Come s’è detto (v. Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo (Capitolo I. L’enciclopedismo / I. 4,1a. Boezio e Cassiodoro), Anicio Manlio Severino Boezio è autore di scritti filosofici e teologici, di traduzioni e commenti ad Aristotele, nonché di trattati sulle arti del quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia). Tutti questi scritti sono importantissimi, ed hanno di fatto costituito il 'manuale' della logica nei primi secoli del Medioevo, ma, sicuramente, la sua opera più famosa è il De consolatione Philosophiae / La consolazione della Filosofia, da lui scritto in carcere nel 524, poco prima di essere messo a morte per l’accusa di avere congiurato contro Teodorico: un classico della letteratura europea, in cui si fondono mirabilmente filosofia e grande letteratura, cultura greca e latina, nonché drammatiche esperienze personali; un libro che ebbe grande fortuna per tutto il Medioevo, esercitando un forte influsso, a partire dalla rinascenza carolingia, su tutto il pensiero medievale, e la cui fortuna non si interruppe nemmeno nell’età moderna. Basti ricordare che il testo ci è tramandato da diverse centinaia di codici (risalenti in gran parte ai secoli IX-XI, ma anche ai secoli successivi) sparsi in tutte le biblioteche d’Europa; che la sua prima edizione risale al 1471, dopo di che molte altre sono seguite; che, a partiredal Cinquecento, le sue traduzioni e commenti sono innumerevoli in tutta Europa.Il titolo – Consolatio – riconduce chiaramente a Seneca, l’inventore del genere nella letteratura latina: e a Seneca fa pensare non soltanto il titolo, ma soprattutto il fatto che l’opera affronti ampiamente il tema del rapporto fra gli studi e il dolore, inserendosi nel ricco filone letterario che considera gli studi, più o meno genericamente intesi, come medicina dell’animo, concetto molto caro a Seneca, che compare spessissimo proprio nelle sue tre Consolationes (ad Marciam , ad Polybium e ad Helviam matrem), strettamente legate come esse sono appunto al tema del dolore. A prescindere però dal titolo, l’opera non è una consolatio nel senso tradizionale del termine, ma si presenta come una specie di protreptikos (una esortazione). Nella sua forma letteraria, rivela inoltre una mescolanza di elementi appartenenti a generi letterari diversi: il che ha prodotto tutta una serie di ipotesi diverse, compresa quella che si tratti di una rivisitazione del genere apocalittico (apocalipsys = rivelazione, nella particolare accezione di comunicazione divina, in forma misteriosa e solenne, relativa ai destini dell’umanità e del mondo). Il quadro generale è quello di un dialogo, alternato però con lunghe parti poetiche nel genere del prosimetro o Satira Menippea; il dialogo si svolge fra Boezio e una ‘apparizione’ – la Filosofia –, una personificazione che attiene all’allegoria. Questa 'drammatizzazione' di idee astratte è già presente negli autori cristiani (in Tertulliano, in Agostino, in Prudenzio) e anche nella tradizione della letteratura profana (Marziano Capella), e dunque la figura di Filosofia si colloca in una tradizione letteraria secolare, ma la forte originalità di Boezio consiste soprattutto nel modo in cui egli mescola ad un'immagine letteraria tradizionale forti elementi autobiografici. Questi ultimi sono concentrati nel primo dei cinque libri in cui è divisa la Consolatio. Ad un Boezio in carcere, malato, caduto in uno stato di prostrazione e di avvilimento, appare una donna misteriosa: «dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità degli uomini. Il suo colorito era luminoso e mostrava un inesauribile vigore, benché fosse tanto carica di anni da non potersi credere in alcun modo che appartenesse alla nostra epoca. La sua statura non era facile da valutare: ora infatti si manteneva entro i limiti della normale statura umana, ora sembrava invece toccare il cielo con la sommità del capo […]. Le sue vesti erano intessute con raffinato artificio di fili sottilissimi di un materiale incorruttibile», e le aveva confezionate lei stessa. «Nel loro lembo inferiore si leggeva ricamato un p greco, e in quello superiore un theta, e, fra le due lettere apparivano alcuni gradini, per mezzo dei quali risalire dalla lettera inferiore a quella superiore. E però le mani di alcuni violenti avevano strappato quella veste, portandone via quanti più brandelli avevano potuto. La donna reggeva nella mano destra dei libri e nella sinistra uno scettro» (I, 1). In questa descrizione, fortemente simbolica, dove il p indica la praxis (attività pratica) e il theta la teoresi (attività teoretica), a strappare pezzi dal mantello di Filosofia erano stati quegli pseudofilosofi come gli epicurei e gli stoici, che in realtà degradavano la filosofia stessa: «E poiché in costoro si scorgeva una qualche traccia del mio abito – dirà infatti più avanti Filosofia (I, 3) – l’umana imprudenza, ritenendo che fossero miei discepoli, rovinò parecchi di loro, traendo così in inganno la moltitudine profana» (sulla veste strappata di Filosofia, v. anche Rosvita di Gandersheim). Questa apparizione, dopo avere scacciato le Muse, che – «sirene rovinosamente incantevoli» – circondano Boezio suggerendogli le parole del suo lamento, si china su di lui e gli annuncia di essere venuta a guarirlo. Riconosciuta in lei la Filosofia, Boezio espone le proprie dolorose vicende, con le false accuse subite da accusatori infami, e confessa di non sapersi dare ragione del disordine da cui sembrano governate le cose umane. La Filosofia lo incalza, ma Boezio rimane comunque esitante. «Sono queste le ricompense che ottengo per esserti devoto? Eppure sei tu ad avere proclamato, per bocca di Platone, che felici saranno gli Stati se a governarli saranno i filosofi, o se i loro governanti vorranno dedicarsi alla filosofia […]. Io dunque, attenendomi a questo tuo autorevole insegnamento, mi sforzai di tradurre nella pratica della pubblica amministrazione ciò che avevo appreso nei miei studi solitari […]. Da qui i gravi ed irriducibili contrasti con i malvagi; da qui - questo è ciò che comporta la libertà di coscienza – il mio costante disprezzo per l’ostilità dei potenti, quando era in gioco la difesa del diritto. Quante volte affrontai Conigasto, che era deciso a privare dei loro beni con la violenza tutti gli indifesi, e quante volte indussi Triggvilla, prefetto della casa reale, a recedere da un atto iniquo […]! Non ti pare che io abbia concentrato a sufficienza su di me gravi motivi di contrasto? […]. E invece per opera di quali accusatori sono stato colpito? Tra loro, un Basilio, già allontanato dal servizio del re, è stato indotto a denunciarmi per l’urgenza di pagare dei debiti […]. Ma tu vorrai conoscere la sostanza del delitto di cui sono accusato. Ecco: si dice che ho voluto salvare il senato […]. L’accusa è di avere impedito ad una spia di esibire documenti coi quali voleva incriminare il senato per lesa maestà […]. Lo volli e non cesserò mai di volerlo. Confesserò allora? […]. Che senso ha poi parlare delle lettere apocrife, per mezzo delle quali mi si accusa di aver sperato nel ritorno della libertà romana? La loro falsità sarebbe emersa apertamente, se mi fosse stato concesso di avvalermi della testimonianza degli stessi delatori […]. Sarà forse una caratteristica della nostra natura imperfetta il volere il male, ma è mostruoso che, sotto lo sguardo di Dio, ogni scellerato possa mettere a segno contro l’innocente tutto ciò che gli viene in mente. […]. Quelli stessi che mi denunciarono si resero però conto della nobiltà della mia colpa, e decisero allora di intorbidare le acque, aggiungendo sul mio conto un altro delitto, e inventarono la falsa accusa che, per ambizione, mi ero macchiato di un sacrilegio […]. Il fardello estremo della sorte avvers lo si ritiene meritevole dei mali di cui soffre consiste nel fatto che prima si imputa una qualche colpa a un infelice e poi lo si ritiene meritevole dei mali di cui soffre […]. Mi pare già di vedere le nefande conventicole degli scellerati scatenarsi gioendo ed esultando, e i peggiori delinquenti minacciare nuovi inganni e nuove calunnie, mentre i buoni sono prostrati dal terrore della mia disgrazia». Quanto ai libri successivi, il secondo è tutto incentrato sul problema della fortuna, mentre tema centrale del terzo libro è la felicità. Il quarto libro affronta l’argomento della presenza del male nel mondo, presenza inspiegabile se si ammette l’esistenza di un Dio, Sommo Bene e supremo reggitore del creato: in particolare, si rileva l’assurdità del fatto che, sotto il suo governo, i malvagi trionfino e i buoni siano perseguitati. Filosofia dimostra come in realtà i malvagi, nonostante le apparenze, siano sempre infelici, e lo siano tanto più quanto più si allontanano dal bene con cui la felicità coincide; sottolinea quindi l’estrema difficoltà che la mente umana incontra nel riconoscere l’ordine provvidenziale che regola l’universo. Nel quinto libro, l’accento è posto sui rapporti fra la prescienza divina e la libertà umana, per arrivare all’affermazione del libero arbitrio e della responsabilità delle proprie azioni da parte degli uomini, fondamento e presupposto della moralità. Complessivamente, ci troviamo di fronte ad una forma letteraria di grande originalità e complessità, scritta in una lingua e in uno stile di grande purismo classicista: una forma letteraria l’essenza del cui contenuto è peraltro altrettanto complessa da definire. Non è chiaro quale sia il ruolo della donna Filosofia nel dialogo: se in essa ci sia il semplice riconoscimento, da parte di Boezio, della funzione svolta dalla filosofia nella sua vita, come guida dell’anima; se in essa sia identificabile la saggezza divina, o la ragione, o la ragione di Boezio (col che saremmo di fronte alla descrizione di un dialogo interiore). Non è chiaro se la Consolatio sia, o voglia essere, un’opera cristiana: in essa, elementi immediatamente riconoscibili come cristiani sono quasi del tutto assenti (le poche citazioni bibliche identificabili sono al massimo vaghe reminiscenze, il nome di Cristo non compare mai, il Dio di Boezio sembra essere più il Dio astratto dei filosofi che il Dio personale dei cristiani); d’altra parte, però, non ci sono nemmeno elementi nettamente pagani, anche se taluni critici li hanno voluti riscontrare nella parte dedicata alla fortuna; come non ci sono peraltro enunciati contrari alla dottrina e alla fede cristiana. Dato che ormai si è concordi nel ritenere che Boezio sia stato cristiano, a meno di non accettare l’ipotesi di un Boezio che avrebbe perso la sua fede poco prima di morire (ipotesi a suo tempo avanzata, ma respinta oggi da tutti gli studiosi, sulla base di indagini testuali), resta da capire quale sia stata la ragione per cui Boezio abbia escluso da quest’opera tutti gli elementi cristiani: e non è certo facile. Suggestiva è la spiegazione data al riguardo da alcuni studiosi, fra cui Christine Mohrmann (Boezio, La consolazione della Filosofia, BUR 2001), secondo cui Boezio avrebbe voluto distinguere fra ragione umana e dottrina della fede: filosofo per vocazione e per predilezione, trovandosi in prigione, Boezio si sarebbe reso conto che non avrebbe potuto portare a termine il suo progetto di rendere accessibile ai suoi compatrioti l’eredità della grande filosofia greca; nello stesso tempo, sarebbe stato indotto ad interrogarsi sul vero valore di quella filosofia alla quale aveva votato tutta la sua vita, arrivando a dubitarne. Sforzandosi di mostrare quale potesse essere il valore della filosofia anche nelle situazioni più tragiche della vita umana, e volendo nel contempo dare una sintesi di ciò che non avrebbe più potuto analizzare compiutamente ed esporre nei particolari, Boezio avrebbe dunque sentito il bisogno e il dovere di giustificarsi di fronte a se stesso, e contestualmente di pagare il debito che pensava di avere nei confronti di suoi lettori e delle loro attese. Spiegazione suggestiva, che, ovviamente, non può che restare nel campo delle pure ipotesi. Tornando al primo libro e ai riferimenti autobiografici in esso presenti, va sottolineato come questa presenza rappresenti una eccezionalità nel corpus delle opere di Boezio, che, al contrario, mostrano ben rari agganci con le vicende della sua vita. Tutta la Consolatio può invece definirsi come una sorta di asistematica biografia: Boezio apre al lettore la propria anima attraverso il ricordo delle esperienze culturali giovanili, il rammarico per le speranze tradite, la rievocazione delle accuse calunniose e dell’ingiusto processo subito, la preparazione alla morte attraverso le considerazioni sulla instabilità della fortuna… Ma con quali intenti Boezio la scrisse, e a quali destinatari intendeva rivolgersi, sono domande che, nuovamente, hanno solo risposte ipotetiche. Che sia stata composta in carcere ben risulta dal contesto, ma non si comprende bene se la situazione fosse già totalmente compromessa o fosse tale da poter ancora far sperare in una riabilitazione: in quest’ultimo caso, l’ampia autodifesa potrebbe essere rivolta a Teodorico, in un estremo tentativo di ottenere appunto una riabilitazione. Ma i destinatari potrebbero anche essere i posteri, di fronte ai quali Boezio intende proclamare la propria innocenza, e ai quali intende offrire una ‘salvezza’ contro l’incostanza della fortuna. E infine Boezio potrebbe avere scritto la Consolatio prevalentemente per se stesso, pur non escludendo un suo utilizzo futuro da parte dei lettori, nell’ipotesi che il suo scritto potesse sopravvivergli. Come s’è accennato, alcuni critici hanno voluto riscontrare elementi pagani nelle parti della Consolatio dedicate alla fortuna, e, più precisamente, nel II libro. Sennonché, non solo le riflessioni dei Greci sulla Tyche (Fortuna), su questa divinità terribile e incontrollabile, rappresentano l’origine della riflessione occidentale sulla felicità (v. La felicità: fra "felicitas" e "beatitudo"), ma il rapporto tra fortuna e felicità è presente in tutti i modelli di felicità, sia quelli filosofici che quelli più specificamente cristiani: la felicità rappresenta un tema centrale in molte riflessioni filosofiche e in numerosissimi scritti di carattere teologico, e tutte le analisi e le teorie relative ad essa non possono prescindere dal ruolo della fortuna nel destino umano (al riguardo, v. anche Il tema della felicità nei "Carmina Burana"). Non a caso, un tema molto importante della Consolatio – forse il più importante – è proprio quello della felicità, che, centrale nel III libro, sottende, con maggiore o minore frequenza, tutti i libri a prescindere dal V. Già nei distici iniziali (canto I, v.17 ss.), quando ha accanto a sé le Muse come compagne fedeli, nel suo lamento Boezio recita «Mentre con beni fugaci mi allettava l'infida fortuna, già un destino doloroso si preparava a sommergere la mia vita; ed ora che esso, rabbuiatosi, ha mostrato il suo volto fallace, si prolunga con ingrati indugi la scellerata vita. Perché, amici, tante volte esaltaste la mia felicità? (me felicem totiens iactastis)»: dove al tema della felicità – o meglio dell'infelicità – si unisce quello della male fida fortuna. E l'infelicità – l'infelicità di Boezio, però generalizzata e considerata come la conseguenza di una situazione disastrosa dell'umanità – è anche il motivo del canto VII che chiude il I libro. La prima accusa che Filosofia rivolge alle Muse della poesia (I, 1) è che esse «soffocano fra le sterili spine dei sentimenti la messe della ragione rigogliosa di frutti, e, anziché liberare la mente umana dalla malattia, ne provocano l'assuefazione (mentes assuefaciunt morbo)»: e da notare che questo motivo tornerà ampiamente nel IV libro, al cap. 4, dove ad essere definita morbus animorum è la vitiositas (disposizione al vizio), che conduce all'improbitas, «malattia ben più grave di qualsiasi esaurimento fisico». La ragione, la ratio, è l'arma per liberare la mente umana dalla malattia del dolore, per riacquistare coscienza di sé, senza lasciarsi offuscare dagli avvenimenti terreni (I, 2). La filosofia porta al vigore dell'animo, fornisce armi che proteggono ed aiutano a sopportare i più pesanti fardelli, è maestra di tutte le virtù. Spesso oggetto di accuse in società che sono corrotte, deve sostenere grandi battaglie, e i suoi discepoli, avendo come aspirazione quella di dispiacere ai perversi, sono necessariamente sballottati in balìa delle tempeste, ma sono riparati dietro una trincea verso cui gli assalitori non possono neanche avvicinarsi (I, 3). «Chiunque sereno per una vita ben regolata schiaccia sotto i piedi il fato superbo e, guardando in faccia la buona e la mala sorte, sa mantenere impassibile il volto, costui non smuoveranno né la rabbia del mare minaccioso […] né il guizzo dell'ardente folgore avvezza a colpire le alte torri» (canto IV, v.1ss.). Chi non spera nulla, chi non teme nulla è in grado di disarmare ogni furia. «Chiunque invece trepidante teme o brama, poiché non ha sicura padronanza di sé, è lui stesso che getta lo scudo e, cedendo terreno, annoda le catene da cui sarà trascinato» (vv. 15-19). Ed è qui enunciato il principio dell'autosufficienza: il saggio rimane invictus perché non ha timori, perché non ha speranze, perché non ha desideri. Boezio è stato nel numero dei sapientes, ha esercitato la virtus, ha seguito Dio secondo i principi della filosofia: ma ora, a causa della lubrica fortuna, della fortuna fallace, «la chiara virtù è avvolta in oscure tenebre e giace nascosta» (canto V, v. 34): è maestus et lacrimans, miser et exsul (mesto e lacrimoso, infelice ed esule I, 5). In realtà – dice Filosofia – si è semplicemente smarrito. Il mondo non è «mosso dal caso cieco e disordinato, ma Dio presiede come creatore alla sua opera», il mondo è retto dalla ratio: e Boezio lo sa, anche se il dolore ha paralizzato la sua memoria. Boezio ha cessato di sapere che cosa egli stesso sia: ora deve rimuovere «le tenebre di affetti fallaci, per poter riconoscere lo splendore della vera luce» (I, 6). «Se vuoi con chiaro sguardo vedere il vero, e indirizzare il tuo cammino sulla retta via, – gli suggerisce dunque Filosofia – scaccia i piaceri, scaccia il timore, bandisci anche la speranza, e non ci sia posto per il dolore. Nebulosa è la mente e inceppata da freni, dove regnano queste cose» (canto VII, vv. 20-31). Nel II libro, incentrato sulla fortuna, i riferimenti alla felicità sono molto più frequenti che nel I. La fortuna – dice Filosofia – è un essere mostruoso dai molteplici travestimenti, che trae in inganno gli uomini per poi sconvolgerli con insopportabile dolore, stravolgendone anche lo spirito e distruggendone la serenità (tranquillitas). La fortuna è mutevole, perfida, fugace nei suoi favori, superba, feroce, ingannevole, insensibile, funesta (II, 1). La felicità (felicitas) legata alla fortuna è destinata a sparire rapidamente; per converso, in una sola ora qualcuno può essere prima abbattuto e poi felice (felix). Ricchezze, onori, e tutti gli altri beni del genere sono di sua proprietà, e con lei vengono, e con lei se ne vanno (II, 2). Boezio non deve ostinarsi a credersi infelice (miser) quando nella sua vita ha avuto tanto di fortuna e di felicità (felicitas) sia negli affetti che negli onori. «Se il godimento di cose mortali ha un qualche peso di felicità (ullum beatitudinis pondus), il cumulo di mali poi sopravvenuti, per quanto grande esso sia, non potrà mai cancellarne il ricordo» (II, 3). Boezio non deve lasciarsi turbare da «un vuoto nome di felicità derivante dalla fortuna» (inane nomen fortuitae felicitatis), ma deve considerare quanto grandi e numerosi siano i beni di cui ancora gode – dal suocero ancora vivo e incolume, alla moglie eccezionale e devota, ai figli ricchi di ingegno –; non deve dire che l'essere stato felice (felix) costituisce la forma più straziante di dolore; non deve lamentarsi perché alla sua felicità – beatitudo – manca qualcosa. «Chi mai possiede una felicità così perfetta – composita felicitas – da non sentirsi, per qualche aspetto, in conflitto con il tenore del proprio stato? La condizione dei beni umani è precaria e tale che non si realizza mai pienamente, o, comunque, non perdura in modo stabile […]; quanto più una persona è felice – felix – tanto più esigente si fa la sua sensibilità, e […], se non trova ogni cosa pronta ad un suo cenno, non essendo abituata ad alcuna forma di contrarietà, si avvilisce anche di fronte alla minima di esse: tanto sono inconsistenti i fatti in grado di abbattere per le persone più fortunate il grado più alto di felicità (summa beatitudinis)». La felicità (felicitas) non va cercata all'esterno (extra), ma dentro di noi, senza lasciarci irretire dall'errore e dall'ignoranza. In sintesi, la suprema felicità (summa felicitas) consiste nell'essere padroni di noi stessi, ed essa (beatitudo) non può assolutamente trovarsi in cose fortuite. «Se la beatitudo è il bene supremo – summum bonum – di una natura che si regola secondo ragione, e non può definirsi bene supremo quello che in qualche modo può essere tolto, poiché gli è superiore quello che non può essere tolto, risulta evidente che la fortuna, per la sua instabilità, non può aspirare alla realizzazione della felicità – della beatitudo –. Inoltre, chi si lascia trasportare dalla felicità (felicitas) passeggera della fortuna o sa che essa è mutevole o non lo sa. Se non lo sa, quale condizione felice (beata sors) potrebbe mai esserci in una cieca ignoranza? Se lo sa, è fatale che tema di perdere ciò che, come appunto egli ben sa, è soggetto ad essere perduto; perciò la continua ansia (timor) non gli permette di essere felice (felix)». «E poiché – continua Filosofia – tu sei persona, come io ben so, profondamente convinta per numerosissime prove che gli spiriti (mentes) umani non sono assolutamente mortali, e poiché è evidente che la felicità derivante dalla fortuna (fortuita felicitas) ha termine con la morte del corpo, non può esservi dubbio che, qualora essa conduca alla felicità (beatitudo), tutto il genere umano alla conclusione della morte precipiti nell'infelicità (in miseriam). Se poi teniamo presente che molti hanno cercato il godimento della felicità (beatitudinis fructum) non soltanto affrontando la morte, ma anche a prezzo di dolori e sacrifici, in che modo la felicità fortuita può rendere felici (beati) gli uomini quando è presente, se non li rende infelici (miseri) quando è assente?» (II, 4). La fortuna può essere avversa o prospera: paradossalmente, arreca più vantaggi quando è avversa, perché, prospera (felix), illude gli uomini con una falsa apparenza di felicità (specie felicitatis), li inganna; mentre, avversa, ammaestra e non incatena le menti con l'apparenza di beni menzogneri, ma le libera attraverso la consapevolezza di quanto la felicità sia fragile. «Insomma, la prosperità, con le sue lusinghe, trascina gli uomini a deviare dal vero bene, mentre l'avversità, con il suo artiglio, li riconduce normalmente ai veri beni» (II, 8). Nel III libro, che poi esamineremo più dettagliatamente, Filosofia – come essa stessa afferma all’inizio del libro IV – ha mostrato a Boezio la vera immagine della felicità (verae formam beatitudinis) e gli ha mostrato dove essa si trovi (IV, 1). Lo ha portato a concludere che «ogni tendenza della volontà umana, che pure è sollecitata da interessi diversi, converge verso la felicità (beatitudo)», e che «la beatitudo coincide col bene stesso» cosicché, «quando si aspira alla beatitudo, si tende tutti al bene» (IV, 2). Gli ha mostrato che «la beatitudo coincide con quello stesso bene in vista del quale si fanno tutte le cose» e che, «poiché è la stessa bontà ad essere beatitudo, è evidente che i buoni, per il fatto stesso di essere buoni, risultano felici». Ha assodato «che coloro che sono beati partecipano della natura divina, sono dèi» e che «c'è dunque per i buoni una ricompensa che non può essere logorata dal tempo, né menomata da alcun potere, né offuscata da malvagità alcuna: è il diventare dèi» (IV, 3). Ma il cammino non è finito. Che i malvagi trionfino e i buoni siano perseguitati, che la virtù sia calpestata e prosperi l'iniquità in un mondo governato da un essere che si identifica con il bene, richiede infatti che Filosofia dimostri come si tratti solo di una apparenza ingannevole. In realtà, nonostante le apparenze, i buoni sono felici (felices), i cattivi invece infelici (miseri): e il discorso si sviluppa in maniera serrata in IV, 4, dove, in poche paginette, si susseguono una trentina di aggettivi e sostantivi inerenti alla felicità e soprattutto alla infelicità. Più avanti (IV, 5) ricompare il termine felicitas contrapposto a miseria, in relazione alle azioni degli onesti e dei disonesti; e si parla ancora di felicitas indigne acta – indegnamente vissuta – che conduce a meritata rovina (IV, 6). Alla fine del ragionamento, emerge quella che potrebbe sembrare una conclusione sorprendente (quiddam valde inopinabile): «risulta buona, interamente e in ogni caso, la sorte di coloro che sono in possesso della virtù, o in cammino verso di essa, o vicini a raggiungerla, mentre è assolutamente orrenda la sorte di coloro che rimangono nella malvagità (in improbitate)» (IV, 7). E veniamo al III libro, in cui si dimostra che la felicità è il massimo dei beni. Per raggiungere la felicità, non bisogna inseguire i falsi beni, ma risalire ad un Bene perfetto, e questo non potrà essere altri che Dio: Dio è il fine supremo cui tutti gli uomini, consapevolmente o inconsapevolmente, tendono. Boezio, riconfortato, sente di poter far fronte ai colpi della fortuna ed è pronto ad andare oltre. Il traguardo cui Filosofia si propone di condurlo è la vera felicità (vera felicitas): quella felicità che l'animo di Boezio sogna, ma che non è in grado di vedere, distratto com'è da immagini illusorie. Inizialmente, Filosofia si sofferma su quel tipo di felicità che Boezio conosce, ovvero quella illusoria: perché per contrasto, volgendo lo sguardo dalla parte opposta, egli possa poi riconoscere la vera felicità (vera beatitudo). Tutti gli uomini si sforzano di raggiungere la meta della felicità – beatitudinis finem –: raggiungerla è il sommo bene, che racchiude in sé tutti gli altri, che non lascia altro da desiderare. «È evidente quindi che la felicità – beatitudo – consiste in uno stato di perfezione conseguente alla presenza di tutti i beni». Gli uomini però si lasciano fuorviare dall'errore e trascinare verso falsi beni: le ricchezze, le cariche onorifiche, il potere, la gloria. Alcuni misurano il bene dalla gioia e dall'allegria – gaudium, laetitia – che esso procura e dunque reputano cosa felicissima – felicissimum – vivere immersi nei piaceri. E c'è chi mescola obiettivi e cause, e così «aspira alla ricchezza in vista del potere e dei piaceri, oppure punta al potere in considerazione dell'arricchimento che ne può derivare o della possibilità di estendere la propria notorietà». L'immagine della felicità umana – felicitatis humanae – è tutta qui: «ricchezze, onori, potere, gloria, piaceri. Prendendo appunto in considerazione solo queste cose, Epicuro, conseguentemente alle sue premesse, sostenne che il bene supremo si identifica col piacere, dal momento che tutto il resto sembra fatto per contribuire alla soddisfazione dell'animo». Resta il fatto che l'animo umano, «benché ne abbia una visione offuscata, è tuttavia alla ricerca del suo bene, ma, a guisa di un ubriaco, ha smarrito il sentiero per ritornare a casa» (III, 2). Gli uomini riescono dunque a scorgere il vero fine della beatitudo (ed è questo il termine maggiormente ricorrente in tutto il libro, ad indicare la felicità), si lasciano condurre verso il vero bene dalle loro naturali inclinazioni, ma se ne lasciano allontanare dall'errore, da molteplici errori. Il denaro, la ricchezza, il resto non sono in grado di realizzare ciò che promettono, ovvero l'autosufficienza, uno stato in cui non manchi nulla. Ad esempio, le ricchezze, finché ci sono, possono far dimenticare il bisogno, ma non possono sopprimerlo, e poi per l'avidità niente è mai bastante (III, 3): è così per le cariche e gli onori (III, 4), e per il potere (III, 5), e per la gloria (III, 6); e ancora di più per i «piaceri del corpo, che, mentre si desiderano riempiono di ansietà, e quando poi se ne è sazi generano rimorso» (III, 7). Tutto questo è falsa felicità – mendax felicitas […]. Vera et perfecta felicitas è quella che rende autosufficienti, potenti, rispettabili, celebri e lieti». Sennonché una condizione di questo tipo non è raggiungibile attraverso cose mortali e caduche, che non sono in grado di procurare il bene vero e perfetto: come sostiene Platone, per meritare di scoprire la dimora di quel bene supremo, occorre implorare la protezione divina – divinum praesidium (III, 9). In quale direzione si trova il modello perfetto di felicità (perfectio felicitatis)? Dato per certo che esiste una felicità piena e perfetta, e che «la pienezza del sommo e perfetto bene» è in Dio, l’aver dimostrato che il perfetto bene coincide con la vera felicità (beatitudo) porta inevitabilmente a concludere che «la vera felicità si trova nel sommo Dio»: che anzi «Dio è la felicità stessa (ipsa beatitudo)» (III, 10). Autosufficienza, potenza, rispettabilità, fama e gioia, prese singolarmente, non sono «beni veri e perfetti». Il vero bene si realizza invece quando si raccolgono, si identificano, costituiscono una sola e identica cosa: giungono a diventare beni solo mediante l'unità. Tutto ciò che esiste può durare e sussistere finché rimane uno, ma è destinato a morire e a dissolversi quando cessa di essere uno: così è per gli uomini, nell'unione di anima e corpo; così è per i corpi animati, nell'unità delle membra; così è anche per le erbe e le piante, nell'unità col proprio terreno, ecc.. «Tutte le cose avvertono l'esigenza di unità […]. L'uno e il bene sono la stessa cosa […]. Tutte le cose tendono al bene», ovvero «il bene è propriamente ciò a cui tutti aspirano […]. Il fine di tutti gli esseri è il bene» (III, 11). Dio è onnipotente e tutto può. Ma Dio è il bene e non può fare il male: «il male dunque non esiste, dal momento che non lo può fare colui che non c'è nulla che non possa fare» (III, 12). Il canto XII che chiude il libro, e che inizia «Felice chi poté osservare la risplendente fonte del bene, felice chi poté liberarsi dai lacci della terra pesante», riprende il mito di Orfeo e, in riferimento allo sguardo che Orfeo, contravvenendo all’ordine del re degli Inferi, rivolge ad Euridice perdendola così per sempre, legge allegoricamente quello sguardo come l’attrazione esercitata sull’uomo dal mondo terreno, e, ai vv. 50-58, conclude: «Questo mito allude a chiunque di voi aspiri ad elevare lo spirito verso la luce celeste: se, vinto, volge gli occhi a riguardare il tenebroso regno del Tartaro, guardando il mondo inferiore perde in un attimo tutto ciò che ha di più prezioso» (sul mito di Orfeo, v. Claudia Pandolfi, "Fantasmi dell'antica Roma e altre storie", self publishing 2015). Abbiamo detto che non è chiaro se la Consolatio sia o voglia essere un'opera cristiana; e, alla luce di una sua attenta lettura, per parte mia non riesco a trovare risposte certe anche riguardo al ‘credo filosofico’ di Boezio che da essa emerge: sicuramente vi si rintracciano elementi platonici e forti tracce di teorie neoplatoniche, ma l’impressione generale – in particolare per chi, come me, non è uno storico della filosofia – è quella di un misurato eclettismo. In ogni caso, al di là dello spessore filosofico, è innegabile lo spessore letterario della Consolatio, col dramma umano che ne sottende la scrittura: con la testimonianza del superamento del dramma di un’anima attraverso la fede nei valori dell’uomo e della coscienza. E ritengo che il messaggio trasmesso da Boezio – non importa se volutamente o inconsapevolmente – sia che la filosofia, più che strategie forti di felicità – individuali o collettive – debba o possa offrire un rifugio onorevole di fronte alla miseria del mondo: alla fine, dopo la lettura del testo, rimane forte il senso di dover evitare i deliri dell'ambizione e di dover coltivare la propria ratio; rimane forte l'impressione che ci sia un solo modo per essere felici, ovvero perseguire il bene dello spirito, sottraendosi all’esempio dei plures e convincendosi che a noi uomini non occorre nulla di ‘esterno’, nessuno di quei beni illusorii di cui ci rendiamo schiavi. La saggezza è innanzi tutto educazione di sé, che ci pone nelle migliori condizioni per affrontare il difficile compito di vivere.