Quando si pensa alla storia del teatro letterario, la mente è portata a rivolgersi immediatamente al mondo antico, alle antiche rappresentazioni greche e in misura minore a quelle romane; subito dopo, per i suoi legami con la classicità, la mente va al massimo alla rinascita teatrale nel Rinascimento: come se, in questa storia, il Medioevo altro non fosse che un periodo ‘buio’ fra il tramonto della classicità e la ‘rinascita’ umanistica. Ma non è così: perché ogni epoca non può non raccogliere l’eredità dell’epoca precedente, facendola propria, modificandola, a volte rovesciandola, e, nella storia del teatro, come in quella di tantissime altre forme culturali, il Medioevo rappresenta necessariamente un più o meno fertile terreno di coltivazione: perché i ‘semi’ hanno tempi diversi di germinazione, spesso sono dormienti, possono vivere in una sorta di letargo e godere di una longevità sorprendente, ma devono essere quantomeno ben conservati.

 

Se torniamo indietro, all’epoca romana, vediamo che il periodo di maggiore fioritura di opere sceniche e di rappresentazioni teatrali fu quello compreso fra il 240 a.C. (anno in cui si sarebbe svolta la prima rappresentazione teatrale di Livio Andronico, forse una tragedia e una commedia tratte da originali greci) e l'età dei Gracchi (Tiberio viene ucciso nel 133, Caio nel 121), quando le rappresentazioni si tenevano ancora all’interno di costruzioni di legno provvisorie, spesso erette all'interno del circo o di fronte ai templi di Apollo e della Grande Madre, Cibele. In seguito, in età imperiale, si assistette a diversi tentativi di far rinascere la commedia e la tragedia, di recuperare e dare impulso ai generi drammatici tradizionali purtroppo ormai da tempo esauriti, ma i risultati furono scarsissimi. Per quanto concerne la commedia, è più che probabile che le commedie composte in età imperiale – tutte perdute – non fossero nemmeno destinate alla rappresentazione, ma all'esecuzione negli auditoria, le sale di lettura in cui opere letterarie venivano lette davanti ad un pubblico colto e selezionato; e un destino analogo toccò alla tragedia, se è vero che, a partire dall’età augustea fino al II secolo d. C., la maggior parte delle opere dei tragediografi fu scritta quasi sicuramente in vista di letture. Peraltro, di tutta la tragedia romana, a parte pochissimi frammenti, noi possediamo soltanto i nove drammi scritti da Seneca nella prima metà del I secolo d. C., nonché una tragedia di argomento romano Octavia, a lungo a lui erroneamente attribuita: la scarsità di notizie esterne non ci permette di sapere nulla sulle modalità di rappresentazione di tali tragedie, ma molti studiosi hanno sostenuto e sostengono che fossero destinate alla lettura.

 

Se andiamo alla storia e alle ‘origini’ del teatro ‘moderno’, ci ritroviamo di fatto nel XIII secolo, quando, in Francia, si cominciano a ritrovare le categorie riconosciute come teatrali (ovvero un testo letterario 'a priori' rispetto allo spettacolo, che ne prescrive allestimento e parole e azioni; attori che si fanno strumento per la rappresentazione di personaggi; spettatori separati e destinatari passivi), e  in Italia, con l'affermarsi del nuovo clima umanistico, il modello della ricostruzione del teatro classico inizia a diventare un nodo centrale del dibattito culturale, entrando anche nella trattatistica.


Va da sé che un ‘buco’ di più di mille anni, dal II al XIII secolo, non può che essere tale solo sul piano dell' affioramento alla registrazione storica, e non certo su quello della realtà: in mezzo, fra il teatro antico e la ‘rinascita’ moderna del teatro, ci sono tutta una serie di fenomeni, letterari e non, che del teatro mantengono quantomeno viva l’idea.

Parliamo di teatralità diffusa, di ‘attori’ e di micro-drammaturgia, ma anche del cosiddetto teatro sacro, nonché dei vari esempi di scrittura drammaturgica, che fanno proprio il modello  di un testo scritto con finalità rappresentative, reali o astratte che esse siano.

 

Abbiamo detto come a Roma, la grande tradizione teatrale di Livio Andronico, Plauto, Terenzio fosse già finita nel II secolo a. C., e come, in età imperiale, i generi drammatici tradizionali fossero di fatto esauriti da tempo: dobbiamo dunque chiederci quale fosse l’eredità culturale raccolta dal Medioevo al crollo dell’Impero.

Sostanzialmente, già nel I secolo a. C., quando si cominciarono a costruire i primi edifici teatrali in pietra, all’interno dei suoi teatri, dotati anche di una valenza urbanistica rilevante, Roma non collocò rappresentazioni di tragedie e commedie, bensì il teatro dei mimi e dei pantomimi, ovvero un teatro irrimediabilmente degradato, con scarsa rappresentazione di valori e grande attenzione ai meccanismi della fabbricazione di un prodotto da guardare senza compartecipazione: un modello che, del resto, riconduceva alle prime forme di teatralità elaborate dalla cultura italica, quali i Fescennini e le Atellane, ovvero forme di teatralità portatrici di un'idea di teatro 'basso', anti-letterario, il cui vero fulcro spettacolare era costituito dall'attore.

La preistoria del mimo romano è alquanto intricata, e l'etichetta copre forme teatrali diversificate. Originariamente, la rappresentazione di mimi era limitata ai Ludi Florales (in onore della dea Flora), che si tenevano dal 28 aprile al 3 maggio; essi divennero poi una forma di spettacolo assai richiesta, molto in voga nell'età di Cesare. Gli attori recitavano senza maschera, lasciando ampio spazio alla espressività dei volti e ad una recitazione realistica; i ruoli femminili erano interpretati da donne, a differenza che nel teatro letterario di Plauto e Terenzio. La fortuna del genere, in età repubblicana e nella prima età imperiale, continuò a basarsi su canovacci schematici, improvvisazioni, canzoni, capriole, e anche numeri di 'spogliarello' delle mime. Sembra che le situazioni-base delle scenette a sé stanti fossero equivoci piccanti, amori boccacceschi, litigi clamorosi.

In età imperiale, il mimo si distaccò sempre più dalla 'commedia', evolvendo verso forme di balletto e di recitazione muta, fino al grande successo del pantomimo. Introdotto, sembra, sotto Augusto, il pantomimo consisteva in un attore che, con accompagnamento musicale, cantava il testo di un libretto, mentre un secondo attore, col volto mascherato, mimava la scena. Fu questo il genere di maggior successo durante l'impero, e, fra i librettisti, c'erano anche autori famosi.

Nel mimo e nel pantomimo, non c'è solo rimozione della priorità letteraria dell'evento, ma c'è soprattutto una dimensione visiva e psicologica totalmente spettacolare. Lo spettatore non partecipa ad un evento-rito, non si interroga sui valori, non cerca un'occasione per riconoscersi in una comunità: semplicemente, assiste, in una situazione psicologica di passività comunicativa. L'elemento portante è l'attore.

Questa accentuazione del lato spettacolare nelle rappresentazioni sceniche è del resto pienamente coerente con la parallela accentuazione della spettacolarità dei ludi circenses, dei munera, e degli aventi agonistici: sono il circo, le battaglie dei gladiatori, le cacce, le naumachie, le corse dei carri a costituire l’elemento predominante del divertimento romano.

Quando cadde l'impero romano, gli unici elementi teatrali superstiti erano dunque i mimi e i pantomimi; gli unici resti di scrittura 'drammatica' erano le opere spesso ampollose di autori che scrivevano solo per la lettura: e sono proprio queste pratiche ambigue a fornire il filo di una continuità e a costituire uno dei lasciti più operanti della cultura romana alla teatralità medievale.

 

C'è poi anche un fattore almeno apparentemente paradossale che passa dalla cultura romana al Medioevo, ed è il discredito sociale che circonda l'attore: a Roma, infatti, l'attore diviene il vero centro dell'evento e dell'organizzazione teatrale proprio quando, paradossalmente, la sua posizione sociale è maggiormente screditata. Ce ne dà una testimonianza anche Tertulliano, laddove, nel De spectaculis, scrive: «Gli stessi padroni e amministratori degli spettacoli, contro gli aurighi, gli attori, i gladiatori (tutte persone idolatrate), nello stesso momento in cui li esaltano, hanno approvato leggi che li umiliano, che anzi li bollano di ignominia e li privano dei diritti civili […] Quale incredibile contraddizione! Amano quelli che condannano, disprezzano quelli che applaudono; esaltano l'arte, bollano l'artista» (22, 2-3).

Il paradosso, evidenziato con argomentazioni analoghe anche da Agostino (De civitate Dei, 2, 11-13 e 28) è in realtà apparente. Il fatto è che l’attore romano, e a maggior ragione il tardo-romano, non ha più nulla di religioso, la sua dimensione non è quella rituale: a differenza dell’attore e del coro greci, che erano espressione della comunità, è quasi necessario che l’attore romano sia ‘altro’ anche dal punto di vista sociale (uno schiavo, un liberto, al più un giovane dilettante, su cui cade il discredito sociale). È semplicemente un oggetto di spettacolo; è una figura sociale degradata e, nel contempo, il motore dell’azione teatrale. Nel teatro greco la presenza delle donne in scena era inconcepibile, per l’aura sacrale, alta, di cui era permeato l’evento: nello spettacolo tardo-romano, culturalmente degradato, sociologicamente usato come divertimento, comunicativamente affidato alla corporeità dell’attore, anche la donna può salire sul palco.

 

Abbiamo citato il libro Gli spettacoli  di Tertulliano a proposito della condanna morale e sociale dell'attore. Ora, il libro in questione è sicuramente il più completo trattato scritto sull'argomento: un trattato dal quale ricaviamo anche la maggior parte delle informazioni sullo spettacolo a Roma in età imperiale. Potrebbe stupire che, in esso, non si faccia differenza fra teatro e altre forme di spettacolo, che Tertulliano condanni indifferentemente tutti gli spettacoli, con lievissime sfumature di diversità nella condanna: ma, in realtà,  così come la condanna morale e sociale dell'attore, anche la degradazione degli spettacoli e la relativa condanna di quello che viene considerato come ‘puro soddisfacimento della vista’ appartengono già alla classicità (basti citare Cicerone, Epistole ai familiari, 7,1; Orazio, Epistola ad Augusto; Seneca Epistole a Lucilio 7, 2-4).

Per Tertulliano, il peccato originale di tutti gli spettacoli è quello di essere generati dall'idolatria: idolatria che caratterizza le loro origini, le loro denominazioni, gli apparati, i luoghi e le tecniche di svolgimento. Inoltre, gli spettacoli sono accomunati anche dal fatto che provocano piacere: e dove c'è il piacere c'è la passione, dove c'è la passione c'è la rivalità, dove c'è la rivalità ci sono il furore e l'ira e il dolore, ecc. Per il cristiano è invece fondamentale la pace dell'anima, e chi soggiace a una passione commette peccato. Gli spettacoli tutti, infine, sono luoghi di promiscuità e impudicizia, laddove la pudicizia è irrinunciabile per un cristiano.

Tutti gli spettacoli costituiscono un peccato contro Dio e la morale: e la censura colpisce indistintamente corse, rappresentazioni sceniche, scontri sanguinari, supplizi atroci.

In realtà, leggendo a fondo, si comprende bene come il bersaglio centrale della polemica, che coinvolge anche il teatro, sia l'aspetto visivo, la spettacolarità accattivante. Il teatro, in quanto puro divertimento degli occhi, mettendo per di più in evidenza il corpo, dando spettacolo del corpo stesso, crea scandalo, inquina la morale.

Ed è proprio il rifiuto della spettacolarità, e soprattutto della corporeità, ad accomunare di fatto tutti gli autori cristiani. In Tertulliano, Novaziano, Lattanzio, Girolamo, sembra esserci una sorta di 'ossessione dello sguardo'. Come scrive Girolamo (Adversus Iovinianum, 2,8), «Se qualcuno è dilettato dai circensi, o dalle gare degli atleti, o dalle movenze degli istrioni, o dalle forme delle donne, o dallo splendore delle gemme […]la libertà dell'anima è catturata attraverso le finestre degli occhi, e si compie ciò che è stato profetizzato, ovvero la morte è entrata dalle vostre finestre».

Il vizio cattura la libertà dell'anima perché la rende schiava delle passioni: ed è qui, nella concezione dello spettacolo come reagente per l'esplodere delle passioni che sta di fatto uno dei nodi centrali del rifiuto dei cristiani.

Agostino è forse l'unico ad operare una distinzione abbastanza chiara tra drammaturgia e spettacolo, tra spettacolo teatrale con un testo scritto e altre forme di teatro non letterario: ma è un seme che resterà a lungo infecondo, affiorando solo episodicamente. Un seme che certo non porterà ad alcun recupero teorico della teatralità antica.

Si può registrare un solo caso più vistoso degli altri: Cassiodoro, all'inizio del VI secolo, nella lettera che scrive per conto di Teodorico a Simmaco in cui raccomanda il restauro del teatro di Pompeo, si produce in una esaltazione degli spettacoli (compresi il mimo e il pantomimo) che non manca di stupire, in quanto opera di un autore cristiano, seppure funzionario governativo.

 

È comunque lecito pensare che, fra V e VI secolo, quando – per il crollo dell'impero – lo spettacolo istituzionalizzato ormai non esiste quasi più, cambi anche l'atteggiamento della cultura cristiana: oltre che le affermazioni di Cassiodoro, ce ne fornisce un indizio non insignificante la famosa e lunga epigrafe funeraria del mimo cristiano Vitale, del V secolo, rinvenuta nella basilica di San Sebastiano sulla via Appia, da cui emergono le caratteristiche professionali e le grandi capacità di Vitale, bravissimo nel suscitare allegria, ed eccellente anche nell’imitazione di personaggi femminili. L’epigrafe peraltro non è l’unica – già sullo scorcio del secolo IV e poi nel V – dedicata ad un personaggio del mondo dello spettacolo: sempre a Roma, a San Paolo, ce n’è ad esempio una in memoria di un pantomimo, una che riguarda un danzatore; a San Sebastiano ce n’è una in omaggio a un famoso catadromarius (funambolo) e al suo cavallo, e una dedicata ad un musicus; a San Lorenzo, un’epigrafe è relativa ad una suonatrice di lira, e al cimitero Maggiore sulla via Nomentana una è relativa ad una cantante, moglie di un ciabattino, ecc.

 

Ben poco sappiamo su quali giochi pubblici, spettacoli o passatempi fossero offerti al popolo dopo la caduta dell'impero romano e prima dell'anno Mille: le fonti sono estremamente povere e non sempre 'obiettive'.

Certo è che, a partire dal V secolo, il teatro in senso proprio (anche nelle forme meno letterarie dell'età imperiale) non esiste più, gli edifici teatrali sono abbandonati e vanno in rovina. Anche se Teodorico tenta di richiamare in vita la teatralità antica e la spettacolarità sontuosa di età imperiale, il suo tentativo è di corto respiro e di brevissima durata. Nel V secolo abbiamo notizia di combattimenti fra gladiatori e belve; abbiamo, fino al VII secolo, qualche accenno non del tutto affidabile ai mimi e alle danze; popolari e praticate, tra V e VI secolo, erano le corse di carri, cui succedono nel tempo le finte battaglie, destinate a sedimentarsi nel tempo in giostre e tornei.

Dunque, se sappiamo qualcosa, è su queste forme di macro-spettacolarità, che coinvolgono intere comunità, o comunque i gruppi dominanti, e che inducono conseguentemente storici e cronachisti a lasciarne una descrizione.

Le stesse fonti restano però mute riguardo al tessuto di micro-spettacolarità attorale, di cui pure ci resta traccia in altre tipologie di testi: ma sui modi in cui questo tessuto si esprimeva, sui tipi di spettacolo di cui gli attori erano portatori, non sappiamo quasi nulla.

Una qualche idea la possiamo avere dal Panegyricus di Claudiano, autore pagano del IV secolo, che menziona alcune tipologie di attori tardo antichi: quelli più specificamente comici o tragici, i buffoni che raccontano facezie, quelli che non parlano e si esprimono col corpo e i gesti, i suonatori di strumenti a fiato o ad arco, gli imitatori, i funamboli. Di fatto sono queste le 'abilità' che sopravvivranno per secoli nel bagaglio tecnico degli attori medievali.

Andando avanti nel tempo, almeno prima dell' XI secolo, disponiamo però soltanto di annotazioni estremamente scarne e sommarie: e sarebbe indebito proiettare su questi attori l'ombra delle forme con cui opereranno i loro discendenti del pieno e tardo Medioevo, quando li troveremo numerosissimi a vagare per l'Europa fra città, castelli, corti e palazzi.

Ciò che è indubbio è comunque che il loro spazio di azione fossero le occasioni festive, pubbliche e private: ché la partecipazione di attori e intrattenitori alle feste risulta essere un dato costante per tutto il Medioevo.

 

Due sono le tradizioni di teatralità diffusa che attraversano il Medioevo alto e medio, ovvero quella dei mimi, degli istrioni, dei giocolieri, e quella 'sciolta' nelle feste e nei riti popolari.

Nel tardo Medioevo, la prima tradizione porterà, da un lato, alla figura esteticamente e socialmente più consapevole del giullare (ioculator); dall'altro alle forme di piazza della commedia dell'arte.

La teatralità sciolta nei riti popolari produrrà, dal canto suo, forme codificate di teatro popolare, come ad esempio i “maggi” (spettacoli in costume, in versi cantati e accompagnati da strumenti come violini, fisarmoniche e chitarre, con tematiche varie), i “bruscelli”, i “mariazi” ; ma anche, più semplicemente, un accentuamento degli elementi para-teatrali nella festa stessa (un agire ritualizzato e codificato, un mascheramento, che trasformano la festa in rito-spettacolo, con cortei, canti, musica, danza, ecc.). Ma qui siamo nel campo del folklore.

 

Abbiamo accennato ad un cambiamento nell’atteggiamento della cultura cristiana verso lo spettacolo che inizia fra il V e il VI secolo, quando il crollo dell’impero provoca di fatto la fine dello spettacolo istituzionalizzato: da quest’epoca in poi, infatti, al di là dell'iterazione quasi obbligatoria delle condanne patristiche, l'arma principale non sarà più l'attacco frontale (insensato, contro un nemico ormai inesistente), ma consisterà nella ‘rimozione’. Sarà l'idea stessa di teatro, ad essere rimossa, e a perdersi di fatto per secoli; e si tenderà anche alla rimozione di quelle schegge di teatralità superstite costituite da mimi e istrioni girovaghi.

A fronte della durezza 'rituale' delle prese di posizione ufficiali, ci sarà peraltro una pratica abbastanza tollerante, all'insegna di quella forma di ambiguità che caratterizzerà l'atteggiamento della cultura cristiana per tutti i secoli seguenti: da un lato, anatemi teorici; dall’altro, adattabilità concreta, di fronte ad una sostanziale impotenza nei confronti di tradizioni festive e spettacolari fortemente radicate e con un loro ruolo antropologico nei meccanismi sociali.

Se l'idea di teatro si perse di fatto per secoli, scarsi se non nulli risultati produsse il tentativo di rimuovere la teatralità superstite, ovvero mimi, istrioni, giocolieri… e poi giullari: ed è l’attività di questi ‘attori’ a mantenere vivo e vitale il filo della continuità fra mondo antico e mondo medievale. L'attore medievale discende in modo diretto dagli istrioni tardo-antichi: è un attore particolare e anomalo, perché non rappresenta ma racconta, e perché non dipende da testi letterari. Il suo operare secolare affiora alla memoria storica diretta solo quando approda alla scrittura, o meglio quando comincia a servirsi di una scrittura intenzionalmente letteraria, tale da essere conservata come prodotto culturale: ma il testo letterario rappresenta solo lo stadio finale di un lungo ininterrotto processo.

 

L’ambiguità che caratterizza l'atteggiamento della cultura cristiana risulta particolarmente evidente, almeno per noi moderni, in relazione al genere del teatro sacro.

La sua forma iniziale si colloca fra X e XI secolo, ed è una forma strettamente legata alla liturgia, che dalla liturgia della Chiesa trae origine, e che nella Chiesa rimarrà a lungo, prima di subire le trasformazioni che gli daranno, nei secoli successivi, vita propria e svolgimento autonomo.

Come i riti di tutte le religioni, il rito cattolico è ricco di elementi spettacolari: la Messa ha significato drammatico, non solo perché il testo è dialogato, ma soprattutto perché è la rappresentazione simbolica di un avvenimento. L’origine del teatro sacro è da ravvisare negli atti della liturgia, nel momento in cui i testi liturgici si arricchiscono di interpolazioni e variazioni: il fenomeno si verifica dopo la riforma carolingia, quando, per ovviare a vocalizzi troppo difficili e facilitare l’assunzione mnemonica, alcune parole vengono aggiunte e adattate al vocalizzo, ammesso nell’esecuzione dei testi liturgici, formando dei versetti melodici (tropi = canti: la parola compare con questo senso già in Venanzio Fortunato). Le più antiche testimonianze di tropi vengono attribuite a Tutilone, monaco di San Gallo, morto attorno al 915, grazie al quale i tropi assumono forma dialogica, foriera dunque di sviluppi nel senso di una vera e propria drammatizzazione: il tropo non è infatti solo un canto alterno, ma è un canto che presume un’azione e dunque una personificazione, che non tarderanno ad arrivare.

Uno dei primi testi del genere è il famoso «Quem quaeritis» (Chi cercate): dal testo dell’ufficio pasquale “«Angelus Domini locutus est mulieribus dicens Quem quaeritis? Iam surrexit. Venite et videte» (L’angelo del Signore parlò alle donne dicendo: Chi cercate? E’ già risorto. Venite e vedete), si crea un dialogo più esteso:

-         Quem quaeritis in Sepulcro Christicolae? (…Cristiani?)

-          Iesum Nazarenum crucifixum, o Caelicolae! (… Celesti!)

-         Non est hic. Surrexit sicut praedixerat. Ite et nuntiate quia surrexit (… e annunciate che è risorto).

Affine al Quem queritis è la Visitatio sepulchri. Alcuni sostengono l'anteriorità del Quem queritis, e vedono nella Visitatio un suo sviluppo in senso 'drammatico'. In realtà sembra che la composizione della Visitatio (il cui testo si ritrova in almeno quattrocento manoscritti sparsi per tutta Europa, dall’Inghilterra all’Italia dei Sud, dalla Spagna alla Polonia) sia coeva al Quem queritis, e c'è addirittura chi ne sostiene l'anteriorità.  C'è comunque una differenza di fondo fra la forma iniziale del Quem queritis e il suo esito nella Visitatio sepulchri: il primo si svolge in chiesa, senza pubblico, alla sola presenza dell'officiante e del coro; la seconda si svolge presso un sepolcro appositamente costruito o designato, alla processione partecipa tutta la comunità monastica, vi è previsto l'uso di alcuni accessori come i linteamina (i lenzuoli per accogliere Cristo morto); è une cerimonia complessa con una sua precisione di gesti e una utilizzazione di costumi e anche di atti, che potrebbero essere definiti azioni sceniche. In particolare, ai due cori che cantavano l’interrogatio e la responsio si sostituivano tre chierici in persona mulierum (nella parte delle donne) e un sacerdote che rappresentava l’angelo. In ogni caso, anche nella Visitatio, esplicitamente rivolta al clero, manca inizialmente il pubblico. Sarà la sua grande diffusione a far sì che il pubblico compaia: inizialmente nelle figure dei conversi, dei frati incolti che si occupavano dei lavori manuali nel monastero. Si arriva così ad una fase più evoluta della Visitatio, in cui si determina una precisa connotazione scenografica. Alla seconda metà del XII secolo è databile una tipologia ulteriore di Visitatio, in cui il dramma è notevolmente più articolato, comprendendo anche l'apparizione del Cristo e a volte di altri personaggi (come l'unguentarius, da cui le pie donne acquistano gli aromi per ungere il corpo di Cristo morto). In questa tipologia, non solo le didascalie nei manoscritti ci testimoniano di un preciso intento spettacolare (ad esempio «Durante il canto, colui che prima era stato l'ortolano venga innanzi con l'aspetto del nostro Signore, ricoperto da un mantello bianchissimo e avvolto da bende preziose…la mano destra rechi una croce con lo stendardo, la sinistra un libro dei Vangeli ornato d'oro»), ma soprattutto la cerimonia si è ormai risolta in una dimensione spettacolare con l'intervento del popolo chiamato ad assistervi, e con una struttura che marca i momenti salienti cercando direttamente l'attenzione degli spettatori (in ben tre punti le donne insieme, o Maria Maddalena si rivolgono direttamente ad populum).

I monasteri benedettini, che erano stati 'responsabili' della nascita della Visitatio, in un contesto e con intenzioni non spettacolari, non sono certo i centri che favoriscono lo sviluppo del dramma liturgico con la sua nuova funzione: molto spesso anzi ne ostacolano la diffusione. I luoghi in cui le cerimonie si radicano maggiormente sono le chiese episcopali, più sensibili ad un progetto educativo, che vedono nel dramma liturgico appunto uno strumento 'didattico'. Fra XI e XII secolo abbiamo la proliferazione numerica e tipologica di cerimonie religiose a carattere drammatico (ad esempio il Quem quaeritis in praesepe).

Abbiamo parlato di "chiese episcopali". Ebbene, nel XII secolo le scuole cattedrali (o episcopali) delle città, ovvero le scuole fondate presso la chiesa cattedrale o la sede del vescovo (episcopium), si moltiplicano, sostituendo quelle monastiche (o abbaziali), che dipendevano dall’abate e avevano come maestri i monaci. E nelle scuole cattedrali, i maestri, sotto la vigilanza del vescovo, assumono un’importanza del tutto nuova: non sono più lettori, ripetitori e commentatori di testi altrui. In queste scholae vengono recuperate con una qualche consapevolezza, strutture e modi del teatro classico: ed è in queste scuole che vedono la nascita veri e propri drammi sacri come la Resurrezione di Lazzaro, o la Storia di Daniele, o il Dramma della natività, o il Dramma dell'Anticriso, che in qualche modo rescindono i legami con la liturgia, e possiedono anche una intenzionalità letteraria. Questa drammaturgia non è interpretabile come una evoluzione sostitutiva delle cerimonie drammatiche, che procedono parallelamente e sopravvivono fino a epoche molto più tarde: sono drammi che esauriscono in questo periodo la loro potenzialità e la loro funzione, destinati ad essere sostituiti dalla drammaturgia religiosa in volgare, sicuramente più funzionale all'utilizzazione didattica. Gli attori non sono più i monaci, ma probabilmente gli scolari, quando non addirittura, per certi ruoli, i giullari.  

È ancora nel XIII secolo che, all’interno del dramma sacro, via via sempre più rigoglioso, si inseriscono temi nuovi, anche profani (ad esempio il mito), e le rappresentazioni sono espulse dalle chiese. La rappresentazioni si spostano dalle chiese ai sagrati, e dai sagrati alle piazze: col che, sia pure indirettamente, si agevola il passaggio alle forme moderne del dramma.

 

Il teatro sacro, nelle sue varie forme, è sicuramente il fenomeno più microscopicamente documentato della teatralità medievale: in Italia, prima dell'umanesimo, è anzi l'unico teatro che ci sia dato documentare.

Se pensiamo ai violenti attacchi della chiesa al teatro e alla spettacolarità, non può non colpire il paradosso di un teatro che proprio con la chiesa si coniuga. Tentativi di spiegazione sono stati fatti, rivisitando Tertulliano, Novaziano, Agostino, ecc., fino a costruire un modello che preveda per così dire la condanna di un teatro 'cattivo' e il vagheggiamento di uno 'buono'. Risulterebbe certo troppo complesso affrontare la questione. Basti dire che, forse, il tratto della teatralità dei drammi sacri, che a noi moderni appare con tutta evidenza, poteva sfuggire a gran parte della cultura cristiana del tempo.

 

Col dramma sacro di produzione scolastica il teatro torna dunque ad essere teatro, ma  il modello del teatro classico, pur se in qualche modo presente, è scarsamente operante.

 

Sono però individuabili nell'alto e medio Medioevo esempi di scrittura drammaturgica, che ci testimoniano la sopravvivenza di forme riconducibili alla classicità: che, soprattutto, mantengono in vita l'idea di un testo scritto con finalità rappresentative, o, inversamente, di uno spettacolo che si costituisca a partire da un testo che lo predetermina.

Il primo esempio è quello noto col titolo Terenzio e il suo critico.

Si tratta di uno scritto anonimo, di datazione incerta, ma collocabile fra il VII e il IX secolo (più probabilmente dell’inizio del IX), ed è un alterco poetico, giunto a noi molto frammentario, fra il commediografo Terenzio e il suo critico (un giovane e valoroso scolaro). In esso, prodotto sicuramente in ambito scolare, si delinea un clima culturale a mezzo fra l'insofferenza scolastica verso le materie di studio e il rifiuto di una cultura classica sentita come lontana e obsoleta: non a caso, Terenzio vi è evocato come figura di 'vecchio trombone' dall'invettiva dello studente. Nel manoscritto (X secolo) che ce lo conserva, compaiono le indicazioni dei movimenti (Ora Terenzio esce) e degli ‘a parte’ (Persona secum Il personaggio fra sé e sé), che ci fanno capire come l’Altercatio dovesse in realtà essere rappresentata, e non semplicemente recitata: anche se nulla ci autorizza ad inferire una vera ‘messa in scena’. Ma, prima di questo, è la forma altercante a contrasto, coi due personaggi fortemente estremizzati, che lo caratterizza come macchina, sia pure rozza, di tipo drammaturgico.

Quella del 'contrasto' è del resto una forma che troviamo con sufficiente costanza nel corso del Medioevo, sia nella versione giullaresca, sia in una versione dotta, più letteraria e meno teatrale, quasi certamente, più che alla rappresentazione, destinata alla lettura: senza con questo escludere, però, una forma 'recitata' lettura, che appare anzi come la più probabile.

Derivati dalla tradizione classica delle controversiae, (ovvero di quegli esercizi retorici di dibattito giudiziario attraverso situazioni ipotetiche) e delle ecloghe virgiliane, abbiamo conflictus sia in prosa che in poesia: basati sull’antitesi e la personificazione allegorica, che ben si inquadrano nel gusto medievale, la loro fortuna è vastissima, sia nella letteratura latina che in quelle romanze. Abbiamo conflitti fra l’angelo e il diavoli, il cristiano e l’ebreo, il ricco e il povero, l’anima e il corpo; il bene e il male, la menzogna e la verità, la fortuna e la virtù; spunti dal mondo della natura animano discussioni fra primavera e inverno, lupo e agnello, rosa e giglio; né mancano temi tratti dalla storia antica o dal mito. Si tratta di una produzione essenzialmente scolastica, in cui si segnalano però anche composizioni di alto livello artistico, come  il Conflictus veris et hiemis (Contrasto fra Primavera e Inverno) di Alcuino, che si pone all’inizio di una ricchissima e fortunata tradizione letteraria. Altrettanto famoso è il Certamen rosae liliique (Contrasto fra la rosa e il giglio) di Sedulio Scoto (IX secolo).

Fra i precedenti antichi del 'contrasto' stanno – abbiamo detto – anche le ecloghe: ebbene, al di là del suo influsso nell'evoluzione del 'contrasto', il genere dell'ecloga continua ad essere coltivato nel Medioevo, con una non infrequente accentuazione, però, dell'elemento di contrasto.

Un esempio estremamente significativo è l'Ecloga Theoduli, di età carolingia, in realtà più simile ad un conflictus che ad un’ecloga vera e propria: un testo molto importante, ma spesso ignorato nelle varie storie della letteratura latina medievale.

 

Tornando ora a Terenzio e il suo critico, a differenza dei contrasti o delle ecloghe in latino di cui abbiamo parlato, il testo ha chiaramente la propria finalità non nella lettura, privata o pubblica, ma nella rappresentazione.

Tiene dunque viva l'idea – e seppure in misura ridotta la pratica – della utilizzabilità drammaturgica della scrittura, che fin dall'epoca imperiale aveva cominciato a sparire; ma, soprattutto, tiene viva l'idea di uno spettacolo che abbia come base predeterminante un testo scritto, aggirando l'ostracismo della cultura cristiana al teatro grazie al ricorso alla letterarietà.

Caratteristiche analoghe presenta la Cena Cypriani (Cena di Cipriano)

La Cena Cypriani è un testo di straordinaria fortuna, che possediamo in tre versioni: la versione tardo-antica, risalente all’incirca al IV secolo d.C., ci è conservata sotto il nome di Cipriano, ma non ha nulla a che vedere con gli scritti dello scrittore cristiano del III secolo; abbiamo poi un’elaborazione di Rabano Mauro, risalente all' 855 circa, compiuta ad uso della corte carolingia di Lotario II, apparentemente più per scopi di lettura che di rappresentazione; e, infine, la trascrizione-elaborazione in versi di Giovanni Immonide, o Giovanni Diacono dell' 876, che ha come fonte il testo tardo-antico, e non quello coevo di Rabano Mauro, e destinata alla rappresentazione presso la corte papale di Giovanni VIII. Vi si narra di un banchetto offerto dal re Gioele a Cana, al quale intervengono Matteo, Pietro, Salomone, Adamo, Eva, Noè, Abramo, Daniele, Caino, Abele, Isacco, Erode…ciascuno colto nell'atteggiamento o nell'occupazione con cui è descritto nelle Scritture: ad esempio, quando si tratterà di sedersi, Eva siederà su una foglia, Noè su di un'arca, Pietro su una cattedra, Isacco su un altare, Lazzaro su un tavolaccio, Sansone su una colonna…. Allo stesso modo, la cena e le azioni dei singoli partecipanti sono descritti in tutti i particolari, e ogni cibo, ogni oggetto, ogni gesto hanno una valenza simbolica in relazione al personaggio con cui sono ‘accoppiati’; quando, dopo il banchetto, si scoprirà un furto, il re condannerà tutti ad tormenta, e Giovanni sarà decollato, Adamo scacciato, ….; durante l'interrogatorio, Pietro negherà tre volte, Eva cercherà un compagno di colpa… Alla fine, scoperto l’unico colpevole, verrà consegnato agli altri convitati e ognuno lo punirà a suo modo; morto, verrà seppellito, dopo di che tutti torneranno a casa.

I materiali di questo testo appartengono dunque chiaramente alla tradizione religiosa, ma la tipologia ha una palese discendenza classica, inserendosi nella tradizione del mimo conviviale o del pantomimo dell’età imperiale romana; a questa ‘contaminazione’ sembra aggiungersi l’incontro con i modi e il contesto spettacolare della cultura popolare.

La straordinaria fortuna della Cena è spiegabile in molti modi, ma sicuramente vi contribuirono l'attribuzione autorevole a Cipriano, il travestimento rassicurante della letterarietà e i materiali di derivazione cristiana impiegati: tutti elementi che poterono impedire una connotazione negativa del testo, facendo nel contempo emergere il bisogno di teatro represso per secoli. La riprova può essere nella presa di distanza dal teatro con cui termina il prologo: «Venite tutti insieme alla cena di Cipriano martire, retore e famoso vescovo di Scartatine, che questo sofista sincero compose con miracoli divini, e non con finzioni satiriche o favole da commedia».

Come già Terenzio e il suo critico, anche la Cena – in misura ancora maggiore – ha la sua finalità nella rappresentazione, e non in una astratta rappresentabilità: i due testi, insomma, mantengono in vita l'idea di uno spettacolo che abbia come base predeterminante un testo scritto, ed entrambi i testi, con la letterarietà, aggirano l'ostracismo della cultura cristiana al teatro. Tramite la scrittura, anche la drammaturgia – e dunque l'idea stessa di rappresentazione – entra alla fine in quel complesso e progressivo meccanismo di assimilazione che la Chiesa compie sulla cultura classica, manifestandosi sia con lo studio e la conservazione dei testi di Seneca o di Terenzio, sia con la produzione di esperimenti come la Cena Cipriani, in cui la cultura classica fornisce la forma, e la nuova cultura i contenuti.

 

Astratta rappresentabilità, peraltro del tutto secondaria rispetto alla dimensione letteraria, presenta invece la produzione drammatica di Rosvita di Gandersheim, i cui sei drammi – Gallicano,  Martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene, Resurrezione di Drusiana e di Callimaco, Caduta e ravvedimento di Maria, nipote dell’eremita Abramo, Conversione della prostituta Taide, Martirio delle sante vergini Fede, Speranza e Carità – rappresentano uno dei fatti letterari più notevoli del X secolo.

Su di lei esistono molti studi, anche se in essi la sua vita e le sue opere tendono spesso ad essere male interpretate. Lo stereotipo che ancora si incontra largamente è quello di una donna (di solito concepita come monaca), chiusa fra le mura di un convento, che inspiegabilmente concepì il piano di leggere le commedie di Terenzio e di imitarle, scrivendone di corrispondenti, ma con intento edificatorio cristiano; si aggiunge spesso che le sue commedie non furono certo concepite per la rappresentazione, ma, al più, per una lettura ad alta voce all’interno del convento. In realtà, Gandersheim era ben diverso da un convento nel senso tradizionale del termine. Fondato nell’852 dal trisavolo dell’imperatore Ottone I, Gandersheim fu, sin dall’inizio, una fondazione altamente aristocratica, che aveva per badesse delle appartenenti alla famiglia regnante; quando Ottone I, nel 947, investì la badessa di Gandersheim della suprema autorità, questa divenne la reggente di un piccolo e autonomo principato, un piccolo e orgoglioso principato guidato da donne. Tutte coloro che appartenevano a Gandersheim erano di nascita nobile, sia quelle che prendevano i voti, sia le semplici canonichesse: diversamente dalle monache, le canonichesse non prendevano il velo ed erano soggette ad una osservanza meno rigorosa della regola (ad esempio, non dovevano sottostare al voto della povertà e non erano tenute a risiedere in convento); ciò consentiva loro di conservare proprietà personali, di ricevere ospiti, di entrare e uscire dal convento, di acquistare libri, di disporre di servitori. La Chiesa non le vedeva molto di buon occhio (pur avendone sancito lo statuto nel Concilio Germanico del 742), ma gli imperatori, i principi e l’aristocrazia in generale trovavano nei conventi di canonichesse un’ottima sistemazione per le proprie figlie.

È pressoché certo che Rosvita, nata attorno al 935, fosse una canonichessa; e sembra verisimile che fosse parente della precedente badessa, Rosvita I, e dunque come lei imparentata con la casa reale. La badessa e amica di Rosvita, Gerberga II, era la nipote dell’imperatore, e mantenne sempre strette relazioni con la corte.

Non sappiamo a che età Rosvita sia entrata a Gandersheim, ma è probabile che abbia trascorso parte della giovinezza alla corte di Ottone. Un dettaglio sembra particolarmente significativo: nel 952, Ottone I aveva invitato a corte Raterio, che, esiliato dalla diocesi di Verona a causa di dispute e intrighi, arrivò praticamente come un profugo. Il fatto che Raterio coltivasse uno stile di prosa rimata, che ha evidenti paralleli in Rosvita, induce nella tentazione di supporre che, durante il periodo in cui Raterio si trovava presso Ottone, non solo il fratello dell’imperatore Bruno, ma anche Rosvita abbia preso lezioni da lui, ed abbia quindi cercato di modellare sul suo esempio le proprie forme espressive. Ci sono comunque tutta una serie di altre buone ragioni per supporre che Rosvita sia stata a corte da giovane; e in ogni caso, dagli anni sessanta del X secolo in poi, specialmente grazie a Gerberga, i legami di Rosvita con la corte ottoniana furono profondi. E ci sono fondate ragioni di credere che, alla corte ottoniana, dietro incoraggiamento di Bruno e di altri (fra cui Raterio e Liutprando), le commedie di Terenzio venissero lette ad alta voce, distribuendo le parti.

Difficile rispondere alla domanda su quale precisa forma potesse assumere una lettura nel decimo secolo, per carenza di documenti: e non c’è alcuna prova diretta che tale lettura, anche con la distribuzione di ruoli a personaggi diversi, sarebbe stata simile ad una rappresentazione, in cui l’elemento teatrale fosse, se non predominante, almeno presente. D’altro canto, la differenza fra una lettura accademica e impersonale, e una lettura punteggiata da sguardi, gesti, movimenti, dipende in primo luogo dal talento di chi vi prende parte.

Per quanto concerne i sei drammi di Rosvita, a partire da prove interne ai testi, dei movimenti dovevano esserci senz’altro; come forse potevano esserci delle parti mimate. Ciò non toglie, comunque, che la loro finalità probabilmente esclusiva fosse quella letteraria: essi cioè non presentano l'unione fra scrittura letteraria e rappresentazione, in cui la prima è finalizzata alla seconda.

Scoperti nel 1494 da Conrad Celtis, i drammi furono da lui pubblicati per la prima volta nel 1501. La scoperta suscitò l’entusiasmo degli umanisti tedeschi contemporanei, che videro in Rosvita la continuatrice della tradizione poetica classica; tracce della notorietà raggiunta da Rosvita anche fuori dalla Germania sono rilevabili nella prima metà del XVI secolo in Italia (in una novella dello Straparola) e in Olanda (in uno dei Colloquia familiaria di Erasmo); cominciavano intanto a circolare traduzioni e rifacimenti. Stranamente, poi, per quasi due secoli, Rosvita e l’intera sua opera ricaddero nell’oblio, e solo a partire dal 1845, data di pubblicazione dell’edizione di Parigi di Charles Magnin, la sua popolarità non conobbe più flessioni, tanto che i suoi drammi circolano oggi in tutta Europa anche in edizioni tascabili, e vengono anche rappresentati; a Gandersheim, l’appuntamento è annuale, e rappresentazioni importanti si sono tenute e si tengono anche in altre città tedesche.

A sollecitare tanto interesse ha senz’altro contribuito la scelta delle tematiche proposte da Rosvita, che ci presenta tentativi di stupro, scene di necrofilia, momenti di vita da bordello, violenze e torture sadomasochistiche; che infrange persino il tabù della morte ‘messa in scena’, sia pure riscattando il tutto con l’estremo candore della narrazione e i finali edificanti: ma c’è sicuramente altro, ed è l’indiscutibile valore letterario dei drammi.  Basti ricordare le interessanti reminiscenze letterarie, gli ‘enigmatici’ giochi di intrecci di citazioni antiche, l’interesse per la teoria musicale e l’armonia, la passione per la matematica, la trattazione di temi filosofico-scolastici, il forte e moderno realismo di talune scene; e poi ancora la caratterizzazione fortemente teatrale di alcuni personaggi, i personaggi creati forse come proiezioni di sé, ecc.  

 

Sicuramente predominante è la dimensione letteraria anche nelle cosiddette commedie elegiache.

Il fenomeno della commedia elegiaca prende l’avvio in Francia, e lì produce, nel XII secolo, i suoi frutti migliori. Tema prediletto delle commedie – alcune anonime, altre no – sono le avventure galanti; gli argomenti, o risalgono a fonti classiche, o riflettono – e talvolta anticipano – motivi e caratteri della novellistica popolare. L'autore classico più ripreso è sicuramente Ovidio, ma non mancano derivazioni dall'Orazio satirico: da cui la definizione di alcuni testi come commedie Oraziane. La forma mista (narrazione e dialogo), nonché il metro, almeno apparentemente contrastante con esigenze rappresentative, sono gli elementi che indirizzano verso una fruizione ‘letteraria’ più che ‘drammaturgica’: ma ciò che più conta è che sia attraverso Rosvita, sia attraverso le commedie elegiache, e ancora di più attraverso Terenzio e il suo critico e la Cena di Cipriano, rimane in vita e prende forza l'idea di una utilizzabilità drammaturgica della scrittura.