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"Waltharius" – Il poema di Walther

2025-04-30 16:46

Claudia Pandolfi

Letteratura latina medievale, Simbologia dell'orso, Das Nibelungenlied, J. R. R. Tolkien, Wagner, Tendenza antiguerresca,

"Waltharius" – Il poema di Walther

Il Waltharius è un poema di 1456 versi, che narra le vicende di Walther, principe di Aquitania, e Hiltgunt, principessa di Borgogna. I due giovani era

Il Waltharius è un poema di 1456 versi, che narra le vicende di Walther, principe di Aquitania, e Hiltgunt, principessa di Borgogna. I due giovani erano stati dati in ostaggio ad Attila, re degli Unni, dai loro rispettivi genitori, in cambio di un trattato di pace;prima di loro, era andato in esilio, come ostaggio dei Franchi, il giovane Haghen, che aveva preso il posto del figlio del re Ghibicone, Gunther, ancora troppo piccolo. Già prima di essere consegnati ad Attila e di essere mandati presso di lui in Pannonia, Walther e Hiltgunt erano stati promessi in matrimonio.Attila aveva trattato con affetto i suoi tre giovani ostaggi, tanto che, crescendo, Walther e Hagen erano stati messi a capo del suo esercito, e Hiltgunt, essendosi conquistata anche l’amore della regina, era stata nominata custode di tutti i tesori. Quando il re dei Franchi, Ghibicone, morì, il figlio Gunther gli succedette sul trono, e immediatamente, ruppe il patto di pace fatto dal padre con gli Unni, rifiutandosi di pagare i tributi pattuiti: Hagen decise allora di fuggire da Attila per tornare in patria al fianco del nuovo re. La moglie di Attila, preoccupata che Walther potesse seguirne l’esempio, diede allora un consiglio al marito: egli avrebbe dovuto invitare il giovane a scegliersi una sposa tra le nobili famiglie della Pannonia, promettendogli anche possedimenti e ricchezze. Attila seguì il consiglio della moglie, promettendo a Walther ricchezze e possedimenti adeguati, ma il giovane, che aveva già in mente ciò che poi avrebbe fatto, rifiutò, accampando come scusa il fatto che, da sposato, dovendo occuparsi della moglie e dei possedimenti avrebbe necessariamente finito col trascurare il proprio servizio, e non avrebbe potuto continuare a consacrare tutte le proprie energie a vantaggio del regno; inoltre, le gioie della famiglia avrebbero potuto far apparire pesanti le dure fatiche del campo e, in guerra, il pensiero della moglie e dei figli avrebbe potuto indurre a salvaguardarsi col ritiro o con la fuga (vv. 146-167).  Al ritorno da una battaglia vittoriosa, Walther si incontrò con Hiltgunt e scoprì che, quando avesse deciso di fuggire, la giovane sarebbe stata disposta a seguirlo, qualunque impresa ci fosse da affrontare. Walther approntò quindi un piano di fuga per la settimana successiva: Hiltgunt avrebbe dovuto impadronirsi di una parte del tesoro, fare quattro paia di scarpe per Walther e quattro per sé, preparare degli ami per la pesca; Walther stesso si sarebbe preoccupato che tutti fossero troppo ubriachi per accorgersi della fuga.  Il giorno stabilito, Walther e Hiltgunt fuggono a cavallo. La mattina seguente, Attila, che si è svegliato con un gran mal di testa per le libagioni abbondanti della sera precedente, cerca Walther per dirgli che si sente male, e ne scopre la fuga: si accende allora di un’ira feroce, e non riesce né a mangiare né a bere né a dormire; convoca quindi tutti i suoi principi e promette grandi ricompense a che fra loro gli riporterà Walther «legato come un cane rabbioso» (v. 404). Sennonché, conoscendo il valore di Walther, nessuno accetta di inseguirlo.  Dopo quaranta giorni, Walther e Hiltgunt giungono sulla riva del Reno e, per attraversarlo, compensano il traghettatore con dei pesci; il traghettatore porta quei pesci alle cucine del re Gunther, che, colpito dal loro aspetto e incuriosito per la razza sconosciuta, fa cercare il barcaiolo per avere informazioni: dalla descrizione del giovane che glieli ha donati, Hagen, presente al colloquio, riconosce Walther. Gunther, sapendo del tesoro che Walther e Hiltgunt hanno portato con sé, parte, assieme a dodici uomini, sulle tracce dei fuggiaschi, per impadronirsene: con lui c’è anche Hagen, che ha tentato invano di dissuaderlo.  Mentre Walther, all’interno di una immensa foresta, ricca di covi di fiere, e sempre piena di cani e cacciatori, dorme in una specie di grotta fra i sassi,  («Appena separati ci sono due monti vicini, in mezzo ai quali si apre una non grande, ma amena grotta», formatasi naturalmente per il sovrapporsi di colossali macigni vv. 493-495), Hiltgunt, che sta di guardia, si accorge dell’arrivo del gruppo di cavalieri dalla polvere sollevata: sveglia allora il compagno, che si prepara a combattere. Nei vv. 545-547, vediamo Hiltgunt che, spaventata da quelli che crede essere Unni, chiede a Walther di ucciderla, per evitare di cadere in mano ai nemici e dover sottostare a ‘nozze’ indesiderate, ma, immediatamente, Walter respinge con fermezza il gesto prospettato da Hiltgunt nello sconforto del momento. «Dovrei macchiarmi del tuo sangue innocente? – le dice – In che modo mai la mia spada potrà stendere al suolo i nemici, se non risparmia la vita alla sua così fedele compagna? Dimentica ciò che hai chiesto, sgombra la mente dalla paura». Segue poi una frase –«Qui me de variis eduxit saepe periclis, hic valet hic hostes, credo, confundere nostros» – che dà adito a qualche problema di interpretazione: non è infatti chiaro a che cosa o a chi si riferisca il Qui iniziale: se alla spada (gladius) – «quella che» – , o a Dio «Colui che mi ha spesso salvato dai pericoli» e che «non mancherà, credo, di confondere i nostri nemici anche nella situazione presente» (vv. 552-553). Lo sfondo intertestuale biblico (confundere è un verbo frequentissimo nei Salmi, e in Deuteronomio 20,1 si legge «Dominus tuus tecum est, qui eduxit te de terra Aegypti»), come pure la preghiera innalzata da Walther ai vv.1161-1163 (v. sotto) farebbero decisamente propendere per la seconda ipotesi, ma non possiamo averne certezza.  Subito dopo, Walther si accorge che gli assalitori non sono Unni, ma Franchi e, fra loro, riconosce Hagen: l’unico che lo preoccupi. Intanto Hagen consiglia il suo re di inviare a Walther un messo: sia per sincerarsi della sua identità, sia per offrirgli di andarsene in pace consegnando il tesoro. Così accade. L’offerta di Walther si limita però a cento bracciali d’oro, e Gunther la rifiuta, nonostante il consiglio contrario di Hagen, che, anche sulla base di un sogno fatto, teme per l’esito dello scontro: nel sogno – narrato ai vv. 622-627 –, il re lottava contro un orso, che gli strappava via un piede e una gamba fino alla coscia; dopo di che, lanciandosi contro Hagen, gli strappava un occhio con le zanne.  Il re accusa Hagen di viltà, e Hagen lo invita ad andare lui all’attacco, mentre egli se ne starà a guardare e non parteciperà alla spartizione del bottino. Dopo un secondo tentativo a vuoto per ottenere da Walther il tesoro, comincia una lunga serie di duelli a due, da cui Walther esce sempre vittorioso: tutti raccontati con dovizia di particolari, e dialoghi e ferite varie e morti. Fra i duellanti uccisi da Walther, c’è anche un giovane nipote di Hagen, che lo zio aveva tentato invano di dissuadere, che Walther stesso aveva provato a dissuadere, e che alla fine muore col ventre squarciato «lasciando il corpo alle fiere del bosco e l’anima all’Orco» (v. 913). Quando tutti sono ormai morti, Gunther raggiunge Hagen e lo scongiura di combattere, finché lo convince. Hagen elabora un piano: Walther dovrà pensare che se ne sono andati e uscire allo scoperto, dopo di che loro lo attaccheranno alle spalle di sorpresa. Walther, dopo essersi a lungo interrogato sul da farsi, decide di passare la notte nel suo rifugio ed innalza una preghiera al cielo, rendendo grazie, per averlo salvato, «al creatore delle cose, che tutto governa, senza il permesso o l’ordine del quale niente può esistere» (vv.1161-1163).  La mattina seguente, dopo aver spogliato i caduti delle armi, Walther carica quattro cavalli, fa salire Hiltgunt sul quinto, sale sul sesto, e partono; dopo circa un miglio, Hiltgunt si volta indietro (sexus enim fragilis animo trepidare coegit) e, grazie alla fragilità del suo sesso che la costringeva a trepidare nell’animo, vede arrivare i due nemici: avverte Walther, che si gira a sua volta e, ordinando a Hiltgunt di nascondersi nel bosco vicino, si prepara ad affrontarli. Gunther gli grida da lontano; Walther non risponde a lui, ma si rivolge all’antico compagno, rammentandogli l’antica amicizia e invitandolo ad evitare l’infamia di rompere il loro patto; Hagen accusa lui di averlo infranto per primo, massacrando amici e parenti di Hagen stesso e non risparmiando neppure il suo adorato nipote (vv. 1239-1279). I tre cominciano a combattere. Walther assale Gunther e gli strappa via una gamba fino alla coscia; poi, mentre sta per infliggergli il colpo finale, Hagen si mette in mezzo e recide a Walther la mano destra; Walther continua a combattere e, con un gran colpo, strappa ad Hagen l’occhio destro colpendolo anche alla bocca e facendogli cadere sei denti: col che, il sogno di Hagen si rivela come un sogno premonitore, lasciando peraltro intravvedere come il suo racconto iniziale (ai vv. 622-627) sia in realtà un elemento meno secondario di quanto apparentemente si potesse pensare. Il che spiega anche come mai quel sogno sia stato anche al centro di una interpretazione psicanalitica e simbolica del personaggio di Walther e, conseguentemente, del significato stesso del poema.  Non a caso, peraltro, nella descrizione del duello finale, è proprio ad un orso africano, aggredito da cani umbri e molossi, che viene paragonato Walther: «Non diversamente da quanto avviene in Numidia quando si caccia l’orso, e, circondato dai cani, l’orso si tiene ritto rizzandosi terribile sulle zampe e, nascondendo il capo, emette un brontolio, e quasi abbracciando i cani umbri che gli si fanno più vicini li costringe a  guaire miseramente […]. In tal maniera il duello andò avanti fino all’ora nona»  (vv. 1337-1343). E non solo qui, ma anche in precedenza, nel suo essere diventato un ‘cacciatore cacciato’, Walther viene indirettamente assimilato in qualche modo all’orso: penso, nello specifico, al momento in cui Walther è nascosto nella grotta (vv. 493-495): grotta che dell’orso rappresentava un habitat naturale.  Senza entrare nel complesso discorso sulla simbologia dell’orso e sui modi in cui questo animale è presente da sempre nell’immaginario umano – vedi ad es., L’orso, il simbolo, la tradizione, la storia, “Storie e linguaggi” 3(2017), fasc. 2 –, forte è la suggestione di vedere in Walther l’orso nella sua doppia veste di guerriero fortissimo e di ricercata preda del cacciatore.  «Al termine – concludono i vv. 1401-1404 – ognuno ha il suo trofeo: a terra giacevano il piede di Gunther, la mano di Walther e l’occhio tremolante di Hagen. Così si erano spartiti il tesoro degli Unni». A questo punto torna Hiltgunt, che fascia a tutti le ferite; dopo di che, Walther le ordina di offrire a tutti da bere: fra un bicchiere e l’altro, Walther e Hagen si prendono in giro reciprocamente, finendo col riscoprire e rinnovare la loro amicizia:  «Dice il Franco a Walther: “Amico, d’ora in poi andrai a caccia di cervi, così da poter usare la loro pelle per farti guanti senza fine. Ma bada che il guanto destro sia ben riempito di lana, per trarre in inganno chi non sa con la tua falsa mano  […]. Ma perché continuare? Da qui in avanti, tutto ciò che dovrai fare dovrai farlo con la sinistra”. […] “Se io andrò a caccia di cervi – dice a sua volta Walther – tu rinuncerai d’ora in poi alla carne di cinghiale […], e, salutandole, dovrai guardare di traverso le schiere dei tuoi guerrieri”» (vv. 1425-1438).  Alla fine, Hagen e il sovrano tornano a Worms; Walther torna in Aquitania, dove viene accolto con grandi feste e onori, sposa Hiltgunt, e, alla morte del padre, sale al governo rimanendoci felicemente per trent’anni. I versi conclusivi recitano: «Chiunque tu sia che leggi queste cose, perdona questa stridula cicala (stridenti cicadae), e non badare a questa vocina ancora rauca, ma all’età immatura, di chi, appena uscito dal nido, non osa ancora levarsi ad altezze sublimi. Questo è il canto di Walther (Waltharii poesis). Vi conceda Gesù la salvezza» (vv. 1453-1456).     Walther è la trasfigurazione fantastica di un personaggio reale, Gualtiero di Aquitania, erede di quel trono e sposo di Ildegonda, e l’episodio narrato fa parte delle leggende dei Burgundi; negli ultimi decenni del secolo V, in queste leggende erano penetrati temi delle leggende renane, cosicché, non molti anni dopo la morte di Attila (avvenuta nel 453), la saga di Sigfrido (il fiume Reno era sede del favoloso tesoro rubato da Sigfrido al re dei nani Nibelungo) si era fusa con la saga dei Burgundi, in quella che sarebbe poi diventata la saga dei Nibelunghi. I personaggi del Waltharius appartengono dunque alla saga nibelungica, e si muovono sullo sfondo delle regioni germaniche legate al ciclo delle leggende dell’oro del Reno: e, di fatto, è in questo poemetto latino che la leggenda dei Nibelunghi trova la sua prima espressione poetica. In precedenza, la materia era trattata nelle lingue volgari, prevalentemente in forma orale, o scritta in prosa; successivamente, la medesima materia è presente in uno svariato numero di testi, redatti in lingue diverse e in diverse regioni e in periodi diversi (area tedesca, inglese, scandinava, italiana, francese, spagnola, polacca). Per quanto concerne l’Italia, va ricordato ad esempio il Chronicon Novalicense dell’XI secolo (cronaca delle vicende dei monaci benedettini del monastero piemontese di Novalesa, in Val di Susa, a partire dall’VIII secolo), che ci consegna la storia di un guerriero pentito dei propri peccati, fattosi monaco appunto a Novalesa: e il guerriero in questione è proprio Walter, la cui vita precedente viene raccontata sulla base dei vv. 193-577 del Waltharius.     Ma quando fu scritto il poemetto? Da chi? Come va interpretato? Quali sono le sue fonti? Per tutte queste domande, non ci sono risposte definitive. Sull’autore, le ipotesi sono diverse: un giovane monaco dell’abbazia di S. Gallo di nome Ekkeardo; un misterioso Geraldo, a cui si deve il prologo presente in un ramo della complicata tradizione manoscritta; altre svariate ipotesi. Quanto alla data di composizione, si suppone che possa risalire al IX-X secolo, ma, di fatto l’unica cosa certa è che la tradizione del poema comincia nell’ultimo terzo del X secolo, per poi proseguire, abbastanza ampia (sia per quantità di manoscritti – se ne segnalano più di venti – , sia per estensione geografica degli stessi) nei secoli successivi. Complessa è anche l’interpretazione del testo, abbastanza enigmatico nella struttura, nei contenuti e nel tono: da segnalare è, ad esempio, la totale assenza dell’elemento ‘drammatico’, con emozioni e situazioni e sentimenti mai fortemente caratterizzati. E altrettanto complessa è l’individuazione delle fonti, fra cui si ritrovano fonti classiche, tardo-antiche e cristiane, poesia latina altomedievale, tradizione in volgare sia orale che scritta: si sostiene, ad esempio, che i sei duelli di Walter riprenderebbero quelli sostenuti da Tideo nel II libro della Tebaide del poeta latino Stazio del I secolo d. C.; che forti legami sarebbero presenti con la Psicomachia di Prudenzio (il poema allegorico della lotta fra vizi e virtù, del IV/V secolo); che i quaranta giorni della fuga di Walther e Hiltgunt ricorderebbero i quaranta giorni degli Ebrei nel deserto; che sarebbero riconoscibili influssi di poeti latini sia carolingi che ottoniani, ecc..     Riguardo alla forma, ricordiamo che, prima del Waltharius – come s’è detto –  la materia era trattata nelle lingue volgari, prevalentemente in forma orale, o scritta in prosa; e ricordiamo anche che i poeti di età carolingia avevano affrontato soprattutto temi di storia contemporanea o di passato recente: la scelta del poema epico, della narrazione ‘classica’ in esametri di avvenimenti lontani, è qualcosa di estremamente innovativo. È stato detto che, probabilmente, l’autore, non riuscendo a trovare nella sua lingua nazionale, ancora troppo rozza e povera, un valido strumento di espressione per il suo mondo intellettuale e sentimentale, preferì usare un mezzo espressivo collaudato da secoli di esperienza, come la lingua e la forma epica latina: ma è soltanto un’ipotesi, che certo nulla toglie alla forte carica innovativa dell’opera, ma che, per essere convalidata, necessiterebbe di informazioni sull’autore stesso e sul suo mondo, interiore ed esteriore.  Torniamo ai contenuti, dove pure, all’interno di un patrimonio di leggende diffuso, c’è qualcosa di assolutamente nuovo: ed è la tendenza antiguerresca. Non solo, infatti, la conclusione del poema è che, sempre, la guerra rappresenta un cattivo affare, ma c’è, nel corso della narrazione, una forte, e nemmeno tanto velata, polemica contro valori quali l’attaccamento ossessivo all’onore, alla faida, alla vendetta.  Già ai versi 22-26, di fronte all’esercito imponente di Attila che sta varcando il Danubio e marcia contro il suo regno, il re dei Franchi, Ghibicone, convoca il Consiglio e, immediatamente, decidono di scendere a patti con gli Unni, perché pagare tributi e concedere ostaggi sarà di sicuro assai meglio che «perdere tutti insieme la vita e il paese e i figli e le mogli». Vista l’imparità delle forze, la stessa scelta – in nome della salvezza della patria – viene fatta dal re dei Burgundi, quando Attila si appresta ad assalirne il regno (vv. 54-63). A fronte delle decisioni di Franchi e Burgundi, anche gli Aquitani optano infine per raggiungere un accordo, che non viene affatto sentito come disonorevole.  A partire dal verso 849 (e fino al v. 877), Hagen tenta di dissuadere il nipote dallo scontrarsi con Walther, e si scaglia contro la sete di oro e di possesso e contro il vano desiderio di lode e di gloria che induce gli uomini a sfidare la morte, in una sorta di furore (furor) e di pazzia (dementia).  Ai vv. 881-885, è poi Walther stesso che invita il giovane a desistere, a conservarsi per un destino migliore.  I vv. 941-955 mostrano i Franchi, incerti ed esitanti, chiedere al re di rinunciare a combattere, ma quello, «misero, delira, accecato dal furore», rivendica la giusta ira, sottolinea come sia preferibile la morte al disonore; con le sue parole, quel «demens – quel pazzo – infiamma i suoi guerrieri», che così dimenticano la propria vita e corrono verso la morte.     Al di là di tutto, il Waltharius è comunque la chiave che, meglio di tutte, ci fa comprendere quanto sia importante la letteratura latina medievale: come, per una valutazione completa delle letterature romanze e della letteratura germanica delle origini, sia indispensabile stabilire collegamenti con la letteratura latina coeva. Gli eroi delle leggende barbariche, prima di trovare i loro poeti ‘nazionali’, hanno parlato in latino: personaggi tipici dei nuovi popoli, per salire dal piano della trasmissione orale a quello della letteratura, hanno dovuto trovare una prima espressione nell’unica lingua che in quell’epoca potesse offrire solide strutture formali. Il Das Nibelungenlied, il noto poema anonimo del XII-XIII secolo, che, in circa ottomila versi (trentanove canti), tratta della tradizione storico-leggendaria germanica fin dalle sue origini; che ha ispirato Wagner nella composizione della sua tetralogia Anello del Nibelungo – L’oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei –, e che è in qualche modo presente anche nelle opere di J. R. R. Tolkien, può certamente essere meglio compreso a partire da quel suo piccolo, lontanissimo antenato che è il Waltharius. Si dice sempre che la latinità non è l’unica fonte di ispirazione o di imitazione per le nuove letterature nazionali, nelle quali confluiscono tradizioni germaniche e celtiche, e sulle quali la civiltà araba e la civiltà bizantina esercitano un fascino indubbio; ma, dicendo questo, si finisce di solito per identificare la “latinità” col mondoromano: sennonché la letteratura latina medievale è il tramite scritto che noi abbiamo fra mondo antico e nuovi mondi nascenti. Ed è lì che risiede la sua eccezionalità.