei formaggi, Varrone scrive che «alcuni, come coagulo, aggiungono il latte che esce dai rami del fico», commentando che molto probabilmente si deve a questo il fatto che «i pastori abbiano piantato il fico che si trova presso il tempietto della dea Rumina: qui infatti si è soliti fare sacrifici col latte al posto del vino e con animali da latte. Rumis, infatti, come dicevano una volta, significa mammella; ed è dal vocabolo rumis che anche oggi gli agnelli sono chiamati subrumi, così come dal latte prendono nome i lattanti» (II, 11).     

 

Originariamente, i Romani furono un popolo di pastori e agricoltori. Le loro cibarie erano semplici e consistevano in prodotti dell’orto, latticini, uova, pane di farro, olive, miele… e poi mele, pere, sorbe, uva, noci, e per finire i fichi, da sempre alla base del nutrimento quotidiano: frutti altamente energetici, le loro notevoli proprietà nutrizionali li rendevano infatti un alimento fondamentale, nonché l’alimento principale per i più poveri. Oltre a ciò, la pianta del fico – come si desume anche dal passo di Varrone – aveva un legame importante con la dea Rumina e con la pastorizia, dal momento che il succo lattiginoso estratto dalla sua corteccia veniva usato come caglio per i formaggi. Questi due aspetti fanno ben comprendere il senso e l’importanza della sua presenza nel mito di fondazione di Roma, senza dimenticare, poi, che  il fico, come ci testimonia Plinio (XV, 72), era una delle piante più diffuse in area mediterranea durante l’antichità.