La tragedia di Fedra da Euripide a Seneca. Capitolo settimo: Differenze significative fra la tragedia "Ippolito coronato" di Euripide e la "Fedra" di Seneca
Come si è già sottolineato, la vera e più profonda lontananza fra le due tragedie consiste nel rapporto fra l’umano e il divino: perché in Seneca la provvidenza divina non agisce, e gli dei si disinteressano degli uomini, lasciandoli in balìa della Fortuna
Sennonché, anche lo svolgimento dell’azione è caratterizzato da differenze significative: non solo la struggente confessione di Fedra ad Ippolito, assente in Euripide; non solo il finale consolatorio dell’Ippolito coronato con la riconciliazione fra Teseo e Ippolito, contro l’epilogo desolante della Fedra, ma diverse altre.
In Euripide, la nutrice svela ad Ippolito l’amore della matrigna, e Fedra, temendo di vedere macchiata la propria onorabilità, si impicca, senza mai parlare direttamente con Ippolito; in Seneca, è Fedra stessa a confessare al figliastro la propria passione, e il suo suicidio – messo in atto con la spada di Ippolito – avviene sulla scena, dopo che l’intera tragedia si è consumata, davanti al cadavere straziato del giovane.
In Euripide, il dramma di Fedra appare piuttosto chiaro nella sua linearità: se, prima della rivelazione ad Ippolito da parte della nutrice, la donna poteva pensare di morire onorata nonostante la sua passione incestuosa, una volta svelata la sua colpa, il suicidio e la lettera menzognera sono l’unico mezzo per salvare l’onore macchiato, lavando il proprio nome da ogni possibile infamia e salvaguardando così anche l’onore dei figli; per la Fedra di Seneca, in assenza di legami che la avvincano alle regole del sistema politico-familiare, i figli non contano, e il suo suicidio è un gesto di autocolpevolizzazione, tanto più forte in quanto accompagnato dall’affermazione del proprio irriducibile amore.
Quanto alle motivazioni della sua calunnia – quelle che Ovidio fa seccamente risalire al timore di un’accusa o all’offesa del rifiuto –, né Euripide né Seneca le esplicitano: ma, se per la Fedra di Euripide esse possono ritrovarsi nel desiderio di togliere ogni macchia dal proprio nome e soprattutto da quello dei figli, la Fedra di Seneca, in uno stato di alterazione mentale, sembra lasciarsi trasportare passivamente dagli eventi che la nutrice ha messo in moto per lei; preda degli effetti devastanti della sua passione, se anche può essere mossa dal desiderio di distruggere Ippolito dopo l’amore che gli ha invano offerto, si tratta di un desiderio che agisce a livello inconscio, e che solo al momento di uccidersi darà luogo ad una tragica consapevolezza di colpa.
Se, in Euripide, Fedra si toglie la vita impiccandosi nel silenzio della stanza nuziale, la Fedra di Seneca si suicida davanti a tutti con parole proclamate a gran voce usando la spada dell’amato.
Vittima del contrasto fra due divinità, la Fedra di Euripide risulta in qualche modo incolpevole; in Seneca, la donna concepisce nella propria interiorità – nella parte più irrazionale di essa – la sua funesta passione, trovandosi così a vivere una profonda lacerazione fra volontà razionale e irrazionale furore.
In Euripide, la nutrice non ha alcun ruolo nella creazione della menzogna, ma la menzogna è direttamente affidata da Fedra alla lettera che Teseo leggerà dopo la sua morte; in Seneca, il ruolo della nutrice è ben più attivo.
In Euripide, Teseo e Ippolito si parlano per ben due volte, dopo la lettura della lettera da parte di Teseo, e nella scena finale con Ippolito morente: in Seneca non si assiste ad alcun incontro fra padre e figlio.
Inoltre, particolare apparentemente poco significativo, ma in realtà importante, nell’Ippolito di Euripide, la lontananza di Teseo è dovuta ad una non meglio definita ambasceria sacra, mentre Seneca lo colloca con l’amico Piritoo nel profondo Acheronte, intento a compiere l’impresa audacemente immorale di strappare Persefone al suo legittimo sposo Ade.
Va infine ribadito come, in Seneca risulti più centrale, rispetto ad Euripide, la tematica dell’incesto: una centralità sottolineata non solo dalle numerosissime ricorrenze dei termini nefas e nefandus, ma anche dall’uso sapiente della terminologia di parentela e dall’insistenza sul fattore della somiglianza fra Ippolito e Teseo.