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Frodi commerciali attraverso i secoli – Dal cibo alle pietre preziose: fra adulterazioni, sofisticazioni, c

2025-02-12 17:57

Claudia Pandolfi

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Frodi commerciali attraverso i secoli – Dal cibo alle pietre preziose: fra adulterazioni, sofisticazioni, contraffazioni (IV. La “Storia naturale” di Plinio il

Alla VITE, ai VINI e ai PROCESSI DI VINIFICAZIONE è dedicato l’intero libro XIV, che inizia con una amara riflessione sulla diffusione di nuovi costum

Alla VITE, ai VINI e ai PROCESSI DI VINIFICAZIONE è dedicato l’intero libro XIV, che inizia con una amara riflessione sulla diffusione di nuovi costumi che hanno portato a coltivare solo le «arti dell’avidità». Accingendosi a parlare delle piante più conosciute, tutte autoctone, diffuse in tutta l’Italia, Plinio lamenta il fatto che, di alcune di esse, si sia perso completamente il ricordo e se ne sia addirittura dimenticato il nome: grazie alla maestà dell’impero, agli scambi commerciali e alla pace diffusa, si è assistito alla diffusione di molti prodotti un tempo sconosciuti, ma, nel contempo, la mente umana è stata completamente assorbita dalla sete di guadagno, dalla speranza di arricchimento, dal lusso; le arti liberali sono decadute, gran parte dell’antica cultura è andata perduta. Insomma, «ha cominciato a vivere il piacere, e ha cessato di vivere la vita». Da qui, la necessità, per Plinio, di volgere l’attenzione alle cose dimenticate, di parlare delle piante prestando attenzione alla loro natura e alla loro storia anche nei più piccoli dettagli: e da dove cominciare se non dalla vite, che rappresenta per l’Italia una delle più grandi risorse? (XIV, 1-2).  

I capitoli 3-6 sono interamente dedicati alle varietà delle viti e delle uve, e ne sono descritte almeno un centinaio; al capitolo 7 si inizia a parlare dei vini, cominciando da quelli più antichi. Fra vini da pasto, vini dolci, vini invecchiati, vini aromatici – italiani e stranieri –, di maggiore o minor prestigio, di maggiore o minor qualità, se ne contano più di ottanta: a questi, vanno aggiunti i numerosi vini ‘artificiali’, prodotti in vari modi dal vino stesso, da piante diverse, da erbe varie, da bacche, da miele, ecc., usati prevalentemente in campo medico. A questi vini – in numero superiore a sessanta – è dedicato poi il capitolo 19, che descrive quello fatto con mosto e acqua bolliti, quello di semi di miglio e mosto; e poi ancora quelli ricavati da foglie di palma, frutta, mirto, ortaggi, radici, fiori, nardo, mirra, calamo, giunco, amomo, erbe e piante aromatiche varie, cedro, cipresso, alloro, quasi sempre con aggiunta di mosto, ecc.  Una via di mezzo fra vini veri e vini artificiali è rappresentata da quelli che Plinio chiama «vini da operai (vina operaria)», asserendo che nemmeno possono definirsi vini. Ne esistono tre tipi: si ottiene il primo aggiungendo al mosto spremuto un decimo di acqua, lasciando quindi macerare le vinacce per una notte e un giorno e ripassandole infine nuovamente al torchio; il secondo, come usano fare i greci, aggiungendo al mosto spremuto un terzo di acqua, pressando il tutto, e facendolo quindi bollire fintanto che si riduca ad un terzo; il terzo, che Catone definisce “di feccia” (faecatum), pressando appunto la feccia del vino.  

La qualità dei vini è collegata a molti fattori, che concernono i tipi di uve, i modi di coltivazione, i terreni di provenienza, i metodi di preparazione, ma, fra tutti, un ruolo significativo è rivestito anche da quella che potremmo chiamare ‘modernizzazione’ e soprattutto dalla sete di guadagno. Plinio ci racconta, ad esempio, che, nell’antichità, aveva grandissima rinomanza il vino del Cecubo, proveniente dai pioppeti palustri nel golfo di Amincle, presso Terracina: un vino ormai scomparso per l’incuria dei produttori e la piccolezza del podere, ma forse ancora di più a causa del canale navigabile che dal lago di Baia arriva fino ad Ostia, fatto iniziare da Nerone. E ci racconta ancora che al secondo posto veniva, per rinomanza, il vino prodotto nel territorio di Falerno e, all’interno di esso, quello di uno dei poderi dell’area compresa fra il Lazio e il fiume Volturno, ovvero il Faustiniano: questo risultato – commenta – era stato conseguito grazie ad una coltivazione scrupolosa, ma, caduta in mano a gente  che bada più alla quantità che alla qualità, anche questa coltivazione è scomparsa (8).  

I vini possono essere trattati in vari modi, alcuni dei quali anche nocivi alla salute: ad esempio, non è salutare il vino di Efeso, trattato con acqua di mare e mosto cotto (9).  

Vi può essere inoltre aggiunta acqua marina in notevole quantità, come fanno a Cos col mosto bianco, per ottenere il vino bianco di Cos (Leucocoum); o possono essere diluiti per ottenerne una seconda qualità, come avviene per il passito, quando viene aggiunta alla vinaccia acqua di pozzo (11); ce ne possono essere di prodotti con metodi artificiali, come ad esempio quello che i greci chiamano aigleucos, ovvero “sempre mosto”, che si ottiene arrestando la fermentazione (11).   

Quanto alle frodi vere e proprie, ce ne sono di diversi tipi: si va, infatti, dallo spacciare un vino per un altro, ad alterarne il colore e il gusto, fino ad invecchiarli artificiosamente.  

Al capitolo 8, dopo aver parlato dei vini Mamertini, prodotti attorno a Messina, e resi famosi da Giulio Cesare, che li fece servire nel banchetto offerto in onore del suo terzo consolato, Plinio continua: «Sempre in Sicilia, sono apprezzati anche i vini di Taormina, le cui bottiglie sono spesso spacciate per Mamertino».   

«La fama dei vini di Béziers – racconta più avanti – rimane entro i confini delle Gallie. Sugli altri vini della Gallia Narbonense – ovvero della Provenza – non c’è alcuna garanzia, dal momento che hanno trovato un sistema per colorarli affumicandoli: e volesse il cielo che non li trattassero anche con erbe e medicamenti nocivi. Per certo, infatti, i commercianti ne adulterano il sapore e il colore anche con l’aloe» (8).  

«Il vino del monte Tmolo (nell’odierna Turchia) non gode di reputazione di per sé, ma in quanto, mescolando la sua dolcezza con l’asprezza di certi altri vini, non solo li rende più soavi, ma ne altera la stagionatura, perché essi appaiono subito più vecchi di quanto non siano» (9).  

Molto interessante è la parte dedicata alla preparazione del vino, consistente in una ampia gamma di trattamenti:  

«In Africa si mitiga l’asprezza del  vino col gesso, e in alcune zone con la calce spenta. In Grecia ne accrescono la soavità con l’argilla o col marmo o col sale o con l’acqua di mare, mentre in qualche parte dell’Italia con la pece ottenuta dalla bollitura di resine vegetali (crapulana pice – ovvero pece che fa smaltire la sbornia); e, sia lì che nelle province confinanti è usuale trattare il mosto con la resina; in qualche zona trattano invece il mosto con la feccia del vino della precedente annata o con l’aceto. Lo stesso mosto può servire a realizzare additivi: lo si fa bollire più o meno a lungo, a seconda di quanto sia forte, per addolcirlo e, così ridotto, si dice che non possa mantenersi per più di un anno; in alcune zone lo si fa bollire fino a ridurlo in sapa, e questa, aggiunta al vino, ne abbatte l’acidità […]. Il trattamento del mosto avviene durante la prima fermentazione, che si svolge nell’arco di nove giorni al massimo, e lo si fa cospargendolo di pece, così da conferire al vino profumo e punte di sapore […].  Del resto, ci si cura del trattamento dei vini così tanto che in alcune zone li si corregge e li si stabilizza con la cenere, come altrove col gesso e nei modi di cui abbiamo parlato; si preferisce però che la cenere sia di tralci di vite o di quercia. Si raccomanda inoltre che, allo scopo, venga usata acqua di mare attinta in profondità nell’equinozio di primavera e conservata, o che essa venga almeno raccolta di notte nel giorno del solstizio e mentre soffia l’aquilone; oppure, qualora la si raccolga in prossimità della vendemmia, che venga fatta bollire […]. Catone suggerisce di “conciare” il vino – si serve infatti del verbo concinnare – con lisciva bollita nel mosto cotto, in misura di un quarantesimo per ogni culleo (misura corrispondente a circa 525 litri), oppure con una libbra e mezzo di sale, e talora anche con polvere di marmo. Fa anche menzione dello zolfo e, in ultimo, della resina. Quando già il vino sta già maturando, raccomanda soprattutto che gli venga aggiunto il mosto che lui chiama torchiato (tortivum), e che noi intendiamo essere quello di ultima spremitura» (24).  

Su tutti questi trattamenti, Plinio non sembra dare giudizi, limitandosi ad elencarli: sennonché, partendo dalla malsana abitudine di aggiungere al vino dei coloranti,  il discorso si chiude con una netta censura di quelli che Plinio, senza chiarire a quali specificatamente si riferisca, chiama veneficii (avvelenamenti), ovvero quei trattamenti che non solo sono fraudolenti, ma si rivelano soprattutto nocivi:  

«Sappiamo – scrive infatti  – che, per tingerlo, vi si aggiungono persino dei coloranti, come una sorta di belletto del vino, che così diventa anche più corposo. Grazie a così tante tossiche sofisticazioni (veneficiis), si ottiene per forza che il vino piaccia: e poi ci meravigliamo che faccia male! È prova di un vino alterato una lamina di piombo che, immersavi, cambi colore» (25).  

I due capitoli finali del libro (28-29) contengono un lungo epilogo contro l’ubriachezza e le sue nefaste conseguenze: e quella dell’ubriacarsi è un’abitudine talmente diffusa ovunque da aver condotto, in diversi paesi, dalla Spagna alla Francia all’Egitto, alla creazione di bevande alcoliche diverse dal vino, che hanno nomi diversi, ma sono tutte ottenute tramite la macerazione dei cereali. «Tutte queste bevande – aggiunge Plinio – si bevono pure, e non se ne mitigano gli effetti diluendole come si fa col vino. Ma, per Ercole, sembrava che in quei paesi la terra producesse cereali, e invece, aimè, tanto straordinaria è l’ingegnosità del vizio da aver scoperto come anche l’acqua possa fare ubriacare» (29).  

Le frasi conclusive hanno il compito di fungere da collegamento col libro successivo, che, all’inizio, tratta della seconda sostanza liquida a risultare, dopo il vino, particolarmente gradita agli uomini, ovvero l’olio: anche se l’aver «creato centottantacinque qualità diverse di vino, che diventano quasi il doppio se se ne considerano le varietà», a fronte del numero ben più scarso delle qualità di olio, fa capire quanto gli uomini si siano impegnati maggiormente nel soddisfare il proprio piacere del bere.     

 

Per concludere il discorso, è il caso di soffermarci sul libro XXIII, incentrato sui rimedi medicinali derivati da alberi coltivati: i capitoli 1-33 sono infatti dedicati alle proprietà medicinali della vite e del vino, a cominciare dal mosto (18).  

Ebbene, per quanto riguarda le frodi, e più precisamente quella che consiste nello spacciare un vino per un altro, interessante è un passo in cui si legge: «Gli antichi apprezzavano in particolar modo il vino Sorrentino, in epoca successiva l’Albano e il Falerno, e in seguito chi un vino chi l’altro, ciascuno basando il proprio giudizio su un criterio del tutto inopportuno, proclamando cioè come apprezzabilissimo per tutti gli altri quello a lui graditissimo. Che, se poi le opinioni concordassero, quale piccola percentuale di persone potrebbe mai usufruire di questi tipi di vino? Oggi, nemmeno i ricchi, da nessuna parte, possono godere di vini genuini. I costumi sono diventati tali che delle diverse cantine di produzione si vendono solo i nomi e i vini vengono contraffatti già nei tini della vendemmia» (20).  

Ancora più interessanti, nel contesto del nostro discorso, sono le osservazioni di Plinio sulla nocività dei trattamenti a cui il vino viene sottoposto. Più volte è ribadito il concetto che «è molto nocivo il vino invecchiato mediante affumicatura», che «è dannoso» servirsi di un vino invecchiato e corposo «per tagliare un vino più giovane» (22). 

Quanto ai vini impiegati per curare malattie, «il più salutare è quello a cui non sia stato aggiunto nulla nel mosto, ed è ancora migliore se i recipienti non sono stati impeciati. Quanto a quelli cui siano stati aggiunti marmo, gesso o calce spenta, chi, anche di costituzione robusta, potrebbe non temerli? I vini trattati con acqua di mare sono nocivi allo stomaco, ai tendini e alla vescica […]. Il vino nuovo mescolato con resina non è per nulla giovevole: provoca mal di testa e vertigini» (24).     

 

Una panoramica interessante dell’esposizione pliniana relativa alle tecniche di coltivazione della vite e a quelle della vinificazione, nonché, in particolare, sugli usi terapeutici della vite e del vino, si trova in Iris Fontanari Martinatti, La vite e il vino nella farmacia di Plinio il Vecchio, Edizioni Arca, 2001.