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Filologia in pillole - 4. Materiali scrittorii e copisti

2025-03-31 17:37

Claudia Pandolfi

Filologia, pecia, papiro, pergamena, membrana, volumen, palinsesto,

Filologia in pillole - 4. Materiali scrittorii e copisti

La forma più antica di “libro” è rappresentata dal “rotolo” (volumen) di papiro. Il rotolo recava su una faccia la scrittura, in una serie di colonne:

La forma più antica di “libro” è rappresentata dal “rotolo” (volumen) di papiro. Il rotolo recava su una faccia la scrittura, in una serie di colonne: chi leggeva lo doveva svolgere gradualmente, arrotolando la parte già vista, sicché alla fine la spirale risultava capovolta, e andava srotolata e arrotolata di nuovo prima che un altro lettore potesse servirsene. La scomodità era notevole, tanto più che alcuni rotoli erano di lunghezza considerevole: larghi ventisei/ventotto centimetri erano lunghi di solito sette/otto metri, raramente più corti di due metri e mezzo o più lunghi di dieci/dodici metri. I guasti erano comprensibilmente facili e frequenti, data la scarsa resistenza del materiale. Il papiro veniva preparato tagliando sottili strisce dal midollo fibroso di una pianta che cresceva sul delta del Nilo (nel I secolo d.C. c’erano però anche centri minori di produzione in Siria e in Mesopotamia): due strati di strisce venivano sovrapposti ad angolo retto e compressi insieme per formare i fogli che venivano poi incollati insieme per formare il rotolo.  

Già usata in età ellenistica, ma in misura ridottissima, la pergamena (membrana) – il nome deriva dalla città di Pergamo, dove era stato inventato il trattamento sulle pelli di animale (soprattutto di pecora) così che risultassero utilizzabili come materiale scrittorio – divenne di uso comune dopo i primi secoli dell’era cristiana, quando il rotolo cominciò a sparire per fare posto al codice (codex): un libro essenzialmente simile ai nostri. La prima menzione di opere letterarie diffuse in codici di pergamena è data nel I secolo d. C. da Marziale, ma in realtà il codice non venne in uso fino al II secolo d.C., guadagnò terreno nel III, trionfò pienamente nel IV: il codice poteva essere fatto sia di papiro che di pergamena, ma, col tempo, la pergamena ebbe la meglio, in quanto materiale estremamente più resistente. L’impulso a cambiare il formato dei libri venne dai primi cristiani: più pratico, capace, facile da consultare, con la possibilità di numerare le pagine e di inserire degli indici, il codice si prestava infatti molto meglio alla divulgazione delle Sacre Scritture.  

L’epoca che va grosso modo dal 550 al 750 fu, nell’Europa continentale, sicuramente la più buia. Un segno di tale oscurità è dato dai palinsesti: codici in cui gli scritti originali furono raschiati per fare posto ad opere in quel momento più richieste. «Molti testi, sfuggiti alla distruzione nell’impero d’Occidente che si sgretolava, perirono entro le mura di un monastero; alcuni di essi erano forse troppo sciupati per essere di utilità pratica quando vi arrivarono e non ci fu rispetto per i brandelli, anche se venerabili: il periodo culminante per questa operazione fu il settimo secolo e l’inizio dell’ottavo […]. Queste perdite avvennero non perché gli autori pagani fossero combattuti, ma perché non c’era interesse a leggerli e la pergamena era troppo preziosa per contenere un testo scarsamente usato… il tributo pagato dagli autori classici fu molto pesante: fra quelli ridotti a palinsesti troviamo Plauto e Terenzio, Cicerone e Livio, i due Plini, Sallustio e Seneca, Virgilio ed Ovidio, Lucano, Giovenale e Persio, Gellio e Frontone […]. Fra i testi che sono rimasti unicamente in questa forma mutilata ce ne sono alcuni di eccezionale interesse, come il De re publica di Cicerone» (L. D. Reynolds – N. G. Wilson, Copisti e filologi: la tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, trad. di Mirella Ferrari, Padova, Editrice Antenore, 1973, pp. 87-88).  

A partire dalla metà del XIII secolo, sulla pergamena iniziò a prevalere la carta: già in uso presso i bizantini negli archivi imperiali fin dalla metà del secolo XI, questo materiale scrittorio fu utilizzato quasi esclusivamente per edizioni molto diffuse e di scarso valore economico come ad esempio i testi universitari.  

Quello che accomuna tutti i manoscritti. è la lentezza e la laboriosità dell’operazione, e dunque, da un lato, la loro ‘rarità’, dall’altro il problema della manodopera: occorrevano lavoratori abbastanza colti da eseguire un’operazione qualificata, ma abbastanza docili e privi di alternative per rassegnarsi ad una occupazione non certo gratificante; per di più, abbastanza ‘a buon mercato’, per non far salire alle stelle il prezzo del prodotto finito. Nell’antichità, il problema fu risolto con l’impiego degli schiavi: al servizio di un imprenditore, gli schiavi copisti riuscivano persino ad assicurare una certa produzione in serie, sorretta da un mercato abbastanza diffuso nelle città. Non sappiamo se gli schiavi, in una ‘bottega’, scrivessero sotto dettatura, oppure copiassero da un esemplare ad un altro in progressione geometrica (dall’antigrafo, una copia / da antigrafo e copia, due copie / da antigrafo e tre copie, quattro copie ecc.).  

Con la caduta della civiltà classica, tutto cambia. A partire dal V secolo, assistiamo ad un progressivo e rovinoso sconvolgimento di tutte le strutture della società. La produzione del libro subisce trasformazioni altrettanto profonde: le botteghe decadono per mancanza di manodopera (lo schiavo si trasforma nel servo della società feudale, con nuovi compiti e diversa collocazione sociale nei confronti del signore), e per chiusura del mercato (le città si svuotano, l’analfabetismo si moltiplica). Nell’alto medioevo, la fabbrica del libro è essenzialmente il monastero (dove si copiano libri sacri, opere di scrittori cristiani, testi liturgici, ma anche testi di autori pagani, libri presi da quanto restava delle antiche biblioteche pubbliche e private, passati poi da un monastero all’altro); altri libri si accumulano nelle cattedrali, cioè nelle chiese sede di vescovi dove esiste una scuola per la formazione del clero. Fra il XII e il XIII secolo, con lo sviluppo della civiltà comunale, le città diventano nuovamente centri di vita economica e culturale; l’interesse per la lettura coinvolge ormai non solo gli uomini di chiesa ma anche i laici; le università, dove si studia filosofia, teologia, medicina e diritto, si riempiono di studenti; gli studenti hanno bisogno di molti libri, e da questa necessità nascono nuove forme di produzione. Un sistema molto valido e diffuso di riproduzione di libri per la scuola medievale è quello noto col nome di ‘pecia’ (= pezzo), e il sistema consiste appunto nella copiatura di libri pezzo per pezzo: da un modello del libro di testo – sotto forma di fascicoli sciolti – approvato dai professori e depositato presso i bidelli dell’università, gli studenti copiavano o facevano copiare uno ad uno i fascicoli, affittati a prezzo stabilito, cosicché era possibile far copiare contemporaneamente a molti lo stesso testo, da un modello corretto, con una spesa modesta per ognuno. Si conoscono molti codici messi insieme con questo metodo. Contemporaneamente, per l’allargarsi della cultura e il diffondersi delle opere in volgare, si reinventa, nelle città comunali, un mercato librario, e rinascono le botteghe artigiane, che lavorano prevalentemente su commissione.  

Fra il Trecento e il Quattrocento, la produzione registra un fortissimo incremento: l’invenzione della stampa – la famosa Bibbia di Giovanni Gutenberg vede la luce tra il 1454 e il 1456, e, da questo momento in poi, l’arte tipografica inizia la sua inarrestabile evoluzione – fu di certo stimolata dalla grande richiesta di mercato.