La tragedia senecana Fedra si apre con una monodia di Ippolito (vv. 1-84), che svela senza ombre il suo carattere di signore della caccia. Fedra entra in scena immediatamente dopo, denunciando a gran voce la propria condizione esistenziale, dolorosamente sofferta. Il suo lungo monologo (vv. 85-128) inizia con una apostrofe all’amata patria lontana, le cui innumerevoli navi solcano tutti i mari fino alla terra assira: e ad una tale vastità si contrappone, immediatamente dopo, il senso di una forte costrizione che riguarda lei, donna data in sposa ad una casa odiata, ad un nemico, ad un uomo che nemmeno la rispetta, che si trova nel profondo Acheronte con l’amico Piritoo – lui, padre del casto Ippolito – con l’intento immorale di strappare Persefone al suo legittimo sposo Ade. È solo a questo punto, subito dopo aver nominato Ippolito, che Fedra parla del proprio dolore, un dolore da lei stessa immediatamente connotato come malum: un male di crescente intensità, che si alimenta e cresce e la brucia dentro, e che trabocca come il vapore che fuoriesce dal cratere dell’Etna. La parte successiva del discorso è fondamentale per comprendere le devastanti conseguenze che il malum di cui è vittima provoca sul suo animo. Questo male le fa trascurare i doveri domestici e non le fa più provare piacere nel compimento dei doveri religiosi, mentre è ben altro ciò che le darebbe gioia, ovvero correre dietro ad animali selvatici dopo averli stanati, scagliare giavellotti… in una parola cacciare: una vera e propria follia, di cui Fedra chiede le ragioni al proprio animo. E, la risposta, Fedra non può trovarla che in se stessa, o meglio nella fatale eredità lasciatale dalla madre Pasifae col suo innaturale amore per il toro: una sorta di maledizione ereditata, perché Venere ha fatto sì che nessuna donna della casata di Minosse potesse vivere un amore non macchiato da qualche nefandezza. La qualità del dolore provato da Fedra e riconosciuto come male viene dunque resa esplicita soltanto verso il termine del monologo, quando si capisce che si tratta di amore, un amore evidentemente maligno, peccaminoso e che provoca sofferenza: e l’esplicito riferimento all’amore, mediante l’accostamento al precedente tema della caccia, rende evidente che la passione di Fedra è rivolta verso il figliastro, Ippolito, del quale è bastata peraltro la menzione del nome a far scattare l’appassionato lamento concluso con la parola nefas (ovvero qualcosa che va contro la natura e contro la religione). Ed è qui, con la parola nefas, che si introduce una tematica fondamentale della tragedia, ovvero l’incesto: una tematica che rimane soltanto implicita nelle parole di Fedra, ma che si farà sentire con particolare forza e crudezza nel successivo discorso della nutrice; una tematica che assume centralità in Seneca, perché l’incesto è di fatto il modello di vita offerto dal Potere (Claudio e Agrippina, Nerone e Ottavia, Nerone e la madre), e il Potere corrotto, unitamente alla degenerazione della società, è il centro focale del teatro tragico senecano. Il dialogo di Fedra con la nutrice copre quasi centocinquanta versi (129-273), snodandosi attraverso dinamiche comunicative distorte, che hanno al loro centro lo scontro fra modelli di riferimento e universi morali contrapposti: in realtà, un non-dialogo, destinato necessariamente a concludersi o con un irrigidimento di entrambe le interlocutrici sulle proprie posizioni di partenza, o, come di fatto avviene, con la capitolazione di una delle due. Il nome di Ippolito non viene mai pronunciato, ma, fin dall’inizio, è chiaro che la nutrice sa: esordisce infatti chiamando Fedra «sposa di Teseo», e il nome di Teseo ritorna spesso, come una sorta di muto richiamo al dovere; parla di nefandezze e di speranza maledetta; invita quindi Fedra a voler avere comportamenti rispettabili, a non accingersi a superare addirittura la propria madre, ché il suo nefas supera la mostruosità della passione di Pasifae per un toro; e poi, ancora, parla di rapporti sessuali nefandi, fiamme di un amore empio, accoppiamenti inauditi; nefas è più volte ripetuto, e infine chiede: «Ti disponi a mescolare il letto del padre e del figlio, e a contenere nel tuo utero empio prolem confusam? » (vv. 171-172). Ancor più che da Fedra, la passione incestuosa è connotata dalla nutrice come nefas, un’empietà ben più grave della mostruosità compiuta da Pasifae, in quanto comporta la responsabilità individuale a fronte della fatalità di quell’amore mostruoso: una empietà orribile, mai compiuta, neppure dalle più barbariche popolazioni. D’altro canto, è chiara la consapevolezza che accompagna Fedra nel peccato: non a caso, infatti, essa, rispondendo, definisce sciens (consapevole) il suo animo; ma tale consapevolezza non può aiutarla a seguire la strada della virtù, perché a vincere e regnare è il furor, mentre la ragione è destinata a soccombere; perché Cupido – afferma – è un dio alla potenza del quale neppure le più importanti divinità si sono sapute opporre: affermazione, questa, che la nutrice contesta radicalmente, considerando la forza di Cupido come una pretestuosa invenzione: la passione morbosa – dice – va ricondotta alla libido e al furor, alla sfera, tutta interiore, della coscienza individuale e degli atteggiamenti e comportamenti umani; e del resto non è un caso che la ricerca di esperienze sempre nuove sia propria di chi gode di una eccessiva buona sorte e di un lusso sfrenato: è questa condizione che fa desiderare di ottenere sempre più di quanto già si possiede, e che permette l’ingresso nell’animo umano della libido, «tremenda compagna di ogni grande fortuna». Dopo un breve scambio di battute, a fronte dell’assoluta noncuranza dei suoi doveri di regina e di moglie da parte di Fedra, la nutrice cambia strategia, insinuando che l’ostacolo principale al soddisfacimento del desiderio non sia Teseo, bensì l’oggetto stesso di quel desiderio, Ippolito, col suo animo inflessibile e irreversibilmente ostile al genere femminile: ma anche questo è un tentativo vano; come vano è il tentativo di menzionare le possibili reazioni di Teseo. Ogni volta, Fedra si arrocca ancora di più sulle proprie posizioni, finché alla nutrice non resta che far leva sugli affetti, abbandonando il suo ruolo di guida morale. Ed è solo a questo punto che Fedra si apre alla rivelazione del proprio conflitto interiore, combattuta com’è tra il desiderio di assecondare la sua passione e la razionale volontà di estirparla: il senso del pudore – dice – non si è del tutto allontanato dal suo animo che, nonostante tutto, rimane puro; e, a fronte della consapevolezza di non poter domare la propria passione, non le resta che proclamare la volontà di morire prima di commettere atti infamanti e vergognosi. La morte è l’unica via di fuga dal misfatto, l’unico mezzo a sua disposizione per mantenere intatto il pudor, e la sua decisione appare irrevocabile. E allora, in ragione del profondo affetto che la lega alla regina, la nutrice non può fare altro che arrendersi ed assecondarla, passando dal ruolo di guida a quello di complice e artefice principale del misfatto. Sarà lei –promette – a sondare l’animo del giovane e a tentare di piegarlo al sentimento e alla passione amorosa. Dopo il coro degli Ateniesi (vv. 274-357), che celebra per Fedra la potenza del dio Amore, rientra in scena la nutrice, e si assiste ad un nuovo dialogo – questa volta a distanza – fra lei e la regina. Fin dalle prime parole del monologo della nutrice, risulta chiaro che, per Fedra, non c’è più alcuna speranza di lenire il furore, ormai arrivato al parossismo: il furor, già risultato vincente sulla ragione, si è impossessato completamente di lei, agendo ora anche a livello fisico. Come un fuoco che brucia silenziosamente, il furore sta racchiuso, nascosto, ma si manifesta chiaramente prima di tutto sul volto, poi sugli arti, scossi in diverse direzioni in movimenti esagitati; modifica l’incedere così che Fedra cammina con passo vacillante, riuscendo a stento a sostenere la testa sul collo; la stessa Fedra, quando desidera riposare, dimentica il sonno e passa la notte tra i lamenti; non si cura più del cibo né della salute e, altra fondamentale conseguenza della follia, sembra aver perso tutta la splendente bellezza di prima. Dopo aver descritto gli effetti devastanti del furor, la nutrice annuncia l’aprirsi delle porte del palazzo, che permette allo spettatore di vedere direttamente Fedra, ed assistere al dispiegarsi della scena della follia. Dall’interno della reggia, Fedra esprime l’intensità del furor che l’ha invasa: manifesta la volontà di smettere le vesti tradizionali per adottare abiti semplici, leggeri, inconsueti; vuole che le sue chiome siano sparse libere sul collo e le spalle; si ripromette di prendere tra le sue mani faretra e lancia, e diventare tale e quale all’amazzone madre di Ippolito. Al coro, che chiude la scena, non resta che invitare Fedra a smettere di lamentarsi e consigliare alla nutrice di placare Artemide. Ed ecco che vediamo la nutrice la quale, vicino ad un altare di Artemide, prega la dea di farsi sua alleata nell’addolcire il carattere di Ippolito, pur rimarcando che si sta accingendo ad una scelleratezza (vv. 406-430). Sopraggiunge Ippolito, che la interroga sulla sua presenza in quel luogo e sul perché della sua mestizia. Nel suo lungo discorso (vv. 435-483), la nutrice nasconde l’intenzione di piegare il giovane alla passione di Fedra, fingendo semplicemente preoccupazione per le conseguenze della sua eccessiva austerità; amplia quindi i confini del discorso, collocando l’amore all’interno di una struttura cosmica, e facendone il principio generatore dell’universo. Sennonché, non solo il giovane difende accoratamente le proprie scelte di vita, non solo esalta la vita e l’innocenza priva di passioni tipica dei boschi contrapponendola alle ansie e agli affanni e alla corruzione delle città, ma si rivela anche portatore di una serie di pesanti luoghi comuni e stereotipi sulla donna, e in particolare sulle matrigne. La donna è definita «guida alle azioni malvagie, artefice di scelleratezze, manipolatrice di animi»: è a causa dei suoi adulteri che «vanno in fumo tante città, tante genti conducono guerre, e regni sconvolti dalle fondamenta opprimono tanti popoli». Al tentativo di obiezione della nutrice, Ippolito oppone una misoginia ancora più violenta, ché lui detesta tutte le donne, ne ha orrore, le sfugge, e non avrà mai l’animo ben disposto verso nessuna di loro; e nemmeno il tentativo della nutrice di far leva sulla figura delle Amazzoni, e sulla sua regina che Amore riuscì a piegare, sortisce alcun risultato. Non c’è modello di femminilità che possa trovare l’approvazione di Ippolito: egli odia tutte le donne in quanto genere. Il colloquio si conclude con l’entrata in scena di Fedra (v. 589), che, all’improvviso, cade a terra esanime fra le braccia del figliastro. Ha così inizio il dialogo tormentato fra i due, che si snoda per ben centotrenta versi (fino al v. 718): un dialogo che, ancora una volta, rappresenta lo scontro fra due mondi contrapposti, senza che mai possa esserci una reale comunicazione; uno scontro drammatico, segnato tragicamente dai sentimenti e dai conflitti di cui Fedra è vittima, e che la condurranno alla morte. Ripresi i sensi, Fedra si autoesorta ad avere coraggio e a svelare il suo amore nefando, vagheggiando la possibilità che Ippolito lo accetti, e addirittura con la speranza illusoria di una unione legittima con lui (possibile nel caso della morte di Teseo, o in caso di consenso alle nozze da parte di Teseo stesso). I due sono soli, Ippolito è pronto ad ascoltarla: «Ma la bocca – esordisce Fedra – nega il passaggio alle parole che si apprestano ad uscire: ché, se grande è la forza che fa sentire la sua voce, più grande è la forza che la trattiene. Vi chiamo tutti a testimoni, o dei: ciò che voglio io non lo voglio (hoc quod volo me nolle)». Ippolito, chiamandola “madre”, la esorta a confidargli le sue angosce. «Il nome di madre – ribatte Fedra – è superbo e troppo potente: ai nostri affetti si addice un appellativo più umile. Chiamami piuttosto sorella o serva: e meglio serva, perché io sopporterò ogni tipo di servitù. Se tu mi ordinassi di attraversare distese coperte di alte nevi, io camminerei volentieri sui monti ghiacciati del Pindo; se mi ordinassi di gettarmi fra le fiamme e in mezzo a schiere nemiche, io non esiterei ad offrire il mio petto alle spade. Ricevi lo scettro affidato a me e accogli me come serva: a te si addice reggere il potere, a me eseguire ordini. Non è un compito da donne mantenere il regno delle città: tu, che sei nel pieno vigore della giovinezza, guida con forza i cittadini col potere che ti viene dal padre; proteggi me accogliendomi come supplice e come serva, e abbi misericordia di una vedova». L’appellativo di madre con cui Ippolito le si rivolge, e che, nella sua drammatica semplicità, rappresenta l’ostacolo primo alla realizzazione del rapporto amoroso, fa scattare dunque in Fedra l’urgenza del parlare: essa infatti, nel tentativo di contestare e annullare il rapporto da esso rappresentato, suggerisce immediatamente al giovane, attraverso termini diversi, un diverso rapporto. Col termine soror gli propone un rapporto paritario, quale appunto quello tra fratello e sorella; attraverso il termine famula (serva), suggerisce poi, subito dopo, un rapporto significativamente esterno alla famiglia, non paritario ma di subordinazione. Ed è una subordinazione che rimanda ad una relazione di carattere amoroso, perché famula ha una connotazione erotica, e perché tale connotazione è ripresa e sottolineata con evidenza dall’espressione omne servitium feram (sopporterò ogni genere di servitù, qualunque servizio tu mi chieda), che introduce il concetto elegiaco del servitium amoris, con tutte le immagini ad esso correlate. “Guardami, non sono tua madre – sembra voler dire Fedra –, sono una donna, e sono disposta a tutto per te; tu sei un uomo, e in quanto tale io ti riconosco potere su di me e sul regno di tuo padre. Tuo padre non tornerà, davanti a te hai quella che ormai è una vedova – dunque una donna libera di amarti e di essere amata da te – e tu devi avere misericordia di lei e dei suoi sentimenti”. Ippolito naturalmente non capisce, e risponde appigliandosi solo alle parole finali della matrigna, ovvero alla preghiera di accoglierla come supplice e serva e all’implorazione di avere misericordia di lei vedova: parole che, per lui, possono essere soltanto ricondotte ad un triste presagio. Rassicura quindi ripetutamente Fedra sul ritorno di Teseo dagli Inferi, e conclude le sue rassicurazioni con una frase che accresce ulteriormente l’ambiguità della comunicazione, nonché i tormenti e, al tempo stesso, le speranze della donna: egli si impegna infatti, in assenza del padre, ad occuparsi dei figli di Teseo e Fedra e a prendere per lei il posto del marito lontano. A un certo punto, Ippolito, pur continuando a non comprendere, inizia a cogliere l’ambiguità della situazione comunicativa, e, non potendo spiegarsela, sembra agitarsi ed ordina a Fedra di parlare apertamente: cosa che Fedra proprio non può fare, e che tenterà di non fare fino alla fine. «Il mio cuore malato – esordisce – sono il fuoco e l’amore a bruciarlo. Come fiamma che agile e veloce si insinua fra le alte travi, così è il fuoco crudele, immerso nelle mie viscere e nascosto nelle mie vene». E Ippolito, come sempre, non può che fraintendere. «Ti fa impazzire il tuo legittimo amore per Teseo, vero?» «È così! Io amo il volto di Teseo, quello di una volta, quello che un tempo ebbe lui giovanetto, quando la prima barba segnava le sue guance ancora pure…. Quale fulgida bellezza era allora la sua! Le bende sacrificali sui capelli, il primo biondeggiare della barba sul giovane viso, muscoli forti celati in tenere braccia; il suo volto era quello della tua Artemide o del mio dio Sole – anzi no, era il tuo volto. …In te brilla ancora di più una bellezza priva di ornamenti; in te c’è tutto tuo padre, ma con un che di cupo e virile che ti viene da tua madre e unisce in pari proporzione due generi di bellezza: una faccia greca da cui traspare la rudezza degli Sciti. Se tu fossi arrivato a Creta con tuo padre, mia sorella avrebbe tessuto per te il suo filo. E te, sorella mia, in qualunque parte del cielo tu splenda, io chiamo in aiuto per la mia causa che è simile alla tua: una sola casa ha portato entrambe alla rovina, te il padre, io il figlio. Ecco, prostrata alle tue ginocchia giace supplice la figlia di una casata reale, non macchiata da colpa alcuna, pura, innocente, per te solo sono cambiata, e, risoluta, mi sono abbassata fino a pregarti: questo giorno segnerà la fine della mia sofferenza o porrà fine alla mia vita. Abbi pietà di una donna che ti ama». Come si può vedere, anche in questa dichiarazione d’amore, è soltanto nella supplica finale che Fedra di definisce «donna innamorata»: al termine, cioè, di un lungo percorso fatto di affermazioni ambigue, di impliciti e di non detti. «Io amo il volto di Teseo, quello di una volta» – dice Fedra – ; e ancora «il suo volto… era il tuo volto»; «se tu fossi arrivato a Creta con tuo padre, mia sorella avrebbe tessuto per te il suo filo»: quasi a suggerire una interscambiabilità fra padre e figlio che possa giustificare il proprio amore, lasciando ad Ippolito l’onere di capire. Non c’è dichiarazione diretta prima della supplica conclusiva; Fedra non si scopre mai interamente, e la confessione si snoda attraverso percorsi tortuosi, fra dubbi e lacerazioni interiori: nel tentativo di svelare ad Ippolito un amore macchiato dal tabù dell’incesto, si serve necessariamente di una modalità di espressione obliqua, indiretta; e però, anche nei momenti in cui il suo linguaggio si fa dolcemente seduttivo, non si avverte mai alcuna volontà di inganno. Ippolito, dal canto suo, appare totalmente incapace di interagire a livello profondo, cogliendo solo i contenuti superficiali delle parole; e, quando alla fine Fedra si definisce amans (donna innamorata), chiedendo pietà in nome del proprio amore (v. 671), reagisce con rabbia e sensi di colpa, allontana con furia Fedra dalle sue ginocchia rifiutando con sdegno anche l’eventualità di un pur minimo contatto; la minaccia di morte e, quando lei si dichiara felice di morire per mano sua, rinuncia all’assassinio per non consentirle di aver nulla da lui – nemmeno la morte – e fugge abbandonando la spada. I vv. 719-735, con le parole della nutrice, segnano l’inizio della tragica fine. Decisa a rigettare la colpa su Ippolito, la nutrice chiama gente in aiuto, gridando che Ippolito ha cercato di fare violenza a Fedra, l’ha minacciata di morte ed è fuggito, abbandonando però la spada come prova della propria scelleratezza. Fedra piange, si strappa i capelli… tace. Segue un ulteriore intermezzo corale (vv. 736-834), da cui si apprende che Fedra si sta mascherando da donna violentata, e che Teseo sta arrivando. Alla sua entrata in scena, Teseo, reduce dagli Inferi, sente i lamenti che provengono dalla sua casa; la nutrice gli svela solo la decisione di Fedra di suicidarsi, ma risponde tortuosamente – senza di fatto rispondere – alla domanda sulle cause di quel desiderio di morte (vv. 835-863). Nel colloquio che segue con Teseo, Fedra si mostra molto reticente, nonostante i ripetuti appelli del marito alla confidenza e alla reciproca fiducia; continua a stringere la spada, minacciando il suicidio, e, solo di fronte alla possibilità che Teseo costringa con la forza la nutrice a parlare, in una grande scena di menzogna, ‘confessa’ di aver subìto violenza da Ippolito. In un lungo monologo, il re maledice il figlio e chiede al padre Poseidone di dargli la morte (vv.864-958). Il coro (vv. 959-990), cupamente centrato sulla negazione della provvidenza divina, che lascia l’umanità in balìa della Fortuna, rendendola preda dei piaceri, dell’inganno, e di una generalizzata immoralità, si conclude con l’arrivo del nunzio. Quest’ultimo comunica a Teseo la morte di Ippolito. Il lungo e tragico racconto della morte, desunto da Euripide, occupa centoquattordici versi, e, in esso, una forte marcatura orrorifica e fantastica si mescola a tratti brutalmente realistici. A Teseo non resta che piangere il figlio, di cui pure ha voluto la morte, e che continua ad odiare: come egli stesso afferma, piange perché è stato lui a farlo uccidere, e non perché lo ha perduto. Durante il coro seguente (vv. 1123-1155), portatore di una ulteriore riflessione filosofica rivolta a Teseo sulla Fortuna, mentre avviene il trasporto in scena dei pezzi del cadavere di Ippolito, si sentono le grida di Fedra, e la si vede poi precipitarsi in scena con la spada in pugno. In un grande quadro di teatro, che vede protagonisti assoluti Fedra e Teseo con un unico breve intervento del coro, la tragedia si conclude: Fedra confessa la propria colpa e quindi si uccide con la spada di Ippolito, in uno scenario di macabra e cupa desolazione. «Sono io, io, che tu devi assalire, signore delle profondità marine… E tu, Teseo, tu che, insensibile a tutto, non sei mai tornato dai tuoi senza metterli in pericolo – tuo figlio e tuo padre hanno pagato con la morte i tuoi ritorni –; tu sconvolgi la tua casa, pericoloso sempre, sia che ad accendersi sia l’amore muliebre, sia che si tratti di odio. Ippolito! Sei tu quello che vedo? E sono proprio io ad averti ridotto così? Quale crudele Sini, quale Procuste ha sparpagliato così le tue membra? Quale mostro cretese…ti ha così dilaniato? … Misera me! Dove è finita la tua bellezza? E i tuoi occhi, che erano le mie stelle? Giaci morto? No! Resta ancora con me almeno un poco, e ascoltami: non dico niente di turpe. Con questa mano pagherò le mie colpe verso di te, spingerò a fondo la spada nel mio petto macchiato di colpe spregevoli; libererò Fedra dalla vita e dalla colpa, e ti seguirò, folle d’amore, attraverso le acque e le paludi del Tartaro, attraverso lo Stige e i fiumi di fuoco. Che io possa dar pace alla tua ombra! Prendi le spoglie della mia testa, prendi questa mia chioma tagliata dalla fronte lacerata. Non fu lecito congiungere le nostre anime, ma certo ci è lecito congiungere le nostre morti. Muori per tuo marito, se sei una donna casta; e muori per il tuo amore se sei un’adultera. Potrei mai tornare al letto nuziale, dopo averlo profanato con una così grave colpa? Mi mancherebbe solo la nefandezza di godere come sposa fedele di un letto coniugale vendicato dall’offesa! Morte, unica placatrice di un amore colpevole; morte, decoro massimo di un pudore ferito; io, morte, mi rifugio in te! Apri per me le tue braccia, e accoglimi nel tuo abbraccio pacificatore. Ascoltate, cittadini di Atene, e anche tu, padre peggiore della funesta matrigna: io ho raccontato il falso, e, mentendo, ho inventato io, pazza, quella nefandezza, concepita nel mio cuore malato. Colpe vane sono quelle che tu, padre, hai punito, e un giovane casto giace morto per il crimine di incesto. Tu, pudico, innocente, riprenditi ora la tua vera casta natura! Ecco, il mio petto empio si squarcia colpito da spada di giustizia, e il sangue paga il tributo funebre ad un uomo puro. Che cosa tu genitore debba fare, dopo che il figlio ti è stato strappato via, imparalo dalla matrigna: nasconditi nelle plaghe dell’Acheronte!» (vv. 1159-1200). Nel suo drammatico discorso, reso concitato da continui, veloci ed improvvisi cambi di interlocutore, oltre che al dio del mare, a se stessa, alla morte e agli Ateniesi, Fedra si rivolge a più riprese a Teseo e ad Ippolito. Con Teseo, è forse qui l’unica volta in cui l’assoluta incomunicabilità fra moglie e marito mostra qualche crepa. Fedra, che già nel suo monologo iniziale lo aveva definito come un nemico, privo di rispetto verso di lei, censurandone l’assenza per un immorale viaggio agli Inferi; che aveva ribadito il suo giudizio durante il primo dialogo con la nutrice; e che, infine, aveva condotto all’insegna della falsità, il suo unico diretto colloquio con lui; qui, per la prima e unica volta, gli parla, anche se solo per manifestargli il suo odio e metterlo di fronte ai suoi errori: gli rinfaccia di avere indirettamente causato la morte del padre Egeo e direttamente quella del figlio Ippolito, lo accusa di avere sedotto ed abbandonato Arianna e Antiope; alla fine, poi, gli rivolge parole durissime, significative della pesante parte di responsabilità che egli ha avuto come padre nella rovina del figlio. E, di fatto, attraverso le poche parole della sua confessione, Fedra rimarca quanta parte abbia avuto la comunicazione – la mancanza di essa – nella tragedia consumatasi tra padre e figlio: è alla credulità di Teseo, alla sua ira e all’assoluta mancanza di dialogo fra lui e Ippolito che va infatti ricondotta la tragica ed inutile morte di quest’ultimo. Teseo – tornato ad essere padre – si considera come il vero colpevole, invoca su di sé la peggiore delle morti, vagheggia il suicidio. Il coro lo esorta a tributare al figlio gli onori funebri; Teseo ritorna alla sua veste di re, cerca invano di ricomporre il corpo smembrato di Ippolito, e, in un finale di cupa desolazione, lancia la propria maledizione contro Fedra: «Quanto a costei – grida –, una volta seppellita, la schiacci il peso della terra: che il peso della terra gravi sul suo empio capo». Contrariamente a quanto accade nell’Ippolito euripideo, in Seneca non esistono né riconciliazione né perdono, e si assiste alla piena e totale distruzione di ogni vincolo familiare.