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Filologia in pillole - 6. Nozioni basilari di “critica testuale”

2025-03-31 17:46

Claudia Pandolfi

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Filologia in pillole - 6. Nozioni basilari di “critica testuale”

Sulla critica del testo, è indispensabile conoscere almeno la terminologia essenziale: sapere cosa si intende per costituzione del testo, tradizione,

Sulla critica del testo, è indispensabile conoscere almeno la terminologia essenziale: sapere cosa si intende per costituzione del testo, tradizione, emendazione, recensione, edizione critica, apparato critico, errori di copiatura, ecc..  

Premesso che per constitutio textus (costituzione del testo) si intende la restituzione di un testo che si avvicini il più possibile all’originale, il percorso per arrivarci è abbastanza complesso. Basti ricordare che, per più secoli, fino all’affermarsi della stampa, i testi non hanno conosciuto altra via di trasmissione che la copiatura manoscritta, per opera dei librarii antichi e degli amanuenses medievali, e che la copiatura è sempre soggetta ad errori. L’avvento della tecnica tipografica ha massicciamente limitato gli errori di trascrizione, ma non li ha eliminati: per questo, in ogni epoca, a partire dalla scuola di Alessandria, si è sentita la necessità di intervenire sul testo tradito (dal latino tradere = tramandare, trasmettere). Il termine tradizione indica sia il modo di trasmissione (tradizione orale, tradizione manoscritta, tradizione a stampa) sia, indirettamente, le forme concrete di trasmissione (papiro, codice, stampa, ecc.). Intervenire sul testo tradito significa ovviamente rimuoverne gli errori, sanarne le eventuali lacune, liberarlo da ogni forma di inquinamento, curarne cioè l’emendatio (emendazione). L’emendazione è l’atto conclusivo di tutta una serie di esami condotti sui documenti offerti dalla tradizione: è cioè l’atto conclusivo della recensio (recensione / dal latino recensere = ripercorrere, esaminare). Recensione ed emendazione sono i momenti fondamentali della critica testuale, il cui traguardo è l’edizione critica del testo: un’edizione, cioè, che presenti un testo non dissimile – si presume – da quello originario; e che, in uno speciale apparato critico, renda conto di tutte le operazioni eseguite dal filologo sul materiale tradito, per giungere appunto alla costituzione del testo critico.      

 

Per quanto riguarda gli inevitabili errori di copiatura, il paleografo Alphonse Dain (Les manuscripts, Parigi 1949) calcolava che un copista medio, che riproduca un testo mediamente alterato, si lascia sfuggire in media un errore a pagina. Gli errori si accumulano di copia in copia e, via via che il testo si modifica in peggio, gli errori di copiatura aumentano in progressione geometrica, tanto che alla fine si ha a che fare con una piramide di errori. Risalire al vertice della piramide, almeno per le letterature classiche, è impossibile: le copie di cui disponiamo sono infatti relativamente recenti, appartengono per lo più agli ultimi sei o sette secoli di tradizione manoscritta, e sono perciò notevolmente inquinati.  

Ma che cosa intendiamo per ‘errore’? 

Per ‘errore’ si intende ogni deviazione dal testo ricopiato: dunque si parla di ‘errore’ anche nei casi in cui la deviazione – fortuitamente o intenzionalmente – riconduca il testo ad una lectio (lezione / dal latino legere: cioè, la forma in cui si presenta (si legge) un luogo del testo)  più corretta. Fondamentalmente, l’errore del copista nasce da quella che potremmo definire ‘discontinuità dell’attenzione’: una condizione ineliminabile dal lavoro di copiatura. Di solito, il copista medievale, su cui siamo meglio informati, leggeva e memorizzava un tratto dell’esemplare che aveva per modello (antigrafo): un tratto piuttosto breve, che poi trascriveva sulla pagina del nuovo esemplare (apografo o codex descriptus / da describere = trascrivere).  Già in questa operazione erano insiti pericoli di errore: innanzi tutto in relazione alle caratteristiche esteriori dell’antigrafo, che poteva essere macchiato, sbiadito, lacerato; scritto in una grafia inusuale, o troppo fitta, o alterata da correzioni, o accompagnata da annotazioni interlineari o marginali (glosse). Per quanto concerne le glosse, ad esempio, non di rado il copista era indotto ad inglobarle meccanicamente nella trascrizione, creando così delle interpolazioni.  Dunque, nella copiatura, c’è un primo problema: di corretta lettura, quando non di vera e propria decifrazione; senza contare che anche il testo più chiaro può essere letto male per distrazione (per esempio, il pensiero può sbandare dalla parola da trascrivere ad altre foneticamente simili e più vicine e familiari: così, nei manoscritti eseguiti da monaci, sono frequentissimi gli amen al posto di agmen, o di tamen, o di amem; oppure vi si trova peccatoribus al posto di pectoribus; o ancora Galilea al posto di Gallia). Un coefficiente fondamentale di questi errori è costituito dalle condizioni psicofisiche del copista (età, stanchezza, capacità visive, debolezza di memoria…), ma un ulteriore motivo di sbaglio può essere dato da quello definibile come ‘dettato interiore’: letto e memorizzato il pezzetto di testo (pericope), il copista se lo detta mentalmente nell’atto di trascriverlo, e, nell’autodettatura, non può non seguire le peculiarità fonetiche della lingua madre, a scapito dell’esatta trascrizione (ad esempio, un copista tedesco era facilmente indotto a pronunciare dentro di sé, e quindi a scrivere, fetus al posto di vetus. Molti errori di tipo auditivo sono da ricondurre a questo dettato interiore, anche se taluni studiosi sostengono, per l’età medievale, la pratica della copiatura multipla: cioè più copisti che trascrivono contemporaneamente, sotto dettatura, il medesimo testo). Un tipo particolare di errore è il ‘salto da uguale a uguale’: l’occhio che torna all’antigrafo si ferma, cioè, su una parola identica, o molto simile, a quella che chiudeva la pericope, e riparte da lì, senza accorgersi di essere passato ad un contesto successivo (il ‘salto’ può riguardare anche passi di una certa estensione, ma anche solo poche sillabe, o anche due o tre lettere: nei due ultimi casi, l’identità che provoca l’omissione è detta omoteleuto se è tra finali di parola – es. celeriter salutariter può portare alla ‘caduta’ di - riter saluta -, e quindi alla semplice trascrizione di celeriter –,  e omeoarto  se è tra iniziali – es. indulgentia industria = industria –). La natura prevalentemente ‘meccanica’ degli errori di copiatura ne rende spesso semplice l’individuazione: non così, se il copista è persona colta, in grado di riconoscere gli ‘errori’ dell’antigrafo e dunque di ‘correggerli’. Correggerli significa dare al testo un senso accettabile, con una forma grammaticalmente e linguisticamente corretta: ma, facendo ciò, il copista fa sparire dall’apografo l’errore, per sostituirlo con una lezione sua e non con quella autentica. Per di più, spesso le correzioni sono dovute ad errori di valutazione del copista stesso, che magari non è in grado di riconoscere l’esattezza di alcune forme, semplicemente perché estranee al suo patrimonio di conoscenze.

 

E arriviamo al  cosiddetto ‘originale’. Secondo alcune definizioni correnti, l’ecdotica (dal greco ekdotos = edito) – cioè  l’insieme dei metodi e delle tecniche che presiedono all’edizione di un testo – mirerebbe a ‘recuperare’ il manoscritto dell’autore, o quanto meno il testo ad esso più vicino: il cosiddetto ‘originale’, testo autentico, che dell’autore esprime la volontà. Così inteso, «l’originale è una mera astrazione». In effetti il concetto di originale deriva da una visione statica dell’opera letteraria, che si configura invece quasi sempre con «un organismo dinamico, i cui fermenti spesso non si esauriscono nemmeno con la pubblicazione (si pensi solo alla vicenda dei Promessi sposi). Le varianti d’autore ne sono l’aspetto più vistoso […]. D’altra parte, nemmeno il più diligente manoscritto che sia eseguito di pugno dell’autore va del tutto esente da errori; come è stato acutamente detto, anche la prima stesura autografa ‘non rappresenta l’originale, ma è una copia […], o meglio la prima copia in assoluto di un testo elaborato lentamente nella mente dello scrittore’. In definitiva si potrebbe anche arrivare a dire che un vero e proprio originale non è mai esistito, e ciò deve mettere in guardia contro le troppo drastiche definizioni degli scopi della critica testuale» (A. Traina – G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Bologna, Patron, 1972, capitolo VIII La critica del testo, pp.243-295, p.253ss.). Che cosa può dunque recuperare l’ecdotica, attraverso tutte le testimonianze della tradizione? Può recuperare il testo quale si è storicamente concretato, con le sue inevitabili alterazioni rispetto al cosiddetto originale, con le sue eventuali stratificazioni, nella concretezza del suo esistere spaziale e temporale. Ce lo dimostrano appieno le commedie di Plauto: ché ciò che la tradizione ci consegna non è affatto il testo scritto dall’autore, bensì il ‘copione’ usato per la messa in scena dalle generazioni successive, con tutte le manipolazioni (dovute ad esempio alle necessità sceniche) facilmente immaginabili. Come s’è detto, il testo giunse infatti a fissarsi solo a più di un secolo di distanza dalla sua composizione, quando, dalla sua utilizzazione teatrale, passò nelle mani dei filologi: ed è al massimo in questa forma che noi possiamo pensare di recuperarlo. 

 

Per “tradizione indiretta” si intendono tutte le testimonianze relative ad opere – che siano o no giunte a noi –presenti in autori che quelle opere hanno letto o commentato o utilizzato in qualche modo. Ricordiamo che, fra il II e il IV secolo d. C., si registrò il definitivo passaggio dal papiro in rotolo alla pergamena ripiegata e tagliata in fogli del codice; che, fra il secolo VIII e il IX, la rinascita carolingia e l’affermarsi della scrittura carolina portarono alla traslitterazione dei precedenti codici in maiuscola; che, fra il XV e il XVI secolo si assistette al passaggio dal libro manoscritto al libro stampato. «Benché fondamentali per la fortuna del libro e quindi per la storia della civiltà, questi eventi (e i primi due soprattutto) hanno certamente contribuito alla definitiva scomparsa di opere che non si ritennero degne di ripagare la fatica e la spesa della trascrizione; la stessa imponente quantità di opere, rapportata alla necessaria lentezza del lavoro di copiatura, esigeva una cernita o almeno una graduatoria del materiale da trascrivere, e naturalmente furono favorite le opere meglio confacenti a una civiltà cristiana e alle esigenze della scuola […]. E un altro danno non lieve per la tradizione manoscritta fu, in ciascuna delle tre occasioni ricordate, la perdita di numerosi antigrafi, considerati inutili una volta che ne fosse ricavato l’apografo: così sono andate smarrite testimonianze che sarebbero oggi preziose per la restituzione del testo, anche se la sua tradizione diretta è rimasta comunque assicurata. In ogni caso, però, abbiano o non abbiano generato apografi, i manoscritti perduti ebbero una loro lunga vita, furono letti, consultati, studiati, se ne trassero citazioni, appunti, schede […]. Testimonianze concrete del loro contenuto, talvolta della forma stessa di singole lezioni, sono perciò rintracciabili nelle opere degli scrittori che li utilizzarono, e costituiscono una preziosa tradizione indiretta» (A. Traina – G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, cit., p.257ss.).     

 

Poche parole, infine, sul famoso metodo del Lachmann, che portò alla consacrazione delle regole  della moderna critica testuale.  Il metodo consiste fondamentalmente nel fatto che recensione ed emendazione, i due processi fondamentali della critica testuale, trovano nel Lachmann un diverso ordine di importanza. Nell’età umanistica si dava prevalenza assoluta all’emendazione, e la recensione era limitata ad una valutazione comparativa dei manoscritti a portata di mano; come testo base veniva solitamente preso quello offerto del codice ritenuto optimus (il migliore), che spesso era anche il codex vetustissimus (cioè il più antico), e tale testo era  ampiamente emendato, per congettura o per comparazione con altri. Il Lachmann afferma ulteriormente e consacra definitivamente l’importanza della recensio, nonché la necessità di una ricostruzione genealogica della tradizione manoscritta. Fissa il concetto di archetipo come perduto manoscritto medievale (o risalente alla fine del mondo antico), da cui sarebbero derivati immediatamente o mediatamente tutti gli altri. Soprattutto, poi, fissa delle regole ferree:  

- la recensio deve sistemare la tradizione manoscritta in uno stemma (o albero genealogico) di assoluto rigore;  

- all’interno di esso, per la scelta di una lezione, si applica la legge di maggioranza (che presuppone però uno stemma ad almeno tre rami);  

- la ricostruzione delle parentele fra i codici è basata sulla comunanza di errori significativi (errori guida), che non possono essere sorti autonomamente (errori congiuntivi);  

- un codice che ripeta gli errori di un altro, e presenti in più errori suoi, è un mero apografo e non va preso in considerazione (procedimento chiamato eliminatio codicum descriptorum).  

Lo stemma, in condizioni ideali, dovrebbe consentire di ripercorrere alla rovescia il cammino della tradizione, rendendo del tutto inutile l’uso del iudicium (giudizio): sennonché condizioni ideali non si riscontrano quasi mai. Fondamentalmente, le difficoltà maggiori ad applicare il metodo del Lachmann sono dovute al fatto che:  

-  spesso ci sono contaminazioni fra codice e codice (la trasmissione non è cioè sempre e soltanto per linee verticali, come presuppone invece il metodo);  

- quasi mai abbiamo uno stemma che sia almeno trifido, mentre sono frequentissimi stemmi bifidi (a due soli rami).  

Chiamiamo recensione chiusa quella in cui, applicando il metodo del Lachmann, la lezione dell’archetipo può essere fissata meccanicamente. Chiamiamo invece recensione aperta quella in cui non si verifichino le condizioni per una ricostruzione meccanica dell’archetipo stesso: in quest’ultima recensione trova necessariamente grande spazio il giudizio (iudicium) dell’editore, il suo intervento congetturale. Tale iudicium  non può naturalmente essere arbitrario, ma deve basarsi su criteri interni.  

I criteri interni sono essenzialmente due, cioè usus scribendi (l’uso linguistico) e lectio difficilior (lezione più difficile): «In base al primo, tra due lezioni concorrenti sarà da preferire quella che meglio rispecchia lo stile dell’autore. La seconda si basa sul principio che fra varianti ugualmente valide ma che alla comune comprensione dimostrano un diverso grado di difficoltà, la lezione ‘più difficile’ ha maggiori probabilità di essere autentica: l’amanuense, infatti, è portato a banalizzare, a rendere comprensibile ciò che gli riesce oscuro o nuovo, a far rientrare nella norma ciò che gli pare ‘eccezionale’, ad aggiustare ciò che gli si presenta come scorretto» (A. Traina – G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, cit., p.271).