Particolarmente interessante si rivela il libro XII della Naturalis historia di Plinio, il primo dedicato al mondo vegetale, che contiene anche un ricco elenco di spezie, resine e gommoresine, essenze, piante medicinali, ecc., che arrivavano a Roma da paesi lontani, e che erano particolarmente soggette a modificazioni fraudolente. Al capitolo 14 si parla del PEPE prodotto in India e delle sue tre specie: il pepe lungo, il pepe bianco e il pepe nero. Al di là delle imprecisioni al riguardo, ciò che interessa è quello che Plinio afferma in relazione al piper longum, il pepe lungo, laddove scrive che «il pepe lungo viene adulterato (adulteratur) molto facilmente con la senape di Alessandria», aggiungendo che «il pepe lungo si compra per 15 denari a libbra, quello bianco per 7 e quello nero per 4»; poco più avanti, scrive che «anche in Italia c’è un albero del pepe, più grande del mirto e abbastanza simile ad esso. Si può pure credere che il suoi grani – aggiunge – abbiano il medesimo gusto pungente del pepe fresco, ma ad essi manca di maturare ed essiccare al sole e di conseguenza non assomigliano al pepe indiano né per la rugosità né per il colore». Anche se non identificabile con certezza, è probabile che Plinio intendesse alludere all’anacardiacea nota come pianta del falso pepe (schinus molle): quella che produce il pepe rosa, appunto un falso pepe: conduce in questa direzione anche l’annotazione finale, che proprio alle bacche del ‘pepe rosa’ e alla loro effettiva scarsezza di peso parrebbe far riferimento. Fedele al significato della parola adulterare, ancora oggi vigente, che concerne sia l’aggiunta nei vari generi alimentari di sostanze estranee alla loro normale composizione, sia i modi di accrescerne il peso o il volume, Plinio conclude infatti così: «Il pepe viene adulterato con le bacche di ginepro, che ne assorbono mirabilmente il sapore; molti sono infine gli espedienti per aumentarne il peso» (XII, 14). Poco dopo aver parlato del pepe, Plinio parla di altre spezie e piante che si trovano in India, come il caryophyllon, o chiodo di garofano, che assomiglia al grano del pepe, ma è più grande e fragile; e somiglianza col pepe – aggiunge – ha anche «un arbusto spinoso dal sapore particolarmente pungente. Le sue foglie sono piccole e folte come quelle dell’henné, i rami raggiungono il metro e mezzo di altezza, la corteccia è pallida, la radice è larga e legnosa, di colore giallastro. Facendola bollire nell’acqua col suo seme dentro un vaso di bronzo, si ottiene un medicamento che si chiama LYCIUM». «Un arbusto spinoso molto simile nasce anche sul monte Pelio, ed è usato per adulterare il lycium, parimenti alla radice di asfodelo o al fiele di bue o l’assenzio o il sommacco o la morchia. Il più efficace come medicamento è il lycium schiumoso: gli Indiani lo spediscono in otri di pelle di cammello o di rinoceronte. In Grecia c’è chi chiama l’arbusto spinoso col nome di phyxacanthus chironius» (XII, 15). Non è facile appurare a quale arbusto specifico dell’India si riferisca Plinio, così come non è di facile identificazione l’arbusto chiamato in Grecia phyxacanthus chironius. E il discorso più che chiarirsi si complica quando, più avanti, parlando ancora del lycium e della sua preparazione, e rimarcando ulteriormente le sue possibili adulterazioni – «con succhi amari, e anche con la morchia e il fiele bovino» –, Plinio sostiene che lo si può ottenere anche facendo bollire i rami pesti e la radice del ranno silvestre, altro arbusto difficilmente identificabile (forse Rhamnus alpina). Quanto agli utilizzi del lycium, esso serve, generalmente, per curare le infiammazioni degli occhi e delle gengive, la rogna, il mal di orecchie, la tosse, le ragadi, le piaghe; è efficace per ridurre il flusso mestruale; e quello di origine indiana, infine, è particolarmente efficace per curare i genitali (XXIV, 76-77). Originario della Battriana, è – scrive Plinio – il pregiatissimo BDELLIUM, un «albero nero, della grandezza di un ulivo, con foglie simili a quelle del rovere, che produce un frutto simile a quello del caprifico. La natura del suo frutto è quella della gomma: gomma che alcuni chiamano brochon, altri malacha, altri maldacon; nera e appallottolata è chiamata hadrobolon. Deve essere trasparente come la cera, profumata e, quando la si sminuzza, viscosa, dal gusto amaro ma non acido. Mescolata al vino nei riti sacri, diventa più odorosa. L’albero cresce anche in Arabia e in India, e in Media e a Babilonia. Alcuni chiamano peraticum lo bdellium originario della Media: è una specie più fragile, ha la corteccia più crostosa ed è più amaro. Quello indiano, invece, è più umido e gommoso. Quest’ultimo, lo si adultera con le mandorle, mentre le altre specie con la corteccia dello scordastus – così si chiama un albero che produce anch’esso gomma: ma le contraffazioni si scoprono (sia detto una volta per tutte anche per tutti gli altri profumi) dal colore, dal peso, dal sapore, dalla reazione al fuoco. Lo bdellium della Battriana ha una asciutta lucentezza e presenta numerose lamelle bianche, e inoltre ha un suo peso specifico, rispetto al quale non dovrebbe essere né più pesante né più leggero. Il prezzo di quello puro è di 3 denari a libbra». Anche in questo caso, l’identificazione della pianta – del pregiatissimo bdellium – non è certa, ma potrebbe trattarsi della Amyris commiphora della famiglia delle Burseraceae: ciò che è comunque certo è che “bdellio” è, ancora oggi, il nome di una gommoresina, che si ricava da varie specie di gommifere. Ancora più sconosciuto risulta essere lo scordastus (XII, 19). Il capitolo 26 è dedicato al NARDO, la cui foglia è una delle principali componenti degli unguenti: («È un arbusto – scrive Plinio – dalla radice pesante e grossa, ma corta, nera e fragile, pur se succosa: odora di muffa, come il cyperus, è di sapore asprigno, e ha foglie piccole e folte; la sua cima si divide in spighe, e così è doppiamente famoso per le spighe e per le foglie. Una sua seconda specie, che nasce sulle rive del Gange, per il suo odore nauseabondo è bollata col nome di ozaenitidos. Lo si adultera anche con lo pseudo-nardo: pianta dalle foglie più carnose e più larghe, dal colore smorto tendente al bianco, che cresce dappertutto. Parimenti lo si adultera, per aumentarne il peso, mescolandovi la sua stessa radice, la gomma e l’argentite, oppure l’antimonio, il cyperus o la corteccia di cyperus. Il nardo puro si riconosce dalla leggerezza, dal colore rossiccio, dalla soavità dell’odore e soprattutto dal gusto, che lascia la bocca asciutta, nonché dal suo sapore piacevole. Il prezzo delle spighe è di 100 denari a libbra; il prezzo delle foglie varia in base alla grandezza. Il nardo con le foglie più grandi è chiamato hadrosphaerum, e costa 40 denari a libbra; quello di foglia più piccola si chiama mesosphaerum, e si compra per 60 denari a libbra; il più pregiato è il microsphaerum, dalle foglie piccolissime, il cui prezzo è di 75 denari. Tutti fanno odore, ma profumano di più da freschi […]. Da noi, dopo il nardo indiano, è particolarmente apprezzato quello siriaco, poi quello gallico e per terzo il cretese […]. Il nardo campestre , di cui tratteremo parlando dei fiori, si chiama baccaris. In ogni caso, tutti questi tipi di nardo sono erbe, ad eccezione del nardo indiano. Il gallico viene divelto con la radice e lavato col vino; viene poi essiccato all’ombra e legato in piccoli mazzi avvolti nella carta; non è molto diverso da quello indiano, ma è più leggero del siriaco. Costa 3 denari a libbra […]. Col nardo gallico cresce sempre un’erba chiamata hirculus per il suo odore greve e per così dire caprino, ed è soprattutto con questa erba che il nardo gallico viene adulterato. Si differenzia dal nardo perché è senza fusto, le sue foglie sono più piccole e le sue radici non sono né amare né odorose» (XII, 26). Molte sono in questo passo le piante che non siamo in grado di identificare con certezza: se pare indubbio che il nardo indiano sia il Nardostachys jatamansi, qualche perplessità c’è sulla specie di cipero di cui parla Plinio (cyperus rotundus o longus o esculentus); sconosciuta è la varietà di nardo chiamata ozaenitidos, quasi certamente dal nome della città della città sacra di Ozene; lo pseudo-nardo potrebbe essere la lavanda a foglie strette o la latifolia; il nardo campestre o baccaris potrebbe essere l’elicriso o la digitale purpurea; il nardo gallico parrebbe identificabile con la valeriana celtica, mentre l’hirculus parrebbe essere la valeriana saxatilis. Del cardo campestre si riparlerà nel libro XXI, dedicato appunto ai fiori, e se ne metteranno in luce le proprietà curative contro i morsi dei serpenti, per le infiammazioni al fegato e ai reni, per il travaso di bile e l’idropisia (79). Del CARDAMOMO, chiamato anticamente amomo, si legge: «I grappoli di amomo che noi usiamo provengono – secondo l’opinione di alcuni – da una vite selvatica indiana […]. L’amomo più pregiato è quello che ha le foglie lisce, simili al melograno, ed è di colore rosso; per secondo viene quello più pallido; il verde è peggiore, e il più scadente di tutti è quello diventato bianco, cosa che accade quando è vecchio. Il prezzo dei grappoli è di 60 denari a libbra; quello dell’amomo sminuzzato è di 48 […].Viene adulterato con le foglie del melograno e con la gomma liquida, in modo da farlo coagulare e ridurlo in aggregati simili a grappoli d’uva» (XII, 28). Al capitolo 30, ancora all’interno di quella che potremmo chiamare la sezione indiana, Plinio, derogando all’ordine stabilito, apre una lunga parentesi sulla cosiddetta Arabia felix, che, fra i vari paesi confinanti con l’Impero, era fonte di grande interesse per la ricerca di raffinatezze di vario genere. Fra le sue ricchezze, sono annoverati la mirra e l’INCENSO, di cui l’Arabia era l’unica produttrice. In relazione a quest’ultimo, dopo aver annotato come non sia ben chiaro quale sia l’aspetto dell’albero che lo produce, Plinio passa a descriverne accuratamente la raccolta: «Un tempo la raccolta si faceva una volta all’anno, perché se ne vendeva di meno; ora, per la ricerca del profitto, se ne fanno due. La prima e naturale raccolta avviene attorno al sorgere della Canicola, nei giorni di caldo torrido, incidendo là dove il tronco appare più gonfio e la corteccia più sottile per la tensione. L’apertura viene allargata senza togliere nulla: ne esce quindi una schiuma grassa, che si lascia ispessire e coagulare, o su una stuoia di foglie di palma o sull’area circostante ben battuta tutto intorno, a seconda della natura del luogo. Col primo modo l’incenso è più puro, ma col secondo è più pesante. Quello che rimane attaccato all’albero viene tolto con un attrezzo di ferro, e perciò vi rimane mescolata un po’ di corteccia […]. Ciò che le piante hanno prodotto durante l’estate si raccoglie in autunno: e si tratta di un incenso purissimo e candido. La seconda raccolta si fa a primavera, e per questa le incisioni si praticano in inverno: in questo caso, fuoriesce un prodotto rossastro non paragonabile all’altro». Plinio procede poi nella descrizione, soffermandosi sulle varie credenze, sulla qualità, sulla nomenclatura, sul trasporto e i suoi costi: costi che, uniti a quelli della lavorazione, necessariamente incidono sul prezzo, così che «una libbra di incenso della qualità migliore costa 6 denari, 5 denari a libbra quello di seconda qualità, e 3 quello di terza». «Si riconosce la qualità dell’incenso – conclude – dal candore, dalla grandezza, dalla fragilità, dal fatto che messo sui carboni arda subito, e dal fatto che, morso, non conservi l’impronta del dente, ma si sbricioli. Da noi viene adulterato con gemme di resina bianca, straordinariamente simili, ma l’adulterazione si scopre nei modi in cui s’è detto» (XII, 32). La stessa sorte dell’incenso tocca alla MIRRA: «Anche gli alberi della mirra vengono incisi due volte all’anno e nei medesimi tempi dell’incenso, ma dalla radice fino ai rami robusti. Di contro però, gli alberi trasudano spontaneamente prima dell’incisione, goccia a goccia, una mirra oleosa chiamata “stacte”, di cui non ce n’è alcuna migliore; sia che grondi da alberi coltivati che da alberi selvatici, la mirra migliore è quella estiva […]. I nostri profumieri ne distinguono facilmente la qualità dall’odore e dalla oleosità. Ve ne sono molte specie […]. I prezzi variano a seconda della richiesta di mercato: la qualità chiamata “stacte” costa fino a 50 denari a libbra, la mirra coltivata può arrivare al massimo a 11 denari […]. Viene adulterata con pallottole di resina di lentisco e gomma, come pure col succo di cetriolo per renderne amaro il sapore, e anche con l’argentite per aumentarne il peso. Altri difetti si scoprono assaggiandola, perché le gomme risultano viscose sotto i denti. In modo pessimo la si adultera poi con la mirra indiana, che si raccoglie appunto in India da un arbusto spinoso. Questo solo prodotto nasce in India peggiore che altrove, ed è tanto peggiore da essere facilmente distinguibile» (XII, 33-35). La mirra indiana – continua Plinio – può trasformarsi in MASTICE, ma il mastice stesso è prodotto anche da un altro arbusto spinoso, che nasce sia in India che in Arabia, e che viene chiamato laina. Anche del mastice esistono diverse specie, fra cui la più rinomata è il mastice bianco di Chio, che si produce dal lentisco, e il cui prezzo ammonta a 10 denari a libbra, laddove il nero ne costa solo 2. «Come l’incenso, il mastice di Chio si adultera con la resina bianca» (XII, 36). Non è dato sapere a quale arbusto sia dato il nome di laina, ma non è da escludere che il testo sia corrotto e che il termine laina vada sostituito con lannea, ovverosia una famiglia diversificata di piante, composta da arbusti e alberi, che producono una resina irritante. Soggetta a possibili adulterazioni è anche l’oleoresina aromatica chiamata LADANO. «A tutt’oggi – recita il capitolo 37 – l’Arabia si gloria anche del ladano […]. Le capre, animali del resto molto dannosi per il fogliame, e ancora più golosi degli arbusti profumati, quasi che ne capissero il valore, strappano via i fusti dei germogli, pieni di un liquore dolcissimo, e, fortuitamente, i peli della loro barba assorbono abbondantemente il succo che ne cola. Questo si raggruma con la polvere e si cuoce al sole, cosicché nel ladano si trovano peli di capra […]. Gli scrittori più recenti chiamano questo prodotto storbon, e riferiscono che le foreste arabe sono letteralmente devastate dalla voracità delle capre, ragion per cui il succo aderisce ai loro peli e vi si mescola, ma asseriscono che il ladano autentico appartiene all’isola di Cipro […]. Secondo questi autori, anche a Cipro il ladano ha un’origine simile, e consiste nella sostanza detta oesypum che si attacca alla barba dei caproni e alle loro guance villose, ma quando mangiano il fiore dell’edera nei loro pascoli mattutini, allorché l’isola è bagnata di rugiada; poi, dopo che il sole ha dissolto la nebbia, la polvere aderisce ai peli madidi e così il ladano si può tirare via con un pettine». Esisterebbero almeno tre diversi tipi di ladano: uno raccolto dagli animali; un secondo che si depositerebbe a terra su un’erba particolare e, raccolto, verrebbe confezionato in panetti; un terzo che si otterrebbe incidendo la corteccia di un albero, apparentato con quello dell’incenso, e raccogliendone la gommoresina su pelli di capra. «Il prezzo della qualità più pregiata è di 40 assi a libbra. Si adultera con le bacche di mirto e con altre lordure di animali. Il profumo del ladano puro deve essere selvatico e odorare per così dire di deserto; deve essere secco a vedersi ma deve ammorbidirsi non appena lo si tocchi; acceso, deve produrre una fiamma lucente dall’odore piacevole. Quello adulterato col mirto si riconosce dall’odore greve e dal fatto che scoppietta sul fuoco. Inoltre, a quello puro è più facile che si attacchino piccoli frammenti di sassi anziché polvere» (XII, 37). Al capitolo 41 si legge: «L’Arabia non ha né il CINNAMOMO (la cannella) né la CANNELLA CASSIA, e ciononostante è detta “felice” […]. Felice l’ha resa la nostra smodata ricerca del lusso persino nella morte, usando, per bruciare i defunti, quelle sostanze che si sapevano essere nate per sacrificare agli dei […]. E ancora più felice è il mare d’Arabia, perché da lì vengono le perle, e per questo l’India e i Seri e quella penisola sottraggono ogni anno al nostro impero come minimo 100 milioni di sesterzi: tanto ci costano i lussi e le donne». Seguono poi i capitoli 42 e 43 dedicati appunto alle due piante, originarie dell’Etiopia, attorno alle quali aleggiano varie leggende. Della cassia, Plinio scrive che «nessun prodotto registra prezzi tanto diversi: dai 50 denari a libbra per la qualità migliore ai 5 per le altre»; e conclude: «A queste specie i mercanti hanno aggiunto la cosiddetta Daphnidis , ingannevolmente chiamata isocinnamo, e la vendono a 300 denari. Viene adulterata con lo storace (vedi sotto) e, per la somiglianza della corteccia, con i ramoscelli più sottili dell’alloro. Viene coltivata anche nella nostra parte del mondo, ed io stesso l’ho vista piantata in mezzo ad alveari, all’estremo confine dell’impero, dove scorre il Reno. Le manca quel colore arso dato dal sole, e per questo le manca parimenti l’odore» (XII, 43). Il capitolo 49 ci porta nella parte dell’Africa «che sta sotto l’Etiopia», nelle cui distese di sabbia si raccoglie quella che Plinio chiama hammoniaci lacrima (LACRIMA DI AMMONIACO): “lacrima” che stilla da un albero chiamato metopon in maniera simile alla resina o alla gomma. Ce ne sarebbero di sue specie, ovvero il thrauston – simile ad una qualità di incenso e molto apprezzato – e la phyrama, grassa e resinosa. Il riferimento è sicuramente alla gomma ammoniaca, anche se questa gomma è secreta in realtà da piante ombrellifere, e, in particolare, dalla Dorema ammoniacum. In ogni caso, da qualunque albero derivasse, questa gomma era soggetta ad adulterazioni. «Il prodotto – scrive infatti Plinio – viene adulterato con la sabbia, come se questa vi fosse rimasta attaccata mentre la gomma si stava formando […]… Il prezzo della qualità migliore è di 40 assi a libbra» (XII, 49). Il lungo capitolo 54 è dedicato ad una disquisizione sul BALSAMO e sul carattere della popolazione ebraica: una disquisizione che per Plinio aveva peraltro caratteri di attualità, dato che nel 73 si era conclusa la prima guerra giudaica. Per di più, l’episodio decisivo di quella guerra era stata la conquista di Gerusalemme nel 70, con l’esercito romano guidato da Tito Flavio Vespasiano, il futuro imperatore Tito: e proprio a questo imperatore era dedicata l’Historia. Il balsamo è, fra tutti i profumi, il preferito, e lo si trova solo in Giudea; «ora il balsamo è schiavo e paga i tributi assieme alla sua gente […]. I Giudei hanno infierito contro questa pianta così come hanno fatto contro la propria stessa vita, ma i Romani l’hanno difesa, e si è combattuto per un arbusto, che ora è coltivato a cura del tesoro imperiale e non è mai stato prodotto in quantità maggiore» Ci sono tre specie di questi alberi, e il balsamo che ne deriva ha tre diversi gradi di qualità. Ad essere immessi sul mercato sono sia il succo che cola dalle incisioni della corteccia, sia i ramoscelli, sia i semi, sia la corteccia: ognuno di questi prodotti ha gradazioni diverse di pregio. «Anche i ramoscelli sono messi sul mercato. Quattro anni dopo la sconfitta della Giudea, dal taglio dei ramoscelli e dai germogli si ricavarono 8.000 sesterzi». Lacrime, seme, corteccia e legno, tutto viene utilizzato, e moltissime sono le adulterazioni: il seme si falsifica con l’iperico originario di Petra; il succo oleoso – le lacrime – col succo dei semi, o con l’olio di rosa, o con quelli di henné, lentisco, balano, terebinto, mirto; con la resina, col galbano, con la cera di Cipro, a seconda di ciò che si ha a disposizione; e, nel più insidioso dei modi, con la gomma, perché questa si secca sul palmo della mano e va a fondo nell’acqua, prove ambedue dell’autenticità del balsamo. Sennonché, è vero che anche il balsamo puro deve seccarsi, ma, se vi è stata aggiunta della gomma, si forma una leggerissima crosta. L’alterazione si riconosce anche dal sapore, e per certo attraverso la combustione in quello che è stato adulterato con cera e resina, perché la fiamma è più scura. Corretto col miele, subito attira sulla mano le mosche. Oltre a questo, una goccia di balsamo puro versata in acqua tiepida si addensa e si deposita sul fondo del vaso; una goccia di balsamo adulterato galleggia come l’olio e, se è stata alterata con l’olio chiamato metopio, le si forma un cerchio bianco attorno. La prova migliore di autenticità del balsamo è che faccia coagulare il latte e non lasci macchie sulle vesti. Nessun altro prodotto è soggetto ad un numero maggiore di frodi (nec manifestior alibi fraus): basti pensare che un sestario, acquistato dal tesoro imperiale per 300 denari, viene messo in vendita a mille. Così tanto conviene aumentare la quantità della sostanza liquida!» (XII, 54). Dopo la Giudea, si passa ad alcuni prodotti della Siria: fra questi, due sostanze , lo storace e il galbano, che, a detta di Plinio, hanno i medesimi nomi delle piante da cui si estraggono. Lo STORACE si produce in diverse zone della Siria, ma anche in più zone della Turchia, a Cipro e a Creta: qualunque sia il paese di origine, il più pregiato è quello di colore rossiccio e maggiormente viscoso; peggiore è invece quello di colore bruno e ricoperto di una muffa bianca. «Si adultera con la resina di cedro o con la gomma, o altrimenti col miele o con le mandorle amare: tutte queste adulterazioni si riconoscono al gusto. Il prezzo della qualità migliore è di 17 denari a libbra» (XII, 55). Quanto al GALBANO, che, contrariamente allo storace, il cui uso è limitato quasi esclusivamente alla produzione di profumi, viene utilizzato solo in ambito medico, è «una sorta di resina prodotta da una ferula […]. Quello più pregiato è cartilaginoso, chiaro come la gomma ammoniaca e per niente legnoso […]; lo si adultera con la fava o col sagapeno. Se è puro, quando brucia, col suo fumo mette in fuga i serpenti. Lo si compra per 5 denari a libbra» (XII, 56). Va detto, innanzitutto, che, come si può facilmente constatare, sono numerosi i problemi di identificazione delle singole piante, nonché dei prodotti da esse derivati: ed è questa una difficoltà che non riguarda soltanto la Storia naturale, bensì tutta la letteratura botanica antica, perché spesso le descrizioni fornite dagli autori – accurate o meno che siano – non sono sufficienti a garantire un esatto riconoscimento, perché alcune specie si sono sicuramente estinte, perché mancano a tutt’oggi strumenti adeguati per una traduzione ‘scientifica’ dei nomi latini e greci. Detto questo, i passi riportati mostrano chiaramente quanta e quale attenzione Plinio prestasse al commercio, alle frodi perpetrate sui prodotti in vendita, nonché alla relativa tutela dei fruitori dei prodotti medesimi; ma mostrano anche quanto fortemente egli sentisse il legame tra la frode e il profitto, e quanto forte fosse al riguardo la sua censura morale: come è ben dimostrato – credo – dall’insistenza sui prezzi, che vengono forniti in maniera precisa per tutti, o quasi, i prodotti soggetti a qualche forma di falsificazione, dal pepe, allo bdellio, al nardo, al cardamomo, all’incenso, alla mirra, al mastice, al ladano, alla cassia, alla lacrima di ammoniaco, al balsamo, allo storace, al galbano. In età imperiale, 1 denario corrispondeva a 4 sesterzi e 1 sesterzio a 4 assi. Basandosi prevalentemente su iscrizioni di Pompei ed Ercolano, si è calcolato, con tutte le inevitabili approssimazioni, che il valore dell’asse corrispondesse all’incirca al nostro euro – ipotesi che reputo abbastanza valida –, anche se c’è chi ne fa salire il valore a 1,5 o addirittura a 2 euro. Per fornire almeno un dato, basti dire che, da una iscrizione di Pompei, sappiamo che la spesa affrontata da una famiglia (probabilmente composta da tre persone) per l’acquisto di prodotti alimentari quali pane, olio, vino, formaggio, ammontava in media a 6 sesterzi al giorno, ovvero a 24 assi: calcolando che la spesa alimentare media, in Italia, per una famiglia di tre persone, si aggira oggi sui 24 euro al giorno, pare legittimo attribuire all’asse il valore del nostro euro. Col che il sesterzio varrebbe 4 euro (o, con le valutazioni più alte, 6 o 8 euro), e il denario 16 (o 24 o 32). Lo dico per chi volesse divertirsi a convertire in euro i prezzi dei prodotti di cui ci parla Plinio, tenendo anche presente che la libbra equivaleva a circa 330 grammi: si scoprirebbe così, ad esempio, che il «pepe lungo» (15 denari a libbra) arriverebbe oggi a costare qualcosa come 720 euro al chilo (15 x 16 x 3), se non 1.080 (15 x 24 x 3) o addirittura 1.440 (15 x 32 x 3); il prezzo del «nardo puro» (100 denari a libbra) si aggirerebbe sui 4.800 euro al chilo (100 x 16 x 3), se non 7.200 o addirittura 9.600; i grappoli di «cardamomo» (60 denari a libbra) varrebbero sul mercato 2.880 euro al chilo (60 x 16 x 3), se non 4.320 o addirittura 5.760, ecc.: cifre che, meglio di tanti discorsi, possono facilmente spiegare il motivo delle relative falsificazioni.