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Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo (Capitolo II. La filologia)

2025-04-02 16:46

Claudia Pandolfi

Letteratura latina medievale, Cassiodoro, Alcuino, Strabone, Biblioteca di Alessandria, Colombano, Aldelmo, Beda, Bonifacio, Pietro da Pisa, Paolo Diacono, Teodulfo d’Orléans, Heiric di Auxerre, Raterio, Gerberto di Reims, Filologia, Dai manoscritti alla stampa, Benedetto, Lupo di Ferrières,

Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo (Capitolo II. La filologia)

A più riprese, abbiamo già avuto modo di constatare come, nella storia del teatro, in quella della medicina, e in quella della scrittura femminile, il

A più riprese, abbiamo già avuto modo di constatare come, nella storia del teatro, in quella della medicina, e in quella della scrittura femminile, il Medioevo rappresenti un capitolo importantissimo, così come lo è per l’enciclopedismo e per varie forme di poesia, nonché per quell’insieme di discipline tese alla ricostruzione e interpretazione e comprensione dei testi letterari – ovvero per la filologia – (v. Medioevo non ‘medievale’ e letteratura; Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo Introduzione; Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo Capitolo I. L’enciclopedismo).     Il concetto di filologia ha avuto una storia complessa e travagliata: non a caso, sul suo significato, sul suo contenuto, sulle sue capacità, la sua natura e i suoi compiti, esiste una bibliografia vastissima. E, del resto, la sua stessa etimologia – philologos è l’amante del logos, termine dai molteplici significati – ne testimonia la complessità. Resta il fatto che, ad un certo punto, i “filologi”, passano dall’essere studiosi “di varia e molteplice dottrina” – eruditi, dotti, in senso generale – all’essere studiosi di testi letterari, principalmente al fine di ristabilirne la correttezza: col che la “filologia” si trasforma in “filologia letteraria” e, in senso più ristretto, passa ad identificarsi con la “critica testuale” (v. Filologia in pillole – 2. Che cosa è veramente la filologia).     Quando Strabone, fra il I secolo a. C. e il I d. C., parlava dei dotti posti a capo del Museo e della Biblioteca di Alessandria definendoli come philologoi  (Geografia, XVII, I, 8), non pensava certo che anche quella sua definizione avrebbe indirettamente contribuito a modificare il significato originario della parola philologhia – usata per la prima volta da Platone nel Cratilo, ad indicare il gusto per la comunicazione scientifico-letteraria e l’aspirazione ad essa –, restringendone l’ambito all’interno del campo letterario, e facendo sì che si trasformasse in una disciplina tesa ad assicurare la corretta trasmissione dei testi scritti.  Perché è proprio ad Alessandria, fra i “filologi” posti a capo del Museo e della Biblioteca, centro di una comunità scientifica e letteraria, che noi troviamo i più famosi dotti del tempo; e perché è fra queste persone che assume centralità, nella valutazione estetica e nella problematica grammaticale, la figura di Omero. I poemi omerici diventano il principale obiettivo della loro ricerca, e su di essi si esercita la critica, tanto per ristabilirne il testo corretto quanto per corredarlo di note: ed è dunque ad Alessandria, quando i “filologi” convogliano i propri interessi sui testi scritti, che la “filologia” inizia a diventare “filologia letteraria”.     La filologia letteraria nacque dunque nel III-II secolo a.C. all’interno della famosa Biblioteca di Alessandria, e nacque fondamentalmente per la necessità di ordinare la massa enorme di opere che vi confluiva: le fonti ci parlano di  un numero di rotoli di papiro compreso fra le 200.000 e le 490.000 unità.  Dato il sistema di produzione dei libri antichi, date le corruttele dei testi copiati a mano, in molti passi non si riusciva più a discernere il senso voluto dall’autore, mentre in molti altri le diverse copie di varia provenienza mostravano divergenze notevoli. Le più gravi discordanze erano nei testi omerici, tramandati oralmente per diversi secoli, prima che, ad Atene, nel VI secolo, ne fosse allestito per ordine di Pisistrato il primo testo scritto; e, peraltro, i libri – di Omero come di altri autori – rimasero una rarità fino al V secolo avanzato, quando cominciò ad esistere una sorta di commercio librario, che, sviluppatosi poi rapidamente, portò ad una rapida e diversificata moltiplicazione di copie a partire dal IV secolo. La complicata storia della loro trasmissione fece necessariamente di Iliade e Odissea l’oggetto principale di indagine.     A Roma, poco si sa del modo in cui la letteratura fu tramandata nei primi due secoli della sua vita: non esistevano però biblioteche pubbliche, né studi filologici volti a conservarne criticamente il contenuto. Alcuni testi ebbero fortuna maggiore, come la poesia epica ‘nazionale’ di Nevio ed Ennio, che ricevette attenzioni erudite in epoca relativamente antica: secondo Svetonio (De grammaticis et rhetoribus / Grammatici e retori 2,1), lo studio della grammatica – inteso come interesse ‘accademico’ verso la lingua e la letteratura – fu introdotto a Roma per la prima volta nel 168 a.C. dallo studioso di Omero, Cratete di Mallo, e l’interesse si volse appunto a Nevio e ad Ennio. Altri autori e generi letterari furono meno fortunati: basti pensare ai testi teatrali e, in particolare, alle commedie plautine.     Da allora la filologia letteraria cominciò il suo percorso storico, esercitandosi sempre sui testi dell’antichità (filologia classica), affinando i suoi metodi, fino alla svolta dell’umanesimo, che segnò la nascita di una nuova e moderna disciplina: sarà infatti l’età umanistica, molti secoli dopo, a chiarire sempre più il mestiere del filologo come specializzazione tecnica. Il filologo sarà allora il “filologo letterato”, la filologia diventerà a pieno titolo indagine sui testi, e l’impostazione corretta di questa indagine inaugurerà un’era nuova nella storia della cultura e del pensiero.  Da questo momento il rigore scientifico nel rapporto col testo scritto, sia esso religioso o no, diventerà una costante: e sarà anzi proprio la liberazione dal pregiudizio e dal timore nell’affrontare i sacri testi a determinare poi, nel XVIII secolo, grazie ad un gruppo di filologi e teologi protestanti, una sorta di trasformazione nell’ambito della filologia classica, fino ad arrivare alla famosa edizione di Lucrezio del Lachmann, del 1850, che consacrerà definitivamente le regole della nuova critica testuale (per eventuali approfondimenti, v. Filologia in pillole, e in particolare 2 – 3 – 4 – 7).     Dall’antica Roma siamo passati all’età umanistica: converrà ora soffermarci sui secoli medievali, riprendendo il discorso già affrontato in Filologia in pillole (più precisamente in 7. Conservazione e trasmissione dell’eredità classica nel Medioevo), per dimostrare ancora una volta l’assunto che il Medioevo non rappresenta una frattura nel continuum della cultura, ma che proprio nel Medioevo va anzi ritrovato il fertile terreno di coltura di quasi tutte le forme culturali, filologia compresa.  Essenziale è innanzi tutto capire quali furono le vie della conservazione dei testi della letteratura greca e latina, esposti a numerosi rischi di perdita e distruzione quando i libri erano manoscritti, mostrando quale ruolo i lettori e gli eruditi del Medioevo ebbero, sia nell’Oriente greco che nell’Occidente latino, nel preservarli e tramandarli.     La diffusione del Cristianesimo e il suo divenire universale nel V secolo ebbero inevitabilmente notevoli effetti sull’istruzione e sugli studi: l’animosità con cui cristiani e pagani si guardavano a vicenda generò infatti un cambiamento sostanziale, portando le gerarchie ecclesiastiche a sconsigliare la lettura dei libri pagani ai membri delle loro comunità. Il disinteresse a leggerli portò inevitabilmente alla perdita di numerosi testi antichi, che non furono trascritti in copie sufficienti ad assicurarne la conservazione: ma, per fortuna, i pregi della letteratura antica erano tali da tentare comunque alla lettura alcuni cristiani, senza contare il fatto che, per gli stessi cristiani, c’era anche la necessità di attirare i pagani colti, e una via utile era mettere a confronto i concetti principali della nuova fede con il pensiero dei filosofi classici. Tutto ciò fece sì che, tanto in Oriente quanto in Occidente, si continuassero a studiare gli autori antichi e si continuasse a riprodurne le opere.     Fino all’invenzione della stampa – con la famosa Bibbia di Giovanni Gutenberg, che vide la luce tra il 1454 e il 1456 –, il sistema di produzione dei libri consisteva, com’è noto, nella copiatura a mano: un’operazione lenta e laboriosa, che necessariamente rendeva i libri stessi una ‘rarità’, oltre a comportare il problema davvero non da poco della manodopera. Se nell’antichità si adoperavano gli schiavi, con la caduta della civiltà classica, nell’Occidente latino tutto cambiò: a partire dal V secolo, si assistette infatti ad un progressivo e rovinoso sconvolgimento di tutte le strutture della società, e anche la produzione dei libri subì trasformazioni profonde: la fabbrica del libro divenne essenzialmente il monastero. Fra il XII e il XIII secolo, con lo sviluppo della civiltà comunale, le città diventarono nuovamente centri di vita economica e culturale; l’interesse per la lettura coinvolse non solo gli uomini di chiesa ma anche i laici; le università, dove si studiava filosofia, teologia, medicina e diritto, si riempirono di studenti; gli studenti avevano bisogno di molti libri, e da questa necessità nacquero nuove forme di produzione. Contemporaneamente, per l’allargarsi della cultura e il diffondersi delle opere in volgare, si reinventò, nelle città comunali, un mercato librario, e rinacquero le botteghe artigiane, che lavoravano prevalentemente su commissione. Fra il XIV e il XV secolo, la produzione registrò infine un fortissimo incremento, e sicuramente fu la grande richiesta di mercato a stimolare l’invenzione della stampa (v. Filologia in pillole - 4. Materiali scrittorii e copisti).     Quanto all’Oriente greco, gli studi ad alto livello rimasero fiorenti fino al VI secolo, finché ad Alessandria, Antiochia, Atene, Beirut, Costantinopoli e Gaza c’erano ancora scuole che di fatto costituivano le ‘università’ del mondo antico: ma, nel VI secolo, a causa del progressivo generale degrado dell’epoca, ad una ad una anche queste scuole decaddero. Seguirono poi tre secoli in cui la cultura e l’interesse per i classici lasciarono ben poche tracce, finché si giunse alla rinascita del IX secolo. Ed è a partire dal IX secolo che la produzione di manoscritti cominciò ad incrementarsi notevolmente, grazie anche ai cambiamenti operati sui tipi di scrittura e sui materiali scrittorii: ed è in gran parte dovuto all’attività degli studiosi del IX secolo se oggi possiamo ancora leggere la letteratura greca, perché i testi di quasi tutti gli scrittori dipendono in definitiva da una o più copie risalenti a quest’epoca o di poco successive, da cui tutte le altre sono poi derivate.     La conservazione e la trasmissione dell’eredità classica, e più in generale la trasmissione dei testi, sono insomma dovute al lascito enorme di libri manoscritti prodotti per tutto il Medioevo: libri senza i quali la filologia letteraria non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di nascere.     Nei primi secoli, in Italia, basti ricordare Benedetto da Norcia (480-550) e Cassiodoro (480ca.-575), fondatori rispettivamente, nel 529 e nel 540, del monastero di Vivario – a Squillace, piccola antica città calabrese della zona di Catanzaro – e di quello di Montecassino.  Cassiodoro arricchì la sua fondazione di una buona e funzionale biblioteca e sottolineò l’importanza della trascrizione dei manoscritti, insistendo sulla necessità che le copie fossero apprestate meticolosamente e riconoscendo all’amanuense una nuova dignità, anche se non risulta che Vivario abbia avuto una funzione diretta nel trasmettere testi classici. Cassiodoro comprese inoltre la necessità di tradurre in latino autori greci, e riuscì ad aumentare il corpo di cultura greca disponibile in latino; la sua lungimiranza gli permise di prevedere che, con la disintegrazione della vita politica, proprio i monasteri avrebbero dovuto offrire la migliore speranza di una continuità intellettuale nei secoli successivi.  Più limitata nelle intenzioni, ma ben più grande negli effetti fu invece la fondazione di Montecassino: «Oltre a fissare un po’ di tempo ogni giorno per la lettura, impegno più spirituale che intellettuale, la regola benedettina non aveva niente da dire riguardo all’esercizio intellettuale, né trascrivere i libri aveva una parte esplicita nell’ideale monastico, però, non dicendo nulla, lasciava la via aperta alle influenze liberali, quando il tempo fosse stato maturo, ed in ogni caso non era possibile leggere se non si possedevano libri» (L. D. Reynolds – N. G. Wilson, Copisti e filologi: la tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni , p. 85).  L’importanza degli irlandesi per la trasmissione dei testi classici cominciò quando abbandonarono l’Irlanda, spinti da zelo missionario: spettacolare fu la missione di Colombano (543ca.-615) sul continente, che tracciò attraverso l’Europa una pista segnata da istituzioni monastiche importantissime, come Luxeuil in Borgogna (590), Bobbio in Italia (614), San Gallo in Svizzera (613)  Più tardi, Bonifacio (675-754) partì dall’Inghilterra per cristianizzare la Germania, e in Germania sorsero importanti centri episcopali, come Magonza e Würzburg, nonché numerose fondazioni monastiche, come ad esempio il monastero di Fulda, fondato nel 744.     Oltre alla copiatura dei testi, molti altri furono peraltro i modi in cui la cultura antica sopravvisse e si trasmise nei secoli medievali, contribuendo indirettamente, e talvolta direttamente, anche alla sopravvivenza e alla trasmissione dello spirito e delle tecniche della filologia (v. Filologia in pillole 6. Nozioni basilari di “critica testuale”).  Per l’Occidente, abbiamo a lungo parlato dei rappresentanti dell’enciclopedismo – fra cui, non a caso, compare anche Cassiodoro – e del loro ruolo di vettori nella trasmissione e spiegazione del sapere antico (v. i dodici saggi su Enciclopedismo, filologia, poesia: l’eredità del Medioevo); ma personalità significative furono anche, in Inghilterra, Aldelmo, Beda, Alcuino; e ancora, presso la corte di Carlo Magno, oltre allo stesso Alcuino, gli italiani Pietro da Pisa e Paolo Diacono, e lo spagnolo Teodulfo vescovo d’Orléans. E ci furono poi Lupo di Ferrière, Heiric di Auxerre, il vescovo di Liegi e di Verona Raterio, Gerberto di Reims, l’abate di Montecassino Desiderio, Guglielmo di Malmesbury, Giovanni di Salisbury, Nicola Trevet, e molti altri.  Aldelmo (639ca.-709) e Beda (673-735),  ci dimostrano quanto vaste fossero le letture degli studiosi inglesi nei secoli VII e VIII: sappiamo infatti che il numero di libri da loro consultati fu eccezionale; e sembra provato che Aldelmo conoscesse Virgilio, Lucano, Persio, Giovenale, Plinio il Vecchio, Cicerone, forse Ovidio, mentre Beda ebbe conoscenza diretta di molti grammatici, di Virgilio, di Plinio il Vecchio, ecc. E questo è indice di quanto vasta fosse la disponibilità di opere classiche in Inghilterra: ipotesi convalidata peraltro da Alcuino (735-804), che, in una poesia in lode di York, ci dà un rapido panorama del contenuto di quella grande biblioteca.  E fu proprio a York che Carlo Magno si rivolse quando si giunse a dover creare una classe colta partendo dal nulla: e invitò Alcuino, capo di quella scuola, ad assumersi l’incarico della scuola Palatina e ad essere il suo consigliere in materia di istruzione. Con Alcuino la corte divenne il centro di fruttuosi scambi fra poeti e studiosi di tutta l’Europa, come Pietro da Pisa (m.799), Paolo Diacono (720-799), Teodulfo d’Orléans (760-821): uomini, tutti, che si accostarono ai classici con grande curiosità intellettuale. Nel bisogno generalizzato di libri, questi ultimi vennero apprestati in misura senza precedenti, in una attività intensa che salvò per noi la maggior parte della letteratura latina: basti ricordare che uno dei più celebri manoscritti di Lucrezio (il cosiddetto codice Oblongo) è fra i primi esempi dell’attività erudita rivolta ad un testo classico nel periodo carolingio. Teodulfo, prima di morire, preparò anche un’edizione della Vulgata – ovvero la traduzione in latino della Bibbia ad opera di S. Girolamo  –, in cui adombrava i moderni metodi editoriali, usando sigle ai margini per distinguere le fonti delle sue varianti, come ad esempio a per le lezioni di Alcuino.  Lupo di Ferrières (805ca.-856) è una personalità che sembra quasi preannunciare il Rinascimento. Ansioso di accrescere la biblioteca del suo monastero, scrisse dappertutto alla ricerca di libri: cacciatore di manoscritti come altri, il suo merito particolare consiste nel fatto che era avido di ottenere codici di opere che già possedeva per poter correggere la propria copia mediante collazione.  Heiric di Auxerre (841ca-876) pubblicò raccolte di estratti da Valerio Massimo e Svetonio, fu il primo ad usare gli estratti da Petronio che circolavano all’epoca, e gli va anche attribuita una raccolta di testi rari sopravvissuta in un codice da lui stesso postillato.  Il secolo X fu un periodo di transizione dall’età carolingia all’espansione economica ed intellettuale dei due secoli seguenti. Si verificò un abbassamento generale nel livello della cultura e un calo nella produzione di manoscritti classici, ma gli autori latini continuarono ad essere studiati e copiati; e anzi, fra gli studiosi di questa età, ce ne furono due la cui ampiezza di sapere non ha paralleli nelle generazioni precedenti, Raterio (887ca.-974) e Gerberto di Reims (950ca.-1003). Per quanto concerne Raterio, sappiamo che conobbe i testi rari di Plauto e di Catullo, da lui trovati probabilmente in Francia; e un monumento alla sua devozione per i classici è da considerarsi il più importante esemplare della prima decade di Livio, che fu copiato a Verona seguendo le sue istruzioni. Gerberto, in qualità di tutore di Ottone III, fu al centro del risveglio intellettuale di questa corte: grande insegnante, attivo raccoglitore di manoscritti, pioniere della matematica, fu successivamente abate a Bobbio, arcivescovo di Reims e di Ravenna e infine papa col nome di Silvestro II.  Un avvenimento grandioso nella storia degli studi latini dell’XI secolo fu la grande rinascita di Montecassino: la sua fioritura di attività artistica ed intellettuale raggiunse il massimo sotto l’abate Desiderio (1058-1087), e tale fioritura fu accompagnata da un rinnovato interesse per i classici. A Montecassino e nei centri connessi furono vergati numerosissimi e importantissimi codici.  Guglielmo di Malmesbury (m. 1143) e Giovanni di Salisbury (1110-1180) furono due grandi rappresentanti del risveglio letterario nel XII secolo. Guglielmo, il più grande storiografo dell’epoca, come bibliotecario  di Malmesbury, aveva a disposizione una biblioteca eccellente, che egli stesso provvide ad accrescere; gli si devono inoltre raccolte di testi affini, quali ad esempio la silloge storica con Vegezio, Frontino ed Eutropio; e gli si deve anche lo sforzo di mettere insieme tutte le opere di Cicerone, compreso un tentativo di edizione dei frammenti dell’Hortensius e del De Re publica ricavati dalle opere di S. Agostino.  Le letture preferite di Giovanni di Salisbury furono Cicerone, Seneca e Valerio Massimo, ma si occupò anche di autori e opere non comuni, quali gli Stratagemata di Frontino e l’Historia Augusta; straordinaria fu inoltre la sua conoscenza di tutto il testo supersite di Petronio.  Nicola Trevet (ca. 1265-1335), domenicano, legato ad Oxford, ebbe una così grande fama per la sua erudizione e la sua abilità di esegeta dei testi antichi che, dall’Italia, gli commissionarono i commenti alle Tragedie di Seneca e a Livio.     Quanto all’Oriente greco, potremmo ricordare Procopio di Gaza (460ca-530), che inventò un tipo di commento alla Bibbia, consistente nel riunire, per ogni libro, le opinioni degli interpreti precedenti, riportandole spesso integralmente; Fozio (ca. 810-891), che, nella sua opera Bibliotheca (o Muriobiblios), riassunse e commentò una vasta scelta di testi pagani e cristiani, costituendo una fonte preziosa di tradizione indiretta per libri andati in seguito perduti; l’arcivescovo di Cesarea Areta (860-935), solito a commissionare codici a scribi di professione e a inserirvi sui margini propri estesi commenti; Eustazio (XII secolo), coi suoi commenti agli autori classici tratti da fonti per noi altrimenti sconosciute, e con la sua abitudine a collazionare copie diverse del medesimo testo; Massimo Planude (1255-1305) coi suoi metodi per preparare le edizioni; Demetrio Triclinio (XIV secolo) con le sue conoscenze metriche, i suoi commenti, il suo interesse per la continua ricerca di manoscritti delle stesse opere al fine di migliorarne i testi, e, soprattutto, il suo ritrovamento a Bisanzio di un manoscritto con nove tragedie di Euripide (che, fortunatamente per noi, fece anche riprodurre in diverse copie). Importantissime furono poi le traduzioni dei testi greci in lingue orientali (testi biblici, ma anche testi grammaticali, matematici e medici; e poi Platone, Aristotele, Teofrasto, Luciano).