Il Medioevo ci regala una raccolta poetica sorprendente, conosciuta col titolo di
CarminaBurana
: si tratta di circa trecento canti, per la maggior parte in latino, salvo una cinquantina in tedesco, databili per lo più fra il XII e gli inizi del XIII secolo e provenienti dall'area culturale francese e tedesca – alcuni forse dall'Inghilterra, alcuni non si sa se dall'Italia, dove peraltro l'esperienza della lirica latina non ebbe grande diffusione.
L'aggettivo
Burana
fa riferimento al manoscritto che ce li ha tramandati, conservato fino al 1803 nella biblioteca dell'abbazia di Benediktbeuren, ovvero l'antica
Bura Sancti Benedicti
(bura = aratro è termine che nel Medioevo attiene ai monasteri), monastero fondato da San Bonifacio fra il 730 e il 740 sulle Alpi Bavaresi, non lontano dai valichi che conducono al Tirolo. Da qui, nel 1803, quando l'editto napoleonico secolarizzò i beni ecclesiastici, il manoscritto fu portato nella Biblioteca Nazionale di Monaco di Baviera, insieme al ricco patrimonio librario dell'abbazia benedettina.
Nella compilazione del manoscritto originario, che comprende le prime duecentoventotto composizioni, si riconoscono la mani di tre amanuensi, che distribuirono le composizioni stesse in tre sezioni, anche se con qualche 'inserimento' estraneo al tema al loro interno:
- la prima sezione ( 1-55) comprende canti satirici e moralizzanti;
- la seconda (56-186), canti d'amore (ma sono estranei alla tematica dell'amore i cc.122-134);
- la terza (187-228) canti bacchici e conviviali (ma sono in realtà satirico-moralizzanti i cc. 187-190, e sono due drammi religiosi i cc.227-228).
Alla raccolta originaria fu poi aggiunto un ulteriore gruppo di canti in latino e in tedesco, prevalentemente di carattere sacro: quest'ultima parte è opera di una trentina di mani diverse, che hanno operato fra la seconda metà del XIII e l'inizio del XIV secolo.
I
Carmina Burana
sono dunque una raccolta di carattere composito, di cui non è facile riconoscere lo scopo, con testi desunti da varie fonti e testi inseribili e inseriti all'occasione:
- repertorio di canti per qualche chierico menestrello?
- sorta di enciclopedia poetica di carattere morale?
- silloge composta alla corte di un qualche alto prelato, amante dei libri e non insensibile al fascino della poesia profana?
L’unica cosa certa è che tutte le liriche fossero destinate al canto, anche se gli amanuensi ci hanno tramandato la notazione musicale solo per una trentina di esse (in parte riportata dallo scriba stesso, in parte aggiunta da mani diverse); il patrimonio musicale è stato poi accresciuto grazie al recupero di melodie da manoscritti coevi (oltre ai
Carmina Burana
abbiamo infatti diverse altre antologie), e oggi disponiamo di quarantasette canti accompagnati dalle musiche originarie.
Quando il
codex Buranus
fu portato a Monaco, attirò immediatamente l'attenzione di filologi e paleografi, anche se fu poi necessario attendere fino al 1847 per la prima edizione completa della raccolta. La pubblicazione dell'edizione critica iniziò invece nel 1930 (Alfons Hilka - Otto Schumann) con la pubblicazione di un primo volume; il secondo vide la luce solo nel 1941; la terza sezione, che offre anche un aggiornamento dei due volumi precedenti, è stata edita da Bernhard Bischoff nel 1970.
Generalmente ascoltati nell'orchestrazione moderna di Karl Orff (1937), e raramente letti, i
Carmina Burana
evocano l'immagine di festose compagnie di giovani, che cantano l'amore e bevono nelle osterie; rimandano al desiderio di piaceri terreni, all'amore per la vita errabonda e la libertà individuale, alla sregolatezza, alla genialità, alla ribellione agli schemi convenzionali, in un mondo come quello medievale almeno immediatamente percepito come oscuro e triste, posseduto dalla religione, imbevuto di tradizione clericale, concentrato sull'ansia dell'aldilà: ma questa è, in linea di massima, solo l'interpretazione tardo-romantica, risalente alla seconda metà dell'Ottocento, che, di fatto, ha prodotto una de-storicizzazione dei
carmina
stessi.
In realtà, il XII secolo vide un grande rinnovamento nella società medievale; e dovunque in Europa – se pure con ritmi e modalità diverse – si avvertirono i sintomi di un cambiamento storico, determinato dalla relativa pace interna di cui l'Occidente godette, dalle riforme attuate all'interno della Chiesa, dall'ampliamento dell'orizzonte economico, dall'affermazione di un'economia aperta, dal definitivo superamento del sistema economico feudale. Tutto ciò portò ovviamente anche ad una grande rinascita culturale: in particolare, le città videro il fiorire di scuole annesse alle cattedrali e alle abbazie, e a queste scuole si affiancarono nel tempo numerose scuole laiche. In connessione con un precoce sviluppo economico e urbano, assieme all'ordine che la dinastia Capetingia (regnante dal 987) garantiva sul territorio, il fenomeno fu particolarmente imponente nella Francia settentrionale: Orléans fu un centro famoso per gli studi letterari e di retorica, Chartres per la matematica e le scienze naturali, Tour e Laon e Reims furono anzitutto centri per lo studio della teologia; Parigi divenne in assoluto il centro di studi più importante. E le strade d'Europa cominciarono ad affollarsi di giovani, che si spostavano per ascoltare i maestri più famosi.
Fra la seconda metà del XII e la prima metà del XIII secolo, si svilupparono le Università, dove intellettuali professionisti, che facevano dell'insegnamento il fulcro della loro attività, coltivarono gli studi con un'ampiezza e una profondità impensabili nel secolo precedente. Si rinnovò l'interesse per i classici latini; mondo cristiano e mondo pagano, lettere e scienze si fusero, creando una cultura nuova, armonica e dinamica. Ci fu una imponente fioritura di opere in lingua latina, sia in prosa che in poesia: e soprattutto la poesia trovò in questa atmosfera un terreno ideale di coltura. Il numero degli studenti aumentò enormemente, includendo giovani sia di estrazione nobile che borghese.
Un clima, dunque, ben lontano dall’essere oscuro e triste.
Questi giovani studenti appartenevano quasi interamente all'
ordo clericalis
, dato che le istituzioni scolastiche dipendevano dall'autorità ecclesiastica, ma erano distinti dai sacerdoti e dai monaci, in quanto spesso ricevevano solo gli ordini minori, o semplicemente si limitavano all'accettazione di alcuni obblighi che la condizione clericale richiedeva (ad esempio, la lettura giornaliera del breviario, l'abito e la tonsura); non dovevano in ogni caso sottostare a rigidi precetti sulla castità e potevano anche sposarsi. Godevano insomma di una specificità sociale e culturale privilegiata.
Nel nuovo dinamismo urbano del XII secolo divennero un gruppo autonomo, per il quale lo studio era quasi la dimensione dell'esistenza: per anni questi chierici studenti non svolgevano altra attività se non lo studio e la ricerca, prima di intraprendere una qualche carriera ecclesiastica o entrare al servizio di qualche potente laico. Alcuni finivano ovviamente col trascurare gli studi e darsi ad una vita per così dire scioperata, girovagando da una città all'altra, riducendosi a volte ad elemosinare vitto e alloggio presso i conventi, o svolgendo incarichi occasionali presso le corti, oppure cantando durante i banchetti e le feste e finendo per confondersi con i giullari.
Questa schiera composita, formata anche da ecclesiastici che rifiutavano le strutture della chiesa e da monaci fuggiti dai conventi, divenne sempre più numerosa a partire dalla seconda metà del XII secolo: e, quando il numero dei diplomati risultò nettamente superiore rispetto alla richiesta di personale istruito, per molti non restò che abbandonarsi ad una nuova forma di vagabondaggio.
«O arte della Dialettica – esclama ironicamente un chierico nel
carmen Buranus
127 -, non fossi mai stata inventata! Tu che crei tanti chierici raminghi e miserabili!».
Contro questi giovani, definiti con disprezzo
clerici vagantes
, o goliardi, tuonarono sinodi, vescovi e papi: incapace di riassorbirli, la Chiesa li condannava inesorabilmente, vietando loro l'abito e la tonsura, e privandoli dei benefici ecclesiastici.
Quella che può essere definita la cultura goliardica fu dunque il prodotto composito di un gruppo molto ampio, che andava dai più famosi maestri delle nuove università fino all'ultimo studente, tutti uniti da una visione comune della realtà, ma dotati ciascuno di voce e mezzi espressivi diversi: e le diversità di questo gruppo bene emergono dalla lettura dei
Carmina
1-228, dove alcune composizioni rivelano carattere colto e grande ricchezza formale e concettuale, mentre altre attestano una semplicità schietta e popolaresca, probabilmente prodotto di studenti di livello culturale inferiore o di sensibilità totalmente diversa.
I maestri di vita goliardica furono personalità fra le più colte e illuminate: primo fra tutti Abelardo, nel quale si è spesso ravvisato il capostipite e il modello dei nuovi ideali.
È lui il nuovo Golia, secondo le parole con cui San Bernardo lo accusò nel concilio di Sens del 1140: «Ecco, viene avanti Golia col suo corpo immenso, forte delle sue formidabili armi e preceduto dal suo scudiero Arnaldo da Brescia». Abelardo venne allora sconfitto e tacciato di eresia, ma, nelle dispute che accompagnarono e seguirono la vicenda, l'appellativo di Golia si estese, o per imposizione o per assunzione volontaria, a quanti avevano difeso il suo operato.
Nel corso del XII secolo, Abelardo divenne l'esempio per quei chierici che si opponevano all'integralismo monastico e alla sua concezione della realtà, e con lui altri maestri di fama assursero a simboli di vita goliardica. Quando il termine 'goliardo' apparirà per la prima volta in documenti della fine del XII secolo, porterà con sé le connotazioni di sfida alla condizione della Chiesa e di ricerca di una nuova dimensione dell'esistenza in rapporto alle mutate condizioni sociali e culturali del tempo.
Sfida alla Chiesa, sfida all’integralismo monastico, nuova dimensione dell’esistenza: e però i goliardi non furono dei rivoluzionari, come peraltro alcuni interpreti hanno sostenuto.
Sicuramente formarono la parte della società più sensibile alle mutate condizioni sociali e culturali e più pronta ad accettare le innovazioni, ma – come credo ben emerga dalla lettura dei
Carmina
– non si posero il problema, e soprattutto l’obbiettivo, di ‘rivoluzionare’ le istituzioni, le logiche e le dinamiche sociali: di fatto, rimasero dentro le istituzioni, accettarono le logiche della loro società, ne mantennero le dinamiche.