L’abitudine di conservare i fichi essiccandoli, nonché le tecniche e i modi di essicazione e conservazione sono giunti a noi dall’antica cultura agricola, in un processo evolutivo senza soluzioni di continuità.

Come si è già avuto modo di ricordare (vedi I fichi: dalle tavole degli antichi romani alle nostre), Marco Terenzio Varrone, nel suo trattato agronomico De re rustica (I secolo a. C.), scrivendo dei modi in cui allestire un vivaio di fichi, riferisce anche di una tecnica di essicazione utile per esportarne i semi, al fine di una messa a dimora altrove delle rispettive specie: «È dunque meglio formare un vivaio di fichi coi germogli di fico, che interrare i grani, a meno che non si possa fare diversamente, come quando c’è necessità di spedire oltremare le semenze o farle trasportare da lì. Allora si infilzano su una cordicella i fichi maturi, pronti da mangiare, e quando sono secchi si avvolgono e si spediscono dove si vuole: qui verranno poi interrati in un vivaio a che germoglino. In tal modo sono stati portati in Italia i fichi di Chio, della Calcide, della Lidia e dell’Africa, e tutte le altre qualità d’oltremare» (I, 41).

Dal canto loro, Plauto, Catone, Ovidio, Columella, Plinio e Papinio Stazio ci parlano dei fichi secchi nella tradizione alimentare (vedi I fichi: dalle tavole degli antichi Romani alle nostre e I fichi nell’antica Roma: dall’umile desco degli schiavi alla ricca tavola dell’imperatore): Plauto, nel Rudens (III, 4, v.764) fa dire a dei fustigatori di schiavi che essi campano alla buona «di fichi secchi»;  Catone inserisce i fichi secchi fra le provviste che la moglie del fattore deve preoccuparsi di conservare (De agricultura, CXLIII); Ovidio accenna ai fichi di Caria secchi (rugosa carica), affermando che sono considerati doni augurali per la loro dolcezza (Fasti I, 2, v. 185); Columella ci attesta l’uso dei fichi secchi per produrre aceto di vino (De re rustica, XII,5); Plinio li definisce «ricostituenti ed energetici» e ci parla del loro uso nelle diete degli atleti (Storia naturale, XXIII, 63), oltre a raccontarci che Apicio ingrassava con essi il fegato delle oche (VIII, 77). Ancora Plinio, dopo avere accennato al fatto che i fichi pompeiani, assieme ai fichi marisca e a quelli con la buccia variegata (forse i “rigati del Salento”), sono i più adatti ad essere essiccati al sole per l’uso annuale, (Storia naturale, XV, 19), si dilunga a parlare delle varietà più pregiate di fichi che vengono fatti seccare e conservati in cassette (quelli di Ibiza e quelli provenienti da una zona costiera dell’odierno Abruzzo), nonché delle più abbondanti produzioni di fichi secchi provenienti dall’Asia e dall’Africa (XV, 21), annotando anche come la buccia dei fichi, che si toglie mangiandoli freschi, sia particolarmente apprezzabile in quelli secchi (XV, 34). Quanto a Stazio,  parrebbe riferirsi a fichi conservati il globus cottanorum (dunque una sorta di “palla di fichi cottani” sul tipo dei “palloni di fichi” calabresi), di cui egli parla in relazione ai doni legati alla festa dei Saturnali (Selve IV, 9, 27-28): al riguardo, va peraltro notato come il nome cottana – o coctana – , usato ad indicare piccoli fichi della Siria, sia riconducibile alla radice del verbo coquere (cuocere), e possa dunque alludere in qualche modo all’abitudine diffusa di conservare questi fichi tramite cottura.

Tenendo poi conto del fatto che le feste dei Saturnali si tenevano dal 17 al 23 di dicembre, è facilmente deducibile come almeno alcuni dei riferimenti ai fichi scambiati in dono nell’occasione, presenti negli epigrammi di Marziale, debbano necessariamente riferirsi a fichi secchi: considerando che dalla Libia potessero arrivare fichi freschi anche a dicembre (Epigrammi, IV, 46, 10 / VII, 53, 8 «ficus Lybica gelata testa» / «Lybicae fici»), di certo dovevano essere secchi i «minuscoli cottani» di IV, 88, 6 – VII, 53, 7 – XIII, 28. E, non a caso, di fichi secchi parla anche Macrobio nei suoi Saturnaliorum libri, consistenti nel resoconto delle dotte conversazioni tenute nel dicembre del 384 da alti esponenti dell’aristocrazia romana riuniti in occasione della festività (Saturnali, III, 20, 1).

 

A prescindere da questi generici riferimenti, appare comunque ovvio che, così come le informazioni sulle varietà, la coltivazione delle piante, le pratiche di innesto, l’utilizzo dei frutti, ecc., anche quelle relative alla conservazione e alla essiccazione dei fichi vadano innanzi tutto cercate all’interno di specifici trattati sull’agricoltura: i tre già ricordati di Catone, Varrone e Columella, e l’Opus agriculturae, o De re rustica, dell’ultimo agronomo romano, Rutilio Tauro Emiliano Palladio.

Se, nel trattato di Catone, che è il più antico a noi pervenuto (II secolo a. C.), troviamo solo un accenno alle tecniche di conservazione, laddove si legge che, per conservare bene i fichi secchi, evitando che si guastino, è bene riporli in un vaso di argilla unto bene con morchia cotta (cap. C); e, se Varrone si limita al fugace riferimento all’essicazione su cordicelle, legata peraltro all’esportazione dei semi; del tutto nuova per la sua estensione e ricchezza è la parte del trattato di Columella (I secolo d. C.) che alla conservazione dei fichi è appunto dedicata, così come informazioni preziose sono quelle che ci vengono fornite al riguardo da Palladio (IV secolo d. C.).

 

Columella ne parla all’interno delle pagine dedicate alla conservazione dei frutti destinati a costituire la maggior parte del nutrimento dei contadini in inverno, rivelando sorprendentemente metodi non molto diversi da quelli ancora in uso in diverse nostre regioni.

« I fichi – scrive – vanno raccolti quando non sono né troppo maturi né troppo acerbi, e vanno distesi in un luogo che prenda il sole nell’arco dell’intera giornata. Si piantano dei pali alla distanza reciproca di quattro piedi e si congiungono gli uni agli altri con delle pertiche; vi si collocano sopra dei cannicci allestiti per l’uso, all’altezza di due piedi da terra, in modo che non attraggano l’umidità che ordinariamente il suolo emette nottetempo; ciò fatto, vi si collocano i fichi, e, a terra, si dispongono dall’uno e dall’altro lato graticci intessuti di paglia, o carice o felce, per alzarli al tramonto del sole, in maniera tale che, appoggiati fra loro a formare una copertura a volta – a modo dei tetti delle capanne –, i fichi che stanno seccando ne siano protetti dalla rugiada e dalle possibili piogge: rugiada e pioggia guastano infatti i frutti. Una volta seccati, bisognerà riporre e comprimere in orci bene impeciati i fichi caldi, nel tepore meridiano, dopo aver posto sotto di loro del finocchio secco, e ponendo lo stesso finocchio secco anche sopra, una volta riempiti i vasi: vasi che andranno poi coperti, impiastrati e riposti in un magazzino asciuttissimo, a che i fichi si mantengano più a lungo. Alcuni, dopo averli raccolti, tolgono i piccioli dei fichi prima di stenderli al sole; quando poi si sono un po’ essiccati, prima che diventino duri, li ammassano in vasche di argilla o di pietra; lavati i piedi, li calpestano quindi fino a ridurli in una sorta di farinata, e ci mescolano sesamo abbrustolito, anice egizio e semi di finocchio e cumino: calpestato bene e rimescolato il tutto, ne fanno delle specie di focacce di media grandezza, che avvolte poi in foglie di fico e legate con giunchi o qualche altra erba, vengono riposte su dei graticci e lasciate asciugare; quando sono essiccate, le ripongono infine dentro vasi impeciati. C’è anche chi ripone in vasi non impeciati questa ‘pasta’ di fichi; impiastrati poi i vasi, li fanno surriscaldare in un fornello o nel forno, affinché tutto l’umido si asciughi al più presto: una volta seccata, la ‘pasta’ viene riposta in un solaio e, quando serve, si rompe il vaso, non potendo in alcun modo estrarne la massa indurita di fichi. Altri ancora scelgono i più polposi fra i fichi verdi, li aprono con una canna o con le dita e li lasciano essiccare al sole; quando si sono bene asciugati, li raccolgono al tepore meridiano, ammorbiditi come sono dal calore del sole, e, come sono soliti fare Africani e Spagnoli, li uniscono fra loro e li comprimono a forma di stelle e fiori, oppure danno loro la forma del pane; quindi li fanno nuovamente essiccare al sole e infine li ripongono dentro dei vasi» (XII, 14-16).

 

Organizzato per mesi (libri II-XIII, dopo il I introduttivo), con un poemetto conclusivo (libro XIV) intitolato De insitione (L’innesto), nel trattato di Palladio risulta fondamentalmente dedicata al fico una parte del capitolo 10 del IV libro (riservato ai lavori da svolgere nel mese di marzo): parlando di luoghi, clima, piantagione, innesti, modi di propagazione, varietà, essiccazione, accorgimenti per migliorare la qualità dei frutti e la loro maturazione, caprificazione, rimedi contro insetti e malattie della pianta, Palladio offre una sintesi della precedente produzione agronomica, soffermandosi soprattutto sugli innesti e sulla conservazione dei frutti.

In merito alla conservazione, Palladio ci racconta che si possono conservare i fichi verdi (ficus virides) sia sistemandoli nel miele, allineati in modo che non si tocchino fra loro, sia collocandoli ciascuno separatamente in una zucca verde, dentro piccoli tasselli creati appositamente, chiudendoveli dentro con i pezzetti precedentemente tagliati, e appendendo poi la zucca in un luogo dove non entrino né fuoco né fumo. Alcuni – aggiunge – raccolgono fichi novelli (ficus recentes), non ancora ben maturi, coi loro piccioli, li ripongono in un vaso di argilla nuovo evitando che si tocchino fra loro, e lasciano nuotare il vaso in una botte piena di vino. I fichi – continua – si possano seccare in diversi modi, ma è sufficiente sapere come lo si fa in Campania: si stendono i fichi su dei graticci fino al mezzogiorno e li si versa in un paniere quando sono ancora molli; scaldato quindi il forno come per cuocere il pane, vi si pone dentro il paniere appoggiato su tre pietre a che non prenda fuoco; chiuso il forno, quando i fichi sono ben cotti, li si ripone ancora caldi in un vaso di argilla bene impeciato, comprimendoli forte e intramezzandovi delle loro  foglie; si chiude infine accuratamente il vaso con un coperchio. Se, a causa delle piogge frequenti, non si possono esporre i graticci all’aria, i graticci si possono collocare in casa, tenendoli di un mezzo piede sollevati da terra; li si riscalderà con della cenere calda collocata sotto, che farà le veci del sole; si gireranno quindi ripetutamente sui loro due lati i fichi divisi a metà, per far sì che la buccia si secchi e che, una volta riaccostate le due parti carnose, i fichi stessi possano essere conservati in piccole ceste o cassettine. Alcuni tagliano a metà i fichi quando non sono del tutto maturi e li mettono sui graticci a seccare per tutto il giorno, tenendoli al coperto di notte.

Come si può constatare, Palladio ci offre la conferma di quella continuità nei metodi di essicazione e conservazione, a cui abbiamo già accennato parlando di Columella, ma ci mostra anche come – a distanza di almeno tre secoli da Columella – i metodi di conservazione avessero subito significative modifiche: e, fra questi, se non desta stupore la conservazione  dei fichi nel miele, di cui abbiamo già testimonianza nel Manuale di cucina di Apicio (I, 12, 20); se desta al massimo qualche perplessità il metodo dell’immersione in una botte di vino; lascia quantomeno stupiti l’informazione che si potessero conservare i fichi verdi ‘nascondendoli’ uno ad uno dentro una zucca.