Come si è già detto (v. IV. La “Storia naturale” di Plinio il Vecchio – Libri XIV e XXIII), nelle frasi conclusive del libro XIV, che fungono da collegamento col libro successivo, si accenna all’olio. Non a caso, i primi capitoli del libro XV, dedicato complessivamente agli alberi da frutto, contengono un’ampia descrizione della pianta di ulivo, delle olive e, appunto, dell’OLIO; segue la trattazione degli innumerevoli oli artificiali – ovvero estratti da piante diverse –, non riservati peraltro ad uso commestibile. Le diverse qualità dell’olio d’oliva, nonché le possibilità che esso possa alterarsi, dipendono da diversi fattori: innanzi tutto, i terreni di coltivazione degli ulivi e la loro esposizione; e poi il tipo di olive, il loro grado di maturazione, i tempi e i modi della loro raccolta e della loro essicazione, il tempo di attesa prima della spremitura; senza ovviamente dimenticare le varie spremiture, i procedimenti di oleificazione, i travasi e i recipienti usati, la conservazione, ecc. Quanto ai possibili trattamenti, Plinio scrive: «Si evita col sale che l’olio diventi troppo denso e pastoso; praticando incisioni sulla corteccia dell’ulivo, l’olio acquista profumo. Non esistono altri trattamenti per cambiarne il gusto, come accade invece per il vino, né ci sono differenze considerevoli fra le varie specie di oli: si può dire che se ne distinguono, al massimo, tre buone qualità» (XV, 4). Se non si può parlare, per l’olio, di frodi alimentari, troviamo comunque in Plinio l’allusione, più che ad una vera e propria frode commerciale, ad un suo ‘riciclaggio’ a fini di guadagno, operato in Grecia dai magistrati addetti alla gestione dei ginnasi: una storia ripresa anche diversi libri più avanti. Leggiamo infatti: «Per la sua natura, l’olio ha il potere di riscaldare il corpo e di proteggerlo dai rigori del freddo, e serve anche a dare refrigerio ai bollori di testa. I Greci, padri di tutti i vizi, lo destinarono ad essere utilizzato a scopo di lussuria, rendendolo di uso pubblico nei ginnasi. È noto come i ginnasiarchi abbiano venduto le sue raschiature per la cifra di 80.000 sesterzi» (XV, 5). Se qui, nel libro XV, lo scopo principale di Plinio sembra essere quello di censurare l’uso dell’olio d’oliva nei ginnasi a puro scopo di godimento, l’accenno alla vendita delle «sue raschiature» si chiarisce bene nel libro XXVIII, dove si racconta che l’avidità di guadagno aveva condotto i Greci a vendere come medicamento l’olio rimosso con un raschietto dai corpi degli atleti assieme ai residui di sporcizia e sudore (13). Non sappiamo a quale arco temporale di vendita si riferisca Plinio, quando afferma che il commercio delle raschiature dell’olio aveva fruttato ai ginnasiarchi «la cifra di 80.000 sesterzi» (XV, 5): possiamo però avere la certezza che si trattasse comunque di un giro notevole di soldi, dal momento che 80.000 sesterzi corrispondono come minimo agli attuali 320.000 euro, se non a 480.000 o addirittura 640.000 (per la conversione in euro, v. II. La “Storia naturale” di Plinio il Vecchio – Libro XII). Dopo due libri, rispettivamente dedicati agli alberi selvatici e a quelli coltivati, il libro XVIII è principalmente dedicato alle fruges, ovvero ai frutti delle coltivazioni: nello specifico, a quelle dei cereali, dei legumi, delle piante che producono grani commestibili e di quelle da foraggio. Di particolare interesse per la nostra sensibilità moderna è l’inizio del libro, in cui Plinio, nel suo elogio alla natura, stigmatizza duramente il comportamento degli uomini che inquinano i fiumi e avvelenano persino l’aria che è loro necessaria per vivere (v. anche I fichi: dall’umile desco degli schiavi alla ricca tavola dell’imperatore). Altrettanto interessanti le considerazioni dell’autore sulle cause della decadenza dell’agricoltura. Il discorso sulle fruges viene introdotto al capitolo 9, con la distinzione iniziale fra frumenta e legumina, dove legumina è facilmente traducibile con “legumi” o “leguminose”, ma frumenta si presta a fraintendimenti. Sicuramente, è comunque fuorviante tradurre frumenta con “cereali”, come spesso accade, in quanto, al capitolo 10, parlando delle specie di frumenta seminate in estate, Plinio elenca, sì, il miglio e il panico, ma anche il sesamo, l’ormino e l’irione – altrimenti detto erisimo –, che di certo cereali non sono: una traduzione possibile potrebbe forse essere “granaglie”, che, se non altro, è un termine meno connotato rispetto a “cereali”. Del resto, poco più avanti, è ben chiarita la differenza fra cereali, legumi e piante che producono grani commestibili: «I frutti di tutte le piante coltivate – si legge infatti – o sono contenuti in spighe, come quelli del tritico e dell’orzo […], o sono racchiusi in baccelli, come quelli dei legumi, oppure in capsule come quelli del sesamo e del papavero». Ciò premesso, a partire dal capitolo 10, e fino a tutto il capitolo 29, è dei cereali – stranieri, autoctoni, trapiantati in Italia da altre terre, importati – che prevalentemente si parla; seguono i legumi (30-36), e infine le piante da foraggio (37-43). La trattazione continua poi affrontando le degenerazioni e le malattie che colpiscono le fruges, fornendo consigli sui possibili rimedi, parlando delle colture più adatte ai vari tipi di terreno, elencando una serie di problemi legati ai lavori agricoli, ecc.. Ovviamente, nel parlare dei cereali, Plinio non può evitare di parlare delle farine, della panificazione, dei vari tipi di pane in commercio, nonché dei cambiamenti di abitudini, come ad esempio quello che, in relazione al migliorato tenore di vita, ha decretato la condanna del pane d’orzo, molto usato dagli antichi; e poi ancora dell’amido, dei lieviti e, per ultimo, del pane di alica e dell’alica stessa. Come si è già avuta occasione di dire, l’unico riferimento ad una frode relativa alla FARINA per la panificazione riguarda l’aggiunta ad essa di farine ben più ‘umili’ al fine di «accrescere il peso del pane» (v. I. Il problema delle fonti). Quanto alle contraffazioni dell’ALICA, ne abbiamo parlato a lungo nell’articolo ad essa dedicato (Il piccolo mistero dell’alica). Con il libro XIX, dedicato agli ortaggi, termina la descrizione del mondo vegetale: la trattazione delle proprietà naturali delle piante, ovvero delle loro qualità terapeutiche, è rimandata da Plinio ai libri successivi. Come egli stesso scrive infatti a conclusione del libro, l’interesse per le caratteristiche botaniche e gli usi alimentari, e quello per le proprietà medicinali riguardano generalmente tipi diversi di lettori, e mescolare gli argomenti non sarebbe proficuo: meglio due trattazioni distinte, eventualmente congiungibili fra loro nella lettura. Una sezione considerevole del libro è in realtà riservata ad alcune piante che, a rigor di termini, non sarebbero catalogabili come ortaggi: piante che forniscono fibre tessili, tartufi, laserpizio, robbia e radice di saponaria. Fra queste, il laserpizio, molto usato per preparati medicinali, è sicuramente prezioso, tanto che il suo succo, chiamato LASER, viene venduto – afferma Plinio – al prezzo dell’argento. Il laserpizio, che i greci chiamano silphion – silfio –, è una pianta originaria della Cirenaica, ma in quella regione – afferma Plinio – risulta estinto da molti anni, a causa della devastazione dei terreni prodotta dal loro uso intensivo a pascolo di bestiame. «È ormai da lungo tempo che a noi non arriva altro laser se non quello che cresce in abbondanza in Persia o in Media o in Armenia, ma è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica». Il laserpizio cirenaico è descritto come una pianta selvatica e difficile da coltivare, con grosse e numerose radici, con il fusto del tipo della ferula e di grossezza analoga; le sue foglie erano chiamate maspeto e somigliavano molto a quelle dell’appio; i semi avevano l’aspetto di foglie, mentre il fogliame stesso cadeva in primavera. Dopo la caduta delle foglie, ci si cibava del fusto, che veniva cucinato in diversi modi e aveva proprietà purgative. Il succo si estraeva sia dalla radice che dal fusto, prendendo rispettivamente il nome di rhizias (da rhiza = radice) e caulias (da kaulos = fusto): il secondo era di minor valore e tendeva a deteriorarsi (XIX, 15). Se il fusto del laserpizio aveva proprietà purgative, anche altri – come chiarito nei libri successivi – erano i suoi usi medicinali: le foglie servivano, ad esempio, a ripulire l’utero e a provocare l’espulsione dei feti abortiti, mentre la radice serviva per le tracheiti e per impiastri sugli ematomi, ecc. (XXII, 48). Il laserpizio cirenaico, o silfio, di cui ci parla Plinio, non è di sicura identificazione. Con ogni probabilità, la pianta doveva appartenere al genere Ferula della famiglia Apiaceae o Umbelliferae: alcuni la considerano come una specie estinta di finocchio gigante, mentre altri la identificano con la Ferula tingitana, che estinta non è. Parlando del LASER importato dalla Persia o dalla Media o dall’Armenia, dopo averne rimarcato la qualità inferiore, Plinio aggiunge che, per di più, «esso è anche adulterato con gomma, o sagapeno o fave tritate»; e, sempre nel libro XIX, riparla di «laser adulterato» anche al capitolo 52. Quanto al meno pregiato succo del laserpizio cirenaico estratto dal fusto, Plinio racconta che, «per adulterare il prodotto, si versava dentro dei vasi il succo mescolato con della crusca, e si agitava ripetutamente il miscuglio fino al momento giusto, ché, se non si fosse fatto così, sarebbe imputridito. La prova che il miscuglio era pronto veniva data dal colore e dalla secchezza acquisita via via che cessava di trasudare. Altre fonti riferiscono che la radice del laserpizio era più grande di un cubito – come a dire più di 45 centimetri – e aveva una protuberanza che usciva dal terreno: quest’ultima, tagliata, lasciava colare un succo lattiginoso […]. Foglie di colore dorato sostituivano i semi, e cadevano a partire dal sorgere del Cane (ovvero dal solstizio d’estate), quando soffiava l’Austro: da esse nasceva il laserpizio, la cui radice e il cui fusto si esaurivano nello spazio di un anno». «Esiste poi – continua Plinio – una seconda specie, chiamata magydaris, più tenera, meno forte e priva di succo, che nasce dalle parti della Siria e non alligna nella Cirenaica: cresce in abbondanza anche sul monte Parnaso, e alcuni la chiamano laserpizio. Ed è con queste specie, contrabbandate per laserpizio, che si falsifica di fatto la valutazione di un prodotto di per sé così utile e salutare. Il laserpizio vero si riconosce per prima cosa dal colore, che è di un rosso tenue, e, se lo si spezza, è candido all’interno e fa stillare subito una goccia trasparente, che si scioglie immediatamente con la saliva» (XIX, 15-16).