La tragedia di Fedra da Euripide a Seneca. Capitolo quinto: "Ippolito coronato" di Euripide
Presentato nel 428 a. C., l’Ippolito coronato di Euripide si configura come una sorta di ‘dramma sacro’, in cui agli uomini non è lasciata alcuna autonomia, il dato religioso è predominante, l’atmosfera è per così dire sovrannaturale e mistica.
Afrodite vuole punire Ippolito per il suo atteggiamento sprezzante verso l’amore: fa quindi in modo che Fedra si innamori di lui. In assenza di Teseo, la nutrice svela ad Ippolito i sentimenti della matrigna, Ippolito si sdegna, e Fedra, temendo di vedere macchiata la propria onorabilità, si impicca: non prima però di avere scritto a Teseo una lettera con la falsa accusa di essere stata violentata da Ippolito. Teseo presta fede al contenuto della lettera, e, non credendo invece ad Ippolito (che non può dire tutto, per un giuramento fatto alla nutrice), lo scaccia in esilio, invocando su di lui la punizione di Poseidone. Il dio, che, secondo una variante mitologica, è il padre di Teseo, conduce Ippolito ad una morte orrenda: il giovane verrà infatti travolto e fatto a pezzi dalle sue puledre imbizzarrite dopo che dal mare si sarà levata un’onda gigantesca da cui verrà proiettato fuori un toro mostruoso e selvaggio. Ippolito viene trasportato morente davanti al padre, e Artemide, sua protettrice, interviene a testimoniare la sua innocenza; Teseo si ricrede sulla colpevolezza del figlio, che, in punto di morte, lo perdona.
La lontananza di Teseo, durante la quale si consuma la prima parte della tragedia, è dovuta ad una non meglio definita «ambasceria sacra»; Fedra non dichiara al figliastro il suo amore, ma è la nutrice a farlo; nella sua follia amorosa, Fedra stessa risulta essere vittima del contrasto fra le dee Artemide e Afrodite; non si incontra mai né con Ippolito né con Teseo, e si impicca affidando le proprie menzogne ad una lettera; Ippolito è caratterizzato come un essere per così dire ‘spirituale’, a dimostrare l’innocenza del quale interviene Artemide, e, prima di morire, si riconcilia sulla scena col padre. Illuminanti per chiarire il rapporto fra dei e responsabilità umane sono le parole rivolte a Teseo da Artemide poco prima di uscire di scena:
«E tu…abbraccia tuo figlio, stringilo a te. Lo hai ucciso, ci sei stato costretto: è inevitabile che gli uomini sbaglino quando così decidono gli dei».
A prescindere dai modelli che sottendono la tragedia di Seneca e dalle significative differenze che caratterizzano lo svolgimento dell’azione nella sua Fedra e nell’Ippolito coronato di Euripide – prima fra tutte la struggente confessione di Fedra ad Ippolito – la vera e più profonda lontananza fra le due tragedie sta proprio qui, nel rapporto fra l’umano e il divino: perché Seneca elimina ogni apparato di carattere religioso, mette in scena personaggi umani totalmente emancipati dalla divinità, guidati dalla volontà individuale e dunque responsabili delle loro azioni, insistendo sulla loro psicologia, sulle loro nevrosi, e sul vuoto di comunicazione che li circonda.