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Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo (Capitolo I. L’enciclopedismo / I. 4 XIII se

2025-03-23 18:32

Claudia Pandolfi

Letteratura latina medievale,

Essendo stati l’XI e il XII due secoli di straordinaria accumulazione critica in tutti i campi del sapere, nel XIII si manifesta l'esigenza di operare

Essendo stati l’XI e il XII due secoli di straordinaria accumulazione critica in tutti i campi del sapere, nel XIII si manifesta l'esigenza di operare una riflessione, e quasi una metabolizzazione, delle nuove conoscenze: si assiste così ad un perfezionamento di quello che è lo strumento principale di un sapere complessivo e sintetico, ovvero le enciclopedie, e si assiste, in forme diverse, ad una grande fioritura dell’enciclopedismo. Basti pensare al proliferare delle Summae (Somme), ovvero a quei numerosi compendi di trattazioni scientifiche, relative alla filosofia, alla teologia, al diritto, alla retorica, alla grammatica, ecc., la più insigne delle quali è la Somma teologica di Tommaso d’Aquino,  destinate ad offrire agli studiosi le parti sostanziali dei vari argomenti, concentrandole al massimo, ma senza omettere nulla di essenziale; e basti ricordare i nomi di Vincenzo di Béauvais, Bartolomeo Anglico, Tommaso di Cantimprè, Ruggero Bacone, Brunetto Latini, Giovanni da S. Gimignano.     Vincenzo di Béauvais (1190ca. – 1264)   Autore di diversi scritti, Vincenzo resta famoso soprattutto per la realizzazione di quella che rappresenta di fatto la più ampia enciclopedia del Medioevo, una sintesi ampia e complessiva della scienza e della cultura contemporanea, lo Speculum maius o Speculum mundi. Lo speculum è una delle più tipiche forme organizzative, enciclopediche ed eterogenee, del sapere medievale: probabilmente il termine rimandava per associazione allo specchio di cui scrive Paolo ai Corinzi («E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore»), metafora del mondo quale infinito gioco di specchi fra divino e umano, celeste e terreno, materiale e spirituale; il nome rimanda comunque alla concezione medievale di considerare la natura delle cose come uno specchio della realtà divina. Peraltro, dentro lo specchio – per usare le parole di Vincenzo de Béauvais – si trova tutto ciò che è degno di speculatio, ossia di ammirazione e imitazione. Esistono numerosi specula, di solito a carattere ‘monografico’: possiamo ricordare lo Speculum parvulorum di Autperto (secolo VIII), consistente in un commento all’Apocalisse destinato ad allievi di cultura elementare; lo Speculum iudiciale del giurista francese Guglielmo Durante (soprannominato speculator), raccolta di norme di procedura civile ed ecclesiastica del XII secolo; lo Speculum regum di Goffredo di Viterbo (XII secolo), una specie di storia universale in metrica .  Poche sono le notizie certe in relazione alla biografia di Vincenzo.  Domenicano, teologo e filosofo, sappiamo che fu superiore del convento di Béauvais, e che, amico di Luigi IX di Francia, fu da lui nominato lettore di teologia nell’abazia cistercense di Royaumont sull'Oise. In tale veste, pare che non avesse soltanto il compito di insegnare la teologia ai monaci, ma anche di predicare a corte, di fare ricerche e infine di fungere da consulente pedagogico per la famiglia reale. A questo scopo, su richiesta della regina Margherita, scrisse il De eruditione filiorum regalium o De eruditione filiorum nobilium, in cui trattò del modo d'insegnare e di apprendere, della disciplina degli educandi, dell'educazione morale, dell'educazione femminile all’interno delle famiglie nobili. Dobbiamo a lui anche una Consolatio indirizzata al re per la morte del figlio primogenito, un’epistola consolatoria per la morte di un amico, un trattato sull’educazione morale del principe, un libro sulle lodi della beata Vergine, alcuni trattati spirituali, dei discorsi, ecc.  La sua opera più importante, lo Speculum maius, scritta – come Vincenzo stesso afferma – dietro consiglio dei superiori, è divisa in tre sezioni: lo Speculum naturale, lo Speculum doctrinale e lo Speculum istoriale, che narra la storia umana da Adamo al 1250; ai tre venne poi aggiunto un quarto Speculum apocrifo (Speculum morale), compilato in realtà dopo la morte di Vincenzo.  Lo Speculum naturale, composto di trentadue libri, fornisce una visione scientifica dell'universo inquadrata nel racconto biblico della creazione: spiegando le meraviglie della natura, Vincenzo segue infatti l’ordine della creazione come descritto nella Genesi. Vi si tratta di Dio, degli angeli, dei diavoli e quindi della luce, del firmamento, degli elementi, delle piante, degli animali, e particolarmente dell'uomo, studiato nell’anima, nel corpo, e nel suo rapporto con Dio; lo Speculum doctrinale (in diciassette libri), si fonda sulla tesi secondo cui l'uomo può elevarsi dall'abisso in cui lo ha precipitato il peccato originale con l'aiuto delle scienze e delle arti, delle quali gli vengono dunque fornite le cognizioni generali (arti liberali, economia, diritto, medicina, fisica, matematica, teologia, ecc.); i trentuno libri dello Speculum historiale, in ordine cronologico, offrono una storia del mondo – soprattutto sotto l'aspetto culturale – dalla creazione fino al tredicesimo secolo.  Certamente compiuta nel 1244, l’opera subì in seguito ulteriori rimaneggiamenti nell'intento di rendere ognuna delle tre parti indipendente dall'altra mediante prologhi e riassunti delle sezioni escluse, e in tale assetto fu compiuta tra il 1256 e il 1259.  Come s’è detto, la sezione intitolata Speculum morale, che, in tre libri, tratta di etica e di teologia, non è autentica e fu aggiunta dopo il 1310 da un ignoto autore, in una sorta di sunto della Summa di Tommaso d’Aquino e di altre opere teologiche.  Esempio luminoso dell’enciclopedismo del XIII secolo, gli Specula di Vincenzo offrono piena testimonianza di quelli che sono i tratti caratterizzanti della cultura dell’epoca, col suo sapere strettamente connesso alla morale: vi troviamo infatti la riflessione a carattere filosofico e teologico sul sistema della natura; l’interrogativo sui percorsi della ragione e, conseguentemente, sui processi effettivi di investigazione della natura, nonché sulla Bibbia e sugli scritti esegetici degli antichi; la coscienza che il libro sia un luogo di memoria, speculum rerum naturae, che l’autore offre ad un pubblico per trasmettere una conoscenza fondata innanzi tutto sull’autorità del passato. Sul piano dei contenuti, rappresentano poi un documento eccezionale, in quanto, sulla base dello spoglio vastissimo di testi altrui, vi sono esposte e discusse le cognizioni allora correnti in ogni branca del sapere; da non sottovalutare, inoltre, il fatto che in essi siano anche contenuti spunti metodologici di non scarso spessore, come nel caso della questione intorno al modo di citare le fonti, che Vincenzo pone con grande rigore e serietà metodologica tutta ‘moderna’.    Bartolomeo Anglico   Filosofo francescano, fu a Oxford, poi a Parigi (verso il 1220), e infine a Magdeburgo (dal 1230).  Il De proprietatibus rerum, scritto attorno al 1240, è composto di diciannove libri ed è consacrato – come si evince anche dal titolo –alle scienze della natura.  In esso, nei primi nove libri, viene sviluppato un quadro che discende dall’incorporeo al corporeo (Dio, angeli, anima umana, corpo umano e sue parti e malattie, età del mondo, tempo); nei successivi dieci, si trova una descrizione di tipo filosofico relativa alle sostanze e agli elementi, alla natura e agli animali, alla geografia e alla alimentazione (materia e forma, aria, uccelli, acque, terra, regioni della terra, pietre e metalli, alberi e piante, animali, colori e odori e sapori e numeri e misure e pesi e strumenti musicali). Alcuni di questi libri ebbero circolazione autonoma come trattati di botanica, zoologia e medicina.  Come già gli Specula di Vincenzo, anche il De proprietatibus è un testo di interesse fondamentale per la storia della cultura medievale: basti ricordare che, già nel Trecento, esso fu tradotto in francese e in inglese; che nel Quattrocento circolò anche in volgarizzamenti tedeschi e olandesi; che, dal 1470 al 1500, conobbe più di quattordici edizioni.        Tommaso di Cantimprè (1201–1270/72)   Nato a Bruxelles, Tommaso entrò nell’ordine domenicano nel 1230 e fu allievo, a Colonia, di Alberto Magno, considerato come il più grande pensatore tedesco dell’epoca, maestro di teologia, esegesi, logica, morale, psicologia e metafisica, autore di trattati sui vegetali e le piante, sugli animali sul cibo, sullo spirito e la respirazione, sul cielo e il mondo, sulle meteore, sui minerali, ecc.. Passò poi a Parigi, ove studiò quattro anni, quindi a Lovanio, dove insegnò fino alla morte. Scrisse varie vite di santi che gli assegnano un posto di rilievo nell'agiografia e, in particolare, nel campo della biografia mistica. Gli si deve anche un trattato sul Bene universale, in cui si delinea un'ideale vita cristiana sotto l'immagine della vita delle api. Naturalista e compilatore erudito, il suo De rerum naturis è di fatto una enciclopedia di scienze naturali in venti libri spesso attribuita dalla tradizione manoscritta ad Alberto Magno. La fonte principale è Isidoro, da cui Tommaso trae elementi essenziali per analizzare l’antropologia, e per affrontare il discorso sugli animali, le piante, la cosmologia, la meteorologia e la dottrina degli elementi.        Ruggero Bacone (1214/20 –1292)   Dal 1241 al 1247, Bacone, che aveva studiato ad Oxford e a Parigi, insegnò all’università parigina. Subito dopo aver conseguito il titolo di Maestro delle Arti, si era distinto per esser stato uno dei primi a commentare estesamente i testi scientifici di Aristotele, da poco tradotti in latino dall'arabo.  Tornato a Oxford, nel 1257 entrò nell'ordine francescano.  Quando, nel 1265, divenne papa il francese Guy Le Gros de Foulques (col nome di Clemente IV), Bacone si propose di preparargli un programma di riforma degli studi, e, in soli diciotto mesi, scrisse l’Opus maius, l’Opus minus e l’Opus tertium, parti introduttive di un’opera enciclopedica destinata ad abbracciare tutto il sapere.  Nel 1268 il papa morì, e con lui caddero le speranze di Bacone sulla riforma, che rimase lettera morta.  Con l’Opus maius Bacone voleva convincere il papa di quanto vasto fosse il campo del sapere: ragion per cui vi tratta di una molteplicità impressionante di argomenti. Nella prima parte, si individuano gli ostacoli del sapere: innanzi tutto, la tendenza a nascondere la propria ignoranza; poi l’eccessivo peso dato all’autorità, che a volte si rivela fragile ed inattendibile; la consuetudine; il seguire l’opinione comune con tutti i suoi pregiudizi, facendo sfoggio di un sapere apparente. Nella seconda parte, si trattano i rapporti fra filosofia e teologia, con l’assunto che la filosofia, intesa come il complesso di tutto il sapere, serva alla scientia dominatrix della teologia. Nella terza parte, si insiste sull’utilità della grammatica e della conoscenza delle lingue per lo studio delle Scritture. Nella quarta parte, si tratta della matematica; nella quinta, dell’ottica; nella sesta, della scientia experimentalis, una delle radici della sapienza; nella settima, infine, della morale.  Gran parte della tematica dell’Opus maius viene ripresa e sviluppata nell’Opus tertium; l’Opus minus è una complementazione ed illustrazione dell’opera maggiore.  L’obiettivo generale è quello di gettare le basi culturali di una società cristiana, che abbia come fonte di ispirazione la sapientia cristiana: solo entro i confini di questa sapientia trovano posto le varie scienze.  Bacone aveva una spiccata sensibilità per il mondo della scienza e per la ricerca sperimentale, e, insieme ad Alberto Magno e a Roberto Grossatesta, fu tra coloro che maggiormente contribuirono alla ripresa degli studi scientifici nel Medioevo. Con quanto impegno e ardore egli si fosse dedicato alla ricerca scientifica è ben dimostrato dalla vastità delle informazioni e delle competenze di cui dà prova nelle sue opere, ma è anche esplicitato da lui nella parte iniziale della “Lettera-Prefazione” all’Opus maius e in un passo dell’Opus tertium  Nella prospettiva di Bacone, il progetto di una grande enciclopedia del sapere era inteso non come raccolta e accostamento di contenuti o materiali dati, bensì quale costruzione organica e innovativa: cogliere la totalità organica della cultura e ricostruirne i nessi essenziali era un mezzo per promuovere il rinnovamento complessivo della società. Per lui, le scienze sono ordinate in modo da costituire una completa giustificazione razionale del cristianesimo; e Dio ha rivelato agli uomini non solo le verità religiose e morali, ma anche tutte le scienze che risultano indispensabili alla composizione delle verità rivelate e all’organizzazione della vita individuale e sociale.  Le discipline più ‘nobili’, che dovranno costituire l'ossatura del progetto enciclopedico, sono per Bacone, nell’ordine, la morale, la scienza sperimentale, l’ottica, la matematica e la scienza delle lingue.  Nella morale si raccolgono i principi della dottrina cristiana, l'etica e la teoria dello Stato, a dimostrazione del fatto che le conquiste del sapere pagano dell'antichità trovano il loro compimento nei dettami della rivelazione cristiana. Il primato della morale ci illumina su un altro aspetto importante che contraddistingue l'opera di Bacone. Per lui, il progetto enciclopedico di riforma del sapere deve essere funzionale a un rinnovamento etico di tutta la società, di quella che egli chiama abitualmente la "repubblica cristiana". E si tratta di un processo che deve investire in primis le istituzioni della Chiesa, sempre minacciate dal rilassamento o dalla corruzione dei costumi. Il primato attribuito alla morale, in questo senso, salda in maniera significativa l'aspirazione tutta baconiana a un sapere di tipo pragmatico-operativo con la tradizione mistica e riformatrice che è caratteristica dell'intero movimento francescano. Il progetto enciclopedico costituisce una riforma complessiva del sapere del tempo che a sua volta anticipa la renovatio globale della Cristianità.  È proprio il primato attribuito alla scienza morale che permette di delineare le caratteristiche della "scienza sperimentale", che occupa il secondo posto nella scala dei valori: questa scienza, maestra di tutte quelle che seguono, ha infatti lo scopo di porsi al servizio della morale.  Con l'ottica, la matematica e la conoscenza della lingue, si completa lo schema.  Per quanto concerne l’ottica, Bacone, ricollegandosi ad Avicenna e a scienziati arabi, ne interpreta il ruolo nel quadro della cosiddetta “metafisica della luce” di Grossatesta. Bacone è convinto che attraverso questa disciplina ancora giovane, almeno per ciò che concerne il mondo cristiano, l'uomo possa arrivare alla conoscenza della struttura geometrico-matematica del cosmo, ché le leggi che governano il diffondersi della luce sono analoghe alle leggi causali che governano tutti gli altri processi della natura. Ne consegue che il fondamento dell'ottica rimanda alla quarta scienza, la matematica, vera chiave di volta di un universo che – come attestato dal libro della Sapienza 11, 21– fu creato da Dio «secondo numero, peso e misura».  Quanto alla conoscenza delle lingue, Bacone sostiene che un intellettuale cristiano non deve limitarsi alla conoscenza del latino ma deve ampliare l'orizzonte al greco, all'ebraico e anche all'arabo: importante, quest'ultimo, non solo al fine di impadronirsi dell'imponente patrimonio della cultura islamica, ma anche per ricondurre alla Cristianità i seguaci di Maometto utilizzando gli strumenti dell'apologetica, anziché ricorrere all'imposizione di dogmi per loro incomprensibili o, ancora peggio, alla guerra.     Giovanni da San Gimignano (1260/70 - post 1333)   Giovanni prese l'abito nel convento di S. Domenico di Siena in una data imprecisata. Ignoriamo dove si sia svolta la sua formazione: si ipotizza però un periodo di studio a Barcellona, dove egli avrebbe avuto contatti col mondo arabo.  La prima notizia sicura sul suo conto compare negli atti del capitolo provinciale di Pistoia del 1299, da cui risulta che egli veniva assegnato come lettore al convento di S. Maria sopra Minerva, a Roma. Nel 1310 era sicuramente priore del convento di Siena, carica che ricoprì fino al 1313. Durante il suo priorato il convento si arricchì di uno studium di teologia; sempre in questo periodo Giovanni, insieme con altri due confratelli, redasse la regola della Confraternita della Beata Vergine Maria e di S. Domenico. Dal 1318 al 1329 svolse un ruolo determinante nella fondazione di un convento domenicano a San Gimignano. Attraverso diverse donazioni, i possedimenti dei domenicani a San Gimignano aumentarono, finché, il 22 febbraio 1329, su richiesta del maestro generale dell'Ordine, papa Giovanni XXII permise la fondazione di un convento; il 4 luglio dello stesso anno Giovanni, accompagnato da due confratelli, si spostò da Siena per prendere possesso del nuovo convento. Ulteriori donazioni aumentarono l'estensione del convento stesso, e già nel 1331 il capitolo di Orvieto vi inviava un lettore, un baccelliere (titolo accademico che precede quello di dottore), quattro sacerdoti e un frate; l'anno successivo il capitolo di Roma assegnava alla comunità ulteriori membri.  La produzione letteraria di Giovanni è quasi completamente dedicata alla predicazione: diverse collezioni di sermoni, conservate in un buon numero di manoscritti e di edizioni antiche documentano un'intensa e continua attività omiletica, di buon livello dottrinale. E strettamente legata alla predicazione è anche la più importante delle opere di Giovanni, la sua enciclopedia morale intitolata Liber de exemplis et similitudinibus rerum, la cui datazione può essere fissata tra il 1298 e il 1314.  Il Liber, che conta ben cinquantasei manoscritti, è sicuramente opera di Giovanni, a dispetto di una attribuzione a un tale "Helvicus Theutonicus" contenuta in numerosi manoscritti ed edizioni. Le finalità omiletiche sono dichiarate apertamente: si tratta di fornire ai predicatori una ricca collezione di esempi e similitudini, da utilizzare all'interno dei sermoni al fine di istruire e di edificare. La maggior parte degli esempi sono tratti dalla Bibbia, ma si fa riferimento anche a una serie di scrittori sia sacri (Agostino, Gerolamo, Gregorio, Isidoro, Beda, Bernardo), sia profani (Cicerone, Seneca, Plinio, Aristotele, Platone, Avicenna, Ippocrate, Galeno, Costantino Africano, Solino, Tolomeo).  Nel prologo, oltre a dichiarare le finalità dell'opera, Giovanni specifica la natura degli esempi che costituiscono l'oggetto della sua indagine: a differenza dalle tradizionali raccolte di exempla, il Liber esclude programmaticamente ogni genere di racconto, per soffermarsi invece sugli esempi ‘naturali’. L'intero Universo diventa così un immenso repertorio di allegorie e di simboli messi a disposizione dei predicatori secondo un ordine sistematico che, partendo dalle realtà sensibili, passa poi ai prodotti dell'immaginazione e da ultimo alle elaborazioni della ragione.  L’opera, che si configura come un importante sussidio per la memoria dei predicatori, ai quali fornisce anche un ammaestramento tecnico e una serie di suggerimenti per facilitare il ricordo, è suddivisa in dieci libri, organizzati secondo l'ordine alfabetico: fornisce tutte le possibili associazioni tra una serie di soggetti di natura morale o teologica e i diversi ambiti degli esempi naturali che ne illustrano le caratteristiche, in maniera tale da fissarsi nella memoria tanto dei predicatori quanto degli ascoltatori.  Il primo libro è dedicato ai corpi semplici (elementi naturali e corpi celesti), ciascuno dei quali, secondo una tecnica costantemente impiegata nel corso dell'opera e largamente diffusa nella tradizione esegetica, può simboleggiare anche soggetti diversi: il fuoco è esempio di bontà o di astinenza, ma anche di accidia, simboleggia gli angeli, ma anche il peccato; le stelle sono i dottori della Chiesa o i santi; la Luna può alludere alla vita attiva, al peccatore o alla Vergine Maria.  Il secondo libro tratta dei corpi inanimati, elementi, pietre e metalli, il cui impiego a scopo morale è largamente attestato dalla Bibbia.  Sempre nella Bibbia, e in particolare nei Vangeli, trovano il loro prototipo le moralizzazioni tratte dal mondo vegetale che costituiscono il terzo libro.  Il quarto e il quinto libro sono dedicati agli animali, suddivisi nei due grandi gruppi dei pesci e dei volatili da una parte e degli animali terrestri dall'altra. Piuttosto brevi, ma molto numerosi, nonostante Giovanni dichiari di essersi limitato ai principali, gli esempi di animali sono introdotti da due prologhi che illustrano le molteplici relazioni che l'uomo intrattiene col mondo animale. L'ordine imposto da Dio all'atto della creazione prevede la subordinazione di tutti gli esseri viventi ad Adamo; il peccato, sconvolgendo quell'ordine, ne sovverte le regole a tutti i livelli e l'insubordinazione dell'uomo a Dio trascina con sé la disobbedienza degli animali, divenuti ormai una minaccia per la sua stessa sopravvivenza. Tuttavia anche nell'Universo ormai sconvolto l'uomo può trarre molti vantaggi dagli animali: può nutrirsi delle loro carni, il cui consumo gli viene consentito da Dio dopo il diluvio, può sfruttare la loro forza per il suo lavoro, può trarre da loro utili rimedi per la sua salute. Ma soprattutto l'uomo trova nel mondo animale una serie sconfinata di salutari lezioni di ordine morale. Animali reali e animali fantastici, descritti soprattutto da Isidoro di Siviglia e dal Phisiologus, si alternano a simboleggiare, non sempre in maniera univoca, le realtà spirituali: gli uccelli sono per lo più i contemplativi, ma la rondine allude alla lascivia e la cornacchia alla vecchia mezzana; il monaco è simile alla tartaruga, il prelato al cameleopardo, il tiranno all'unicorno o al camaleonte, mentre la iena può simboleggiare tanto la morte quanto l'incostanza. Nei novantotto ‘minacciosi’ capitoli del IV libro vengono coinvolti persino i passerotti, colpevoli di eccessiva lussuria.  Nei centoventiquattro capitoli del V libro, un occhio di riguardo è dedicato solo alla tartaruga (21), che, con la sua vita ‘claustrale’ richiama la santa esistenza di appartatezza e privazioni dei monaci (anche se – si aggiunge – «ci sono alcuni monasteri velenosi e mortiferi»).  La parte forse più interessante dell'enciclopedia è il libro VI, dedicato al corpo umano. Un lungo prologo pieno di riferimenti alle dottrine filosofiche del mondo greco affronta il problema della natura composita dell'uomo e dei molteplici rapporti che intercorrono tra anima e corpo. Definibile in termini aristotelici come unione di materia e forma, la relazione che lega l'anima al corpo ammette tutta una serie di letture diverse: il corpo infatti in tutte le sue parti è strumento dell'anima, ma è anche un peso che le impedisce di innalzarsi troppo, un carcere dal quale uscire al più presto, uno stimolo continuo alla lotta, un servo da mortificare attraverso le pratiche ascetiche e soprattutto un exemplar in cui l'uomo può leggere le norme del suo stesso comportamento. Attorno all'idea dell'uomo esteriore come simbolo dell'uomo interiore e alla metafora centrale del Cristo medico dell'anima, si aggrega un ricco repertorio di immagini, nel quale Giovanni dimostra una conoscenza piuttosto vasta delle fonti mediche anche più recenti. Il modello medico funziona a diversi livelli e consente non solo di leggere in chiave morale l'anatomia e la fisiologia del corpo umano, ma anche di stabilire precise corrispondenze tra i diversi stadi della malattia, i suoi sintomi e le sue terapie e le attitudini morali dell'uomo: passioni, vizi, virtù, progressi spirituali, ecc. Ci troviamo qui di fronte ad una operazione di fisiognomica: gli attivi e i contemplativi sono come le mandibole (2), che occorrono entrambe per mangiare e dare sostentamento a tutto il corpo; la bile ricorda l’amarezza dei penitenti (3); i piedi sono assimilati all’amor charitatis (4), ché due sono i piedi e duplice è l’amore dell’uomo (verso dio e verso il prossimo), e i piedi sono la parte finale del corpo così come la carità è la virtù finale; le mani sono le opere dell’uomo e le braccia ricordano le sue capacità, rafforzate dal torace, sede della pienezza della mens e scrigno dell’anima, ecc.. I peli sono le ricchezze, ma la barba allude alla fortezza degli uomini di spirito probo, e i capelli sono i pensieri, ecc. La bocca è il predicatore di Dio.  Ai prodotti dell'attività immaginativa è dedicato il settimo libro, che si occupa dei sogni, proponendone una dettagliata casistica accompagnata dall'analisi delle molteplici cause da cui essi derivano. Le regole di interpretazione messe a punto dai filosofi antichi possono costituire un utile supporto alla spiegazione dei numerosi sogni presenti nella Scrittura.  I restanti tre libri sono dedicati all'attività razionale dell'uomo e ai suoi prodotti.  Il libro ottavo, il più astratto e teorico, il più etico-filosofico, tratta dell'attività legislativa, e le due grandi aree entro cui sistemare la concezione del diritto sono quelle dell’obbedienza e della trasgressione. Nel prologo è delineata una sintetica tipologia delle diverse leggi e una breve storia del diritto. Fra le molte similitudini di carattere giuridico impiegate dalla Scrittura particolarmente ricco è il discorso che si articola attorno al tema del giudizio del Cristo alla fine del mondo.  Il libro nono si occupa invece delle tecniche manuali, delle quali Giovanni spiega l'origine e la natura di rimedio del peccato originale, fornendo una delle più dettagliate tassonomie delle arti meccaniche, che va dalle diverse tecniche agricole, alle distinzioni più specialistiche della lavorazione dei metalli, fino alle arti della scrittura e della produzione libraria o alla costruzione di strumenti musicali. L’assunto iniziale è che l’anima dell’uomo è come un campo che deve essere coltivato: l’avarizia, arida, fa seccare questo campo e suggerisce pessime scelte; le buone intenzioni e le buone opere devono essere custodite dall’uomo come gli alveari sono custoditi dalle api. Se viene meno la carità, nulla può essere fatto, come il fabbro non può lavorare il ferro quando è freddo… Gli uomini sono api operose e l’ozio non deve sopraffare la loro natura… Il predicatore è come il seminatore, che, per seminare bene, deve seguire quattro regole: la qualità del luogo, l’opportunità del momento, la quantità della semina, la sua utilità.  Il decimo libro, brevissimo, analizza le altre forme di attività umana (nonché i costumi e le abitudini), distinguendole a seconda delle diverse persone che le svolgono (uomini o donne, chierici o laici).  L'intera produzione di Giovanni è contrassegnata da una forte omogeneità di stile, che tende ad attenuare le distanze fra i diversi generi letterari: i trattati esegetici sono abbastanza simili ai sermoni, ma molti dei sermonari tendono ad assumere la fisionomia del trattato. Ancor più stretti i legami tra i sermoni e l'enciclopedia; se la raccolta De operibus sex dierum (diciassette sermoni, legati al periodo dell'avvento) si configura come una trasposizione, a tratti letterale, del materiale enciclopedico all'interno dei sermoni, il Liber de exemplis mutua la sua impostazione dal genere sermocinale in funzione del quale è stato composto: il prologo generale e i prologhi che introducono i singoli libri sono strutturati a partire da un versetto biblico, del quale, secondo il modello dei sermoni, sviluppano e dilatano le distinzioni.  Più scontate le corrispondenze tra i Sermones de sanctis (centoquaranta sermoni, destinati ad essere predicati in volgare, databili fra il 1323 e il 1327) e l'unica opera di carattere agiografico che Giovanni ha composto, ovvero la Legenda di S. Fina, patrona di San Gimignano, morta nel 1253. La Legenda, commissionata a Giovanni da frate Coccio, rettore dell'ospedale di San Gimignano dedicato alla santa, fu composta intorno al 1300: il racconto della vita della giovane Fina, morta all'età di quindici anni dopo una vita di sofferenze, è tratteggiato a tinte molto forti e punta a fornire un modello di santità in chiave eroica, soffermandosi molto anche sui miracoli che scandiscono il momento del trapasso della santa e seguono la sua sepoltura.  Il Liber de exemplis et similitudinibus rerum  si salda molto indietro a testi quali il De rerum naturis (o De universo) di Rabano Mauro, oppure il De naturis rerum di Alessandro Neckam, con anche qualche curiosità e metodo di lavoro che ricordano a tratti il De natura rerum di Isidoro e quello di Beda.  La sua particolarità, o forse la sua unicità, consiste però nel fatto che, più che ad una complessa struttura enciclopedica, si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un immenso catalogo di metafore. Qualcuno, considerando anche lo schema alfabetico che si ritrova nell’intero svolgersi dell’opera, ha detto anzi che il Liber è in realtà un vocabolario dell’anima: la summa di tutta l’opera omiletica di Giovanni, messa in forma di enciclopedia.     Brunetto Latini (1220 ca / 1294)   Nel 1260, quando comincia a profilarsi la rovina del partito guelfo in Italia, Brunetto viene inviato in Castiglia quale ambasciatore dei Fiorentini presso il re Alfonso X (il Savio), per sollecitarne l’aiuto. Sulla via del ritorno, una lettera del padre lo informa della sua condanna all’esilio da parte dei ghibellini, vincitori della battaglia di Montaperti: si ferma perciò in Francia, dove svolge la sua attività notarile – come già prima a Firenze – in diverse città. Nel 1266, appena apprende la notizia della sconfitta dei ghibellini a Benevento (26 febbraio), ritorna nella sua città, dove risulta presente già in data 16 marzo. Già prima dell’esilio impegnato nella vita politica fiorentina, la sua influenza in tale campo aumenta progressivamente, fino alla nomina a Priore nel 1287. Muore onoratissimo qualche anno dopo.     Il secolo XIII, sotto il profilo della sua produzione letteraria in prosa è ancora sostanzialmente, anche in Italia, un secolo medievale. La letteratura retorica e giuridica, la trattatistica, la letteratura agiografica, la produzione storiografica e quella teologico-filosofica, la stessa prosa narrativa presentano profondi legami con i due secoli precedenti: tuttavia, l’ossatura ideologica è sottoposta ad una pressione sempre più forte e urgente, dovuta a spinte di carattere politico, sociale ed economico, che incidono profondamente sulle vecchie costanti culturali. La radicale trasformazione della società, con l’avvento di nuove classi sociali, porta ad un rapido laicizza mento e ammodernamento della cultura; le fonti stesse del sapere, a partire dalla metà del secolo, vengono modificate e riplasmate, e, in una sorta di rivoluzione linguistico-letteraria, si assiste al consolidamento del volgare, per soddisfare un pubblico più vasto.  Da una parte, la nuova cultura del Duecento si nutre delle fonti della più recente letteratura medievale, messa a sua disposizione dai numerosi volgarizzatori; dall’altra, gli ideali recenti di nobiltà cortese, di eroismo cavalleresco, di vita raffinata e galante, illuminati da un cristianesimo per così dire terreno e mondano, avvincono i nuovi aristocratici e i borghesi, causando la diffusione di volgarizzamenti dal francese.  Nell’ambito della prosa, sul finire del secolo la prosa in volgare accompagna in maniera sempre più forte quella in latino, fino a contrastarle il passo in ogni settore.  È nell’ambito della letteratura istituzionale, burocratica e curialesca e, più precisamente, nell’ambito dell’attività notarile e genericamente giuridica, che vengono ad aprirsi le vie attraverso cui il volgare irrompe nel latino. Infatti, la prosa latina, depositaria del diritto, della legge papale e imperiale, era una prosa alta, dove l’ars dictandi aveva un ruolo universalmente riconosciuto (basti pensare all’epistolario di Pier delle Vigne, collaboratore di Federico II, dove troviamo un uso sicuro ed efficace dei mezzi della retorica, senza alcuna esagerazione manieristica; oppure al bolognese Accursio): da un lato, la necessità del documento linguisticamente più accessibile; dall’altra, l’esigenza di un documento stilisticamente accettabile anche se scritto in volgare, fecero sì che, proprio al suo interno, si attuasse quella rivoluzione linguistica cui si è accennato. L’origine del cambiamento è bene individuabile nella cerchia dei giuristi bolognesi: e non a caso è a Bologna che, per opera di frate Guidotto, compare il primo volgarizzamento della Rhetorica ad Erennium (o Rethorica nova), col titolo Fiore di rettorica .  Più o meno nello stesso periodo, a Firenze, che peraltro aveva stretti contatti con il centro culturale attivissimo di Bologna, il notaio Brunetto Latini, nella sua Rettorica, traduceva e chiosava la Rhetorica vetus, ovvero il De inventione di Cicerone, e volgarizzava tre orazioni ciceroniane.  Se, nella prospettiva storica del Duecento, la fama di Brunetto è legata alla sua Rettorica  e agli altri suoi volgarizzamenti ciceroniani, sia per la questione del trionfo del volgare anche negli scritti in prosa, sia per la coscienza e gli intendimenti con cui egli, assieme ad altri, si avvicinano ai classici, riconoscendone il valore autonomo, e prefigurando così un clima pre-umanistico, ai suoi tempi l’autore fu soprattutto famoso per Li livres du Tresor, il frutto più tipicamente medievale della sua cultura, insieme con la sua attività di epistolografo curiale.  Il Tesoro è una enciclopedia in tre libri, ed è scritto in lingua francese (lingua d’oil): è un prodotto medievale, dal punto di vista dei contenuti, ma, essendo scritta nel volgare più diffuso, si rivolge ad un pubblico diverso da quello ‘tradizionale’.  Brunetto sceglie il francese, pur essendo italiano, per due ragioni: l’una, perché mentre compone l’opera, vive in Francia; l’altra, perché – come egli stesso afferma – «il parlare è più gradevole e comune a più genti».  I tre libri trattano rispettivamente di storia e storia naturale (astronomia, geografia, zoologia), di filosofia pratica, di retorica e politica: nel I, Brunetto attinge a numerosissime fonti, fra cui Isidoro, e naturalmente alla Bibbia; il II contiene una traduzione dell’Etica aristotelica, mutuata dal compendio di Ermanno il Tedesco del 1246, e un trattato sui vizi e le virtù, ispirato principalmente alla più o meno contemporanea Summa aurea de virtutibus del domenicano lionese Guglielmo Perault (Peraldo) nonché ad altre numerose fonti minori; nel III, confluiscono la traduzione del De inventione di Cicerone, con spunti dal De rhetorice cognitione di Boezio, da opere del contemporaneo Giovanni da Viterbo, oltre che da documenti della vita comunale italiana.  Gli oltre settanta manoscritti in cui può leggersi il Tesoro ne testimoniano la diffusione e la grande fortuna; ma l’opera fu anche ben presto tradotta in italiano, forse dal giudice podestarile Bono Giamboni (attribuzione oggi generalmente misconosciuta, dopo gli studi di Cesare Segre), e da questo volgarizzamento derivano numerose altre compilazioni. Essa rispondeva evidentemente ai reali e vivi bisogni dell’epoca, particolarmente per il suo ultimo libro, che, di fatto, ne fa insieme col resto, un perfetto manuale di formazione dell’uomo politico (particolarmente interessante, al riguardo, il programma per l’insegnamento della politica tracciato da Brunetto).     Brunetto fu anche un mediocre verseggiatore: entrambi composti durante l’esilio francese sono il Tesoretto (in volgare fiorentino) e il Favolello (breve poemetto, anch’esso in volgare, sull’amicizia), in settenari, a rima baciata.  Il Tesoretto, che si interrompe dopo circa tremila versi, contiene, sotto forma di allegoria un trattato di filosofia naturale, di filosofia morale, e l’inizio di una esposizione delle Arti liberali: riassunto della materia presente nel Tesoro, in esso si conferma dunque la vocazione compilatoria dell’autore, che, contemporaneamente ad esso, componeva molto probabilmente il Tesoro (la materia del quale è, in forma ridotta, quella del Tesoretto).     Il piano del Tesoro è esposto nel capitolo di esordio; nei capitoli 2-5 del primo libro troviamo poi una esposizione del sistema delle scienze, molto significativa per comprendere lo spirito dell’opera. Questo sistema si trova anche nella Rettorica (17,7-20), ma con una differenza nell’ordine delle tre scienze principali (pratica, logica, teorica). Nel Tesoro, che in qualche modo riscrive e supera la Rettorica entro un disegno di ben più ampio respiro, l’ordine è infatti: teorica, pratica, logica.  Fondamentale è, in entrambe le opere, la collocazione della retorica all’interno della politica: questa della centralità della retorica è la grande novità degli scritti di Brunetto, in piena armonia con gli sviluppi della cultura italiana del duecento.  La messa in pratica di questa ‘scoperta’ entro un vasto disegno enciclopedico è forse il significato più vero e profondo del Tesoro: la retorica, scienza persuasiva e solo incidentalmente letteraria, è lo strumento fondamentale di azione sul mondo della città, per una figura che abbia una vasta conoscenza della natura delle cose (I libro), e dimestichezza con i problemi dell’etica.