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Il mito di Medea. Capitolo terzo: Medea in Ovidio

2022-01-17 10:55

Claudia Pandolfi

Il mito classico, Medea in Ovidio,

Il mito di Medea. Capitolo terzo: Medea in Ovidio

Il mito di Medea. Capitolo terzo: Medea in Ovidio

Oltre che da  Euripide, il mito di Medea fu messo in scena da diversi tragediografi greci, ed  è noto come esso fosse anche presente, in forma parodica, nella produzione di alcuni commediografi; nel mondo latino, tragedie su Medea scrissero Ennio, Pacuvio, Accio, Ovidio, Lucano, Curiazio Materno, fino ad arrivare a Seneca. Purtroppo, però, salvo qualche frammento,   dal mondo antico ci sono giunte soltanto le tragedie di Euripide e Seneca, ed  essendo esse collegate fra loro  la seconda in ordine di tempo – quella di Seneca – non ha potuto nel tempo sottrarsi ad un confronto con l’originale euripideo: confronto che è stato fatto innumerevoli volte, che in numerosissimi studi ha visto evidenziare di volta in volta somiglianze e differenze, che ha fatto emergere le più svariate interpretazioni, spesso anche in contrasto fra loro. Va da sé che, in realtà, la conoscenza del mito greco passò anche attraverso versioni antecedenti ad Euripide, attraverso tutte le altre opere teatrali perdute, attraverso opere poetiche, attraverso l'arte iconografica e probabilmente anche attraverso la tradizione popolare; così come, nel mondo latino, Seneca, raccontando Medea, non poté prescindere da ciò che, prima di lui, aveva scritto il poeta Ovidio.   Alla storia di Medea e Giasone, oltre che la sua unica tragedia purtroppo per noi perduta,  Ovidio dedica anche i primi quattrocentoventiquattro versi del VII libro dellaMetamorfosie la lettera XII delleEroidi(oLettere di eroine), indirizzata da Medea a Giasone.  La lunga sezione delleMetamorfosiè forse quella che interessa meno il nostro discorso: Ovidio, che di fatto vi racconta tutte le vicende di Medea, tratta infatti abbastanza estesamente dell’innamoramento, dei conflitti interiori ad esso legati, della decisione di aiutare Giasone, delle promesse di quest’ultimo e delle imprese legate alla conquista del vello d’oro (vv. 1-158); l’epilogo di Corinto è invece brevemente accennato in soli quattro versi (vv. 394-397), come pure pochi sono i versi dedicati alla fuga ad Atene e al matrimonio con Egeo (vv. 398-424); larghissimo spazio è peraltro riservato agli eventi in Tessaglia, con tutti gli incantesimi e i riti compiuti dalla Medea maga con i suoi enormi poteri, con le sue simulazioni e le sue astuzie. Più interessante è invece la lettera delleEroidi, che si immagina scritta dopo che Medea è stata abbandonata da Giasone per Creusa, mentre il matrimonio sta per avere luogo, e prima dunque che la sua terribile vendetta si realizzi con la tragica catena di uccisioni. Medea vi appare come un’eroina ancora innocente, ancora innamorata dell’uomo che l’ha tradita, che rievoca il suo incontro fatale con lui («ti vidi e fui perduta; e arsi di un fuoco sconosciuto» recita il v. 33); Medea ricorda tutte le azioni colpevoli da lei stessa compiute, accusa Giasone di averla irretita sfruttando l’ingenuità di una giovane innamorata («la mia verginità è diventata preda di un ladro straniero» si legge al v. 111), gli rinfaccia la sua ingratitudine, lo immagina ridere di lei e dei suoi costumi barbari assieme alla nuova compagna – ed è questa una annotazione psicologica molto interessante –, lo supplica di tornare da lei per se stessa e per i figli. Solo pochi cenni, all’interno dei duecentododici versi che compongono la lettera – in particolare in quelli finali – , sembrano alludere al tragico epilogo della storia: all’uccisione dei figli non c’è alcun riferimento esplicito, anche se, alla luce delle successive vicende, appare psicologicamente significativa l’affermazione dei vv. 188-189, laddove Medea, parlando dei figli – di quelli che da lei sono stati partoriti, dei “frutti del suo ventre” (partus meos) – costretti in futuro a sopportare una crudele matrigna, aggiunge: «E loro sono troppo simili a te, e io sono turbata dalla somiglianza» (v. 189). Perché, con questa affermazione, è come se Ovidio volesse fornire una spiegazione della motivazione inconscia che indurrà Medea al più terribile dei delitti. La lettera rivela numerosi punti di contatto con la tragedia di Euripide, ma anche con il poema grecoLe Argonautichedi Apollonio Rodio del III secolo a. C., che rappresentano Medea come una giovane donna, spinta ad aiutare Giasone dalla passione amorosa che Eros le ha istillato nel cuore, combattuta fra questa passione, l’onestà, il pudore e i legami familiari che saranno poi totalmente recisi, assieme all’innocenza, con l’uccisione del fratello. Quella delleEroidiè dunque una Medea che si colloca al bivio fra il periodo della sua vita narrato da Apollonio e quello messo in scena da Euripide: periodo che, presumibilmente, doveva essere invece oggetto della tragedia ovidianaMedea, la cui stesura sembra essere coeva o di poco successiva alla lettera. Dalla lettera, ma anche dal lungo passo delleMetamorfosi, appare chiaro l’interesse di Ovidio per la psicologia femminile e la patologia erotica, e, nei versi delleMetamorfosiriservati alla vita di Medea in Tessaglia, egli concede molto ai tratti barbarici e magici di Medea; per quanto concerne poi il suo rapporto amoroso con Giasone, e l’immagine che di Giasone offre lo stesso Ovidio, possiamo contare non solo sulla lettera di Medea a lui indirizzata, ma anche su quella scritta da Ipsipile, prima moglie di Giasone, al momento in cui questi sta tornando a casa con Medea (Eroidi, VI): ed è Giasone l’unico uomo a meritare posto in ben due lettere di donne abbandonate. Giasone – lamenta Ipsipile – non solo non si è fermato da lei, ma, quel che è peggio, non le ha neppure scritto per raccontarle cosa gli era accaduto, e lei ha dovuto conoscere la verità da un ospite tessalo; è un marito indolente, che ha trascurato ogni suo dovere, che ora divide il suo letto con una maga barbara, che ha tradito i suoi diritti coniugali e le promesse di fedeltà, che ha abbandonato lei e i due gemelli che alla partenza non erano ancora nati; è un debole, «più incerto della brezza primaverile», le cui parole non possono avere il peso di una promessa. Non è certo improprio supporre che tutti questi elementi, queste caratterizzazioni di Medea e Giasone, contraddistinguessero, in Ovidio, anche la tragedia perduta, che alcune fonti indicano peraltro come il modello utilizzato poi da Seneca. Ovviamente, non ci è dato sapere quanto ciò corrisponda al vero, ma, esaminando laMedeadi Seneca, appare evidente, quanto meno, una somiglianza fra quest’ultima e l’epistola ovidiana: confronti puntuali fra le due rendono anzi quantificabile e abbastanza consistente il debito del Seneca tragico nei confronti del poeta elegiaco.Basti pensare, ad esempio, alle parole che Seneca fa pronunciare a Medea dopo l'uccisione del primo figlio: «Mi sono già riappropriata dello scettro, del fratello, del padre; gli abitanti della Colchide possiedono nuovamente il vello d’oro; è tornato il regno, è tornata la mia verginità rapita» (vv. 982-984), dove è presente un chiaro richiamo alla ‘verginità’ preda del ladro straniero, di cui parla la Medea ovidiana. Allo stesso tempo, è stato ampiamente dimostrato come Ovidio, nella sua lettera, abbia tenuto presente laMedeadi Euripide, sicché, a fronte di elementi che, in Seneca, ci fanno pensare ad Euripide, non è facile capire se egli li derivi direttamente da lui, oppure attraverso la mediazione ovidiana: sicuramente, è però lecito affermare che, nella sua tragedia, Seneca attinga sia ad Euripide che a Ovidio, compiendo comunque un’opera di reinterpretazione e riscrittura, e consegnandoci un testo del tutto nuovo nella sua originalità.