facebook

facebook
whatsapp
logo_latinorum
baa2e4a7b628dc3cc7134830fb71be9d82fbe57d

Filologia in pillole - 2. Che cosa è veramente la filologia

2025-04-01 17:17

Claudia Pandolfi

Filologia, Seneca, Letteratura e filologia, Platone, Aristotele, Eratostene, Ateio, Svetonio, Strabone, Filologia e critica letteraria, Nietzche, Soggettività e oggettività, Filologia alessandrina, Wilamovitz, Romagnoli, Gramsci, Pasquali,

Filologia in pillole - 2. Che cosa è veramente la filologia

Il discorso deve necessariamente prendere avvio dal concetto di letteratura: termine con cui si tende ad indicare il complesso delle conoscenze lingui

Il discorso deve necessariamente prendere avvio dal concetto di letteratura: termine con cui si tende ad indicare il complesso delle conoscenze linguistiche, storico-linguistiche, letterarie, storico-letterarie, filologiche, necessarie per lo studio dei testi di una determinata cultura.  -         Non esiste letteratura senza scrittura (e dunque senza lingua): conoscenze linguistiche.  -         Non esiste lingua che non si evolva storicamente: conoscenze storico-linguistiche.  -         Non esiste produzione letteraria che possa essere studiata e compresa a fondo senza tener conto delle differenze stilistiche, di contenuto, di forma, che caratterizzano le diverse opere (generi letterari): conoscenze letterarie.  -         Non esiste peraltro produzione letteraria che, come la lingua, e come ogni tipo di produzione scientifica o artistica, non faccia parte del processo storico totale della società. Non si possono dunque studiare e comprendere a fondo la genesi, la natura, l’ideologia, la funzione di ogni singola opera, se non la si inserisce nel suo contesto culturale, sociale e politico, e se, al contempo, non la si valuta alla luce dell’esperienza individuale del suo autore: conoscenze storico-letterarie.  -         Non esiste infine scrittura che non sia soggetta ai vincoli creati dai propri stessi strumenti materiali, che non subisca il passaggio dall’ideazione alla creazione, che non si modifichi nella tradizione - non c’è opera scritta, cioè, che non necessiti di uno studio critico del testo – : conoscenze filologiche.     “Letteratura” appare dunque come un concetto molto vasto, mentre si potrebbe pensare alla “Filologia” come ad una sorta di piccola sottodisciplina: sulla base di quanto s’è detto, la filologia sembrerebbe infatti ridursi al complesso delle indagini volte a riportare un testo alla sua forma ‘originaria’, liberandolo da errori e rimaneggiamenti, e quindi ad interpretarlo, a precisarne l’autore (in caso di attribuzioni dubbie), la datazione, il contesto culturale. In realtà, non è così. Se, in senso più ristretto, filologia è diventata sinonimo di critica testuale, l’etimologia stessa della parola (philologos è l’amante del logos) ci fa comprendere come l’ambito della disciplina sia, o sia stato, o debba o possa essere estremamente più vasto: molto più vasto di quello della letteratura, che sembrerebbe comprenderla (il significato etimologico di ‘letteratura’ stabilisce del resto una semplice connessione del termine con la scrittura, dal latino littera = lettera dell’alfabeto).  Va da sé che il significato delle parole, soprattutto per quanto attiene a nozioni, a categorie mentali, e non ad oggetti concreti, non viene dato mai soltanto dall’etimologia, ma subisce nel tempo slittamenti semantici, si evolve e si modifica sulla base del consenso dei parlanti, si adatta a determinate convenzioni linguistiche (una lingua si evolve storicamente sul piano morfologico, sintattico e lessicale); va da sé, insomma, che le parole cambiano senso col tempo e col diversificarsi delle culture. Non a caso, anche il concetto di letteratura è cambiato nei secoli. Eppure, il concetto di letteratura è cambiato fondamentalmente solo nel senso di progressivi restringimenti (all’inizio, per letteratura si intendeva tutta la produzione scritta di una determinata cultura) e allargamenti, in relazione al tipo di produzione scritta che potesse o meno rientrarci; il concetto di filologia ha avuto una storia molto più complessa e travagliata.  Sulla filologia, sul suo significato, sul suo contenuto, sulle sue capacità, la sua natura e i suoi compiti, esiste una bibliografia vastissima. La riflessione nasce, si può dire, con la nascita stessa del termine (le due parole, philologos e philologia si trovano per la prima volta in Platone), e si ritroverà, in varie forme, in tutte le età, sollevando polemiche fortissime, coinvolgendo ad esempio personalità come Nietzsche e Wilamovitz, come Romagnoli e Pasquali, o come Gramsci; contrapponendo razionalità e immaginazione, toccando concetti come oggettività e soggettività, che investono la visione stessa del mondo e della società; intrecciando rapporti con la filosofia e la politica…  In ogni caso, a prescindere dalla storia della disciplina, dai diversi significati attribuiti nei secoli alla parola, “filologia” è sinonimo di “critica testuale” – o ecdotica che dir si voglia – solo nella sua accezione più ristretta: per filologia, si intende infatti normalmente la disciplina che studia i documenti linguistici e letterari di una determinata cultura. Quando si parla di filologia, si tende dunque ad indicare il complesso delle conoscenze necessarie per lo studio critico dei testi: testi, dei quali occorre riconoscere la ‘sacralità’, che vanno preservati dalla loro labilità e decadenza, vanno scrostati e restaurati, precisati nei loro significati esatti, definiti nelle circostanze, catalogati… E, per far questo, oltre agli strumenti specifici della “critica testuale”, occorrono necessariamente le stesse conoscenze di cui abbiamo parlato per lo studio della letteratura: conoscenze linguistiche, storico-linguistiche, letterarie, storico-letterarie.     Dunque, etimologicamente, “filologo” è l’amante del logos.  Come noto, il termine logos ha assunto, nella storia della lingua greca, molteplici significati: è calcolodiscorso, ragione, pensiero, ragionamento, ma anche raccolta, scelta. Cosa significa dunque e come muta e si evolve il significato di “filologo”?  Platone usa le due parole philologos e philologhia parlando del gusto per la comunicazione scientifico-letteraria e dell’aspirazione ad essa (per Platone il logos è manifestazione del pensiero attraverso la lingua e il suo campo filosofico è quello del discorso); nella stessa accezione le parole sono usate da Aristotele. Non c’è una connotazione tecnica ben precisa dei termini, ma di fatto Platone e Aristotele intendono ciò che gli stessi significheranno a partire da Eratostene di Alessandria (III secolo a.C.), il quale si definiva “filologo” intendendo affermare la propria varia e molteplice dottrina. “Filologo” si faceva chiamare anche il grammatico Ateio (I secolo a.C.), di cui ci parla Svetonio nel De grammaticis, affermando che egli si autodefiniva così «perché, come Eratostene, che per primo si attribuì questo nome, si riteneva di varia e molteplice dottrina». Eratostene e Ateio ci tenevano dunque a farsi passare per eruditi in senso generale: non erano semplicemente grammatici, matematici, filosofi…, ma si occupavano della conoscenza del logos, cioè di ogni tipo di conoscenza. Anche Strabone (I secolo a.C.), definendo come “filologi” i membri del Museo di Alessandria, usa il termine col valore allargato di ‘dotti’ in generale. Successivamente, assistiamo ad una differenziazione di definizioni: Seneca, nell’epistola 108, distingue “filosofo”, “filologo” e “grammatico”, dando a filologo un’accezione abbastanza negativa (si tratterebbe di una sorta di poliistore, di un collezionista di curiosità, capace di frugare in tutte le scienze alla ricerca di stranezze). Se per Seneca il “grammatico” era il dotto in fatto di lingua, a partire da Quintiliano il termine “grammatica” viene ad assumere una dimensione molto più ampia: ha il valore che il termine analogo aveva presso i greci, che sotto di esso riunivano la scienza linguistica con l’interpretazione e la critica degli scrittori: col termine si indicava di fatto l’attività letteraria del filologo.  L’origine del termine, la vastità di significati che la parola logos assume, può aiutarci a comprendere il perché delle polemiche e delle discussioni sul significato, il contenuto la natura e i compiti della filologia: discorso sicuramente troppo complesso da affrontare in questa sede.  Ma perché i filologi vengono sospinti verso il fatto letterario? Perché la filologia si restringe nel campo letterario? E quando ha inizio, e come si evolve questo processo?  Ad Alessandria, fra i filologi posti a capo del Museo e della Biblioteca, noi troviamo i più famosi letterati del tempo: fra queste persone, assume centralità, nella valutazione estetica e nella problematica grammaticale, soprattutto la figura di Omero. I poemi omerici diventano il principale obiettivo della loro ricerca, e su di essi si esercita la critica, tanto per ristabilirne il testo corretto quanto per corredarlo di note. È qui che va ricercata l’origine del cammino della filologia all’interno del campo letterario.  Questo cammino si allarga nell’età umanistica, quando peraltro il mestiere del filologo si chiarisce sempre più come specializzazione tecnica: quando prende l’avvio l’elaborazione di un metodo e nasce il proposito di costruire criteri sempre più sicuri. Il filologo diventa via via un “filologo letterato”; la filologia diventa indagine sui testi, e l’impostazione corretta di questa indagine inaugura un’era nuova nella storia della cultura e del pensiero.  Questa filologia letteraria, fin dai suoi inizi, introduce nella letteratura il concetto della sacralità del testo. Il testo va preservato dalla sua labilità e decadenza, va scrostato e restaurato, va precisato nei suoi significati esatti – gli unici possibili che esso può e deve avere secondo logica -, va definito nelle circostanze, catalogato, ecc.: tutto questo entra nel programma della filologia, per poi passare in modo determinante nell’idea stessa di letteratura come strumento di espressione soggettiva e di rapporto sociale.  Ma come avvicinarsi a un testo? Come accingersi a precisarlo nei suoi significati? Con quali strumenti? Che cosa è lo studio critico, e quanto di oggettivo o soggettivo c’è o può esserci in esso? Quale è il metodo, quali sono i limiti, i moventi e gli scopi dell’interpretazione di un testo? E quanto spazio trovano le pressioni esterne, ideologiche, etiche, sulla mente di chi si accinge all’interpretazione?  Alla luce di queste domande, è facile comprendere come, anche ridotta nel campo letterario, anche limitata all’interpretazione dei testi scritti, la filologia non possa essere esente da riflessioni e da polemiche. Le polemiche che seguirono alla pubblicazione della Nascita della tragedia di Nietzsche (nel 1872) avevano come oggetto proprio le tendenze che si dibattono all’interno della filologia letteraria: da un lato l’esigenza del rigore razionale, dall’altro l’esigenza che la filologia sia essenzialmente interpretazione e la convinzione che il filologo debba fare uso non solo di dottrina ma anche di immaginazione. Da un lato l’oggettività, dall’altro la soggettività: due concetti che investono la visione stessa del mondo.