La tragedia di Seneca consta di 1027 versi: di questi, più della metà appartengono a Medea, i cui soli monologhi raggiungono 385 versi, e a cui, nei dialoghi più significativi, sono sempre affidati gli interventi più lunghi.
È appunto un suo monologo (vv. 1-55) ad aprire la rappresentazione: diviso in due parti, racconta l’abbandono subìto, per poi avanzare propositi di vendetta. In un crescendo di coinvolgente eccitazione emotiva, Medea invoca gli dei del cielo e dell’inferno, e in particolare le Furie, chiedendo il loro aiuto per vendicarsi di Creonte, di Creusa e di Giasone:
«Ora, ora statemi vicine, Furie vendicatrici del delitto, con i vostri capelli di serpenti in movimento, con la fiaccola nera stretta da mani insanguinate, statemi vicine, come un tempo vi ergeste orride accanto al mio letto nuziale: date la morte alla nuova moglie, e date la morte al suocero e alla loro regale stirpe; date a me di poter augurare allo sposo un male peggiore: che viva, che sia costretto a errare in povertà per città sconosciute, esule, impaurito, inviso a tutti, senza casa; che debba desiderare di avermi come sposa, che – ospite famigerato – vada in cerca di una porta che gli si apra; che abbia (di peggio non potrei augurargli) dei figli simili al padre e simili alla madre. Già partorita, già partorita è la vendetta: io l’ho partorit
a» (vv. 13-26).
Subito dopo, Medea si interroga sulle proprie reali capacità di vendetta; chiede aiuto al Sole, che, per i legami di parentela, le conceda di andare sul suo cocchio attraverso il cielo, dopo di che si autorafforza nella propria decisione:
«Animo mio…, se ancora hai vita, se ti resta qualcosa dell’antica forza, tu devi cercare la via per il loro castigo; scaccia i timori femminei… Nella mia mente si agitano azioni efferate, mai conosciute, orribili, terribili per il cielo e per la terra: ferite e assassinio e un cadavere che vaga smembrato. Ma troppo lievi sono le cose che vado ricordando, cose che ho fatto quando ero ancora una vergine. Si levi a vette ben più alte il mio rancore, delitti maggiori si addicono ora a me dopo aver partorito. E tu, ira, armati, e preparati a uno sterminio con tutto il tuo furore. Che il tuo ripudio conosca la stessa fama delle tue nozze! In che modo lascerai tuo marito? Nello stesso modo in cui un tempo l’hai seguito! Rompi ormai ogni indugio: la casa ottenuta col delitto col delitto va lasciata!» (vv. 41-55).
Come si può notare, in questi propositi di vendetta non è compresa l’uccisione dei figli: forse adombrata – questo sì – ai vv. 25-26 («Già partorita, già partorita è la vendetta: io l’ho partorita»), e al v. 50 («delitti maggiori si addicono ora a me dopo aver partorito»), ma non esplicitata in alcun modo.
Se confrontiamo la tragedia di Seneca con l'omonima tragedia di Euripide cogliamo subito una differenza significativa: in Euripide, infatti, l’odio di Medea verso i figli e il conseguente pericolo che essi corrono sono dichiarati fin dal monologo iniziale della nutrice e dalle sue prime battute; nella sua tragedia, inoltre, la stessa Medea, al primo ingresso sulla scena, grida di aver sopportato sciagure da commiserare, definisce i figli come «figli maledetti di una madre odiosa», e augura loro di morire assieme al padre, a che tutta la casa possa andare in rovina; a fronte di tutto ciò, il monologo della Medea senecana è invece per così dire reticente. È come se l’infanticidio stesse prendendo forma nel suo inconscio, rifiutato però dalla coscienza e celato alla consapevolezza.
I vv. 116-149 contengono il secondo monologo di Medea, che ha luogo dopo che il Coro ha cantato l’epitalamio per le nuove nozze di Giasone e Creusa.
Medea lamenta con toni più patetici il tradimento del marito, ricorda i delitti compiuti per amor suo e dunque i debiti di riconoscenza che egli ha verso di lei, rinnova infine i propri propositi di vendetta. Questi ultimi, però, sono tutti rivolti contro il solo Creonte: riguardo a Giasone, infatti, Medea si chiede come abbia potuto farle ciò che ha fatto; cerca per lui delle possibili giustificazioni; si augura che fra loro tutto possa tornare come un tempo, e, in un umanissimo ondeggiamento psicologico fra amore e rancore, riversa ogni colpa su Creonte, maledicendolo e anticipando quella che sarà la sua vendetta contro di lui.
Dopo un breve colloquio fra Medea e la nutrice, che cerca di convincere Medea a recedere dai suoi propositi, al v. 178 interviene Creonte: a lui Medea chiede invano che Giasone, colpevole quanto lei, l’accompagni in esilio; poi, chiede e ottiene che i figli possano restare a Corinto e che a lei sia concessa una breve dilazione alla propria partenza. All’interno del colloquio, politico e razionale da parte di entrambi, si colloca un lungo discorso di Medea (vv. 203-251), di carattere completamente diverso dai precedenti: Medea si pone sullo stesso piano di Creonte, presenta motivazioni giuridiche per le proprie richieste, rivendica la propria ascendenza familiare; fa sì che il re, seppure impaurito, cancelli di fatto i propri sospetti.
Lo spettatore sa ciò che accadrà poi, e percepisce dunque le tragiche ironie del dialogo, ma dell’inganno di Medea non si parla mai: laddove invece, in Euripide, è Medea stessa che, rivolgendosi al Coro, chiarisce, con lucidità, di avere ingannevolmente blandito Creonte per poterne trarre vantaggio, e aver tempo di compiere la propria vendetta. Ed è la stessa lucidità che la Medea di Euripide mostrerà poi nel progettare con Egeo la propria fuga ad Atene.
Dopo un intermezzo corale, troviamo nuovamente in scena Medea e la nutrice: quest’ultima cerca di trattenere Medea, che esce correndo di casa, e dà una descrizione del suo aspetto, che, tipico di chi è in preda all’ira più violenta, non lascia presagire nulla di buono. Medea, infatti, corre qua e là come una Baccante invasata, recando i segni di un forsennato furore: il suo viso è infiammato, il respiro affannoso, le lacrime le scendono abbondanti dagli occhi, e grida e sogghigna, preda di passioni contrastanti; come in bilico fra quelle passioni, minaccia, sospira, si lamenta, geme.
E la nutrice si chiede:
«Dove si abbatterà il peso del suo animo? Dove trasferirà le sue minacce? Dove si frangerà quest’onda? Il suo furore esonda, medita tra sé e sé un delitto non facilmente tollerabile e non comune: supererà se stessa. Conosciamo i segni della sua vecchia ira: incombe qualcosa di grande, di efferato, di mostruoso, di empio. Vedo il volto del furore. Che gli dei rendano vane le mie paure!» (vv. 391-396).
Lo scontro delle passioni raggiunge qui, in questa descrizione di Medea, una prima efficace visualizzazione.
Il punto più elevato sarà poi raggiunto dalle successive parole della stessa Medea: parole in cui il desiderio di vendetta è ancora frenato dai dubbi, l’amore per Giasone è ancora presente, e la consapevolezza che sia lui il colpevole principale delle proprie disgrazie non prescinde dall’ ultimo disperato tentativo di trovargli una qualche giustificazione (forse Giasone ha avuto paura di Creonte e della persecuzione di Acasto, forse ha ceduto perché costretto). Ma, così come in Ovidio la prima moglie, Ipsipile, rimproverava a Giasone di averla abbandonata senza nemmeno una lettera di spiegazioni, Medea gli rimprovera di non aver nemmeno avuto il coraggio di presentarsi da lei per un ultimo colloquio. Giasone è solo un vigliacco, che non merita di essere risparmiato dalla vendetta: e sarà una vendetta terribile, che sconvolgerà ogni cosa, che andrà anche contro gli dei.
Ed ecco che Giasone arriva.
Aperto da un monologo dello stesso Giasone, in cui egli espone i motivi politici e affettivi che lo hanno spinto a tradire i patti matrimoniali con Medea, e in cui dichiara di volerla calmare (vv. 431-446), il lungo dialogo (vv. 447-560) inizia con le parole di Medea, che occupano ben 43 versi. In essi, Medea richiama alla memoria del marito il loro passato comune, attribuendo la propria miserevole condizione all’amore e alla dedizione verso di lui, ora totalmente ingrato ai suoi occhi. I due continuano poi a parlare, ma con due lingue diverse, quella della passione da un lato, e quella del buon senso dall’altro, reciprocamente mute, fino al momento in cui Medea risolve le sue incertezze e si autoconsolida nella volontà di vendetta.
Quando poi Giasone dirà che i figli sono la sua unica ragione di vita, e che senza di loro egli sarebbe privato di spirito, corpo e luce, come in un lampo, la direzione della vendetta sarà illuminata: «A tal punto ama i suoi figli? – dirà Medea a se stessa – Bene, lo tengo in pugno, mi si è mostrato il punto in cui colpire». E, con poche false parole piene di pentimento e buona volontà, farà sì che Giasone se ne vada tranquillo, senza aver capito nulla di ciò che si agita in lei: dall’omicidio di Creonte e Creusa a quello dei figli.
Dopo il secondo dei cantica corali, centrato sulle responsabilità degli Argonauti nell’aver violato il mare, segue un lungo ‘intermezzo’ magico: in un’atmosfera sospesa, in uno spazio privo di azione, prima la Nutrice ( vv. 670-739) e poi Medea (vv. 740-848) descrivono l’incantesimo sui doni nuziali per Creusa e Creonte. Qui, Medea è ormai fuori da ogni contesto umano, civile, familiare: è la maga sovrumana, signora della natura e del male e della morte.
Come in precedenza la nutrice, ma con colori ancora più foschi, è ora il Coro a descrivere Medea in preda ad un’ira incontrollabile: Baccante bagnata di sangue, sotto l’impeto di un amore selvaggio, il suo furore non sa in alcun modo contenersi: scuote il capo con scatti feroci; è superbamente minacciosa; il suo viso è duro, impietrito, ma le pupille sono in continuo movimento; le guance sono infuocate, ma un terribile pallore le ha tolto il colorito; la sua faccia muta continuamente colore; in una pazza corsa, muove i piedi senza una reale direzione, come una tigre cui hanno sottratto i cuccioli; non sa porre freno all’ira e non sa porre freno all’amore la maledetta donna della Colchide (vv. 849-873).
Dunque Medea non piange più, non minaccia, non sospira, non si lamenta, non geme: la vendetta non è più desiderio, non è più volontà, ma è ormai qualcosa che ha iniziato a compiersi.
Morti Creonte e Creusa, la reggia distrutta da un incendio innaturale e inestinguibile, la tragedia si avvia all’ultimo atto: perché quanto già accaduto – dice Medea – non può che essere una piccola parte della vendetta; accontentarsi sarebbe come ammettere di amare ancora Giasone, che, senza più la nuova sposa, ormai uccisa, potrebbe tornare da lei.
Nel monologo finale (vv. 893-977), Medea si autoconvince per l’ultima volta. È stato utile per lei aver strappato la testa al fratello e averne tagliato a pezzi il cadavere, è stato utile tradire il proprio padre rubandogli il vello, ed è stato utile avere ingannato le figlie di Pelia facendo sì che uccidessero il proprio padre: utile, perché ora le sue mani sono più esperte, e più forti sono le sue capacità di inventare delitti atroci.
Ma quali delitti? Medea non è in grado di dirlo neppure a se stessa:
«Non so cosa il mio animo feroce abbia già decretato dentro di sé, senza osare ancora confessarselo».
E poi, quando il delitto ha preso forma nella sua mente, ecco ancora l’esitazione:
«Si è deciso per questo genere di pena, e lo si è deciso giustamente; è il delitto supremo, lo riconosco, quello che deve essere approntato dal mio animo: figli, una volta miei, voi dovete pagare per i delitti paterni! L’orrore mi ha spinto il cuore fuori dal petto, un freddo gelo mi intorpidisce le membra, il mio petto ha tremato: l’ira se n’è andata, e, scacciata la sposa, torna nella sua pienezza la madre. Dovrei io versare il sangue dei miei figli e della mia discendenza? Pazzo furore, deve esserci qualcosa di meglio! Che questo delitto mai esistito e questa inaudita empietà stiano lontani anche da me. Quale crimine, loro miseri, dovranno pagare? Crimine è l’avere Giasone per padre, e crimine ancora maggiore l’avere per madre Medea. Muoiano, non sono miei; periscano, sono miei. Non sono colpevoli di alcun crimine, non hanno colpa alcuna, sono innocenti: lo riconosco. Anche mio fratello lo era. Perché esiti animo mio? Perché le lacrime mi rigano il volto, e l’ira e l’amore mi spezzano in due? … L’ira mette in fuga l’affetto materno, e l’affetto mette in fuga l’ira: rancore mio, cedi di fronte all’affetto!».
Quindi, abbracciando i figli, Medea dirà:
«Vi abbia incolumi vostro padre, purché anche vostra madre vi possa avere. Ma mi incalzano l’esilio e la fuga: strappati a forza dal mio seno, piangenti e sofferenti, i miei figli mi saranno portati via. Siano dunque perduti per i baci del padre; per la madre sono già morti. Di nuovo monta il rancore e ribolle l’odio … Oh, se… avessi partorito quattordici figli! Troppo sterile fui per i giusti castighi. Ma ne ho partoriti due: ed è quanto basta per ripagare fratello e padre».
Ed ecco che Medea, in una terribile allucinazione, vedrà le Furie infernali con
le loro fiaccole, i loro serpenti e i loro tizzoni ardenti, e vedrà avanzare l'ombra del fratello morto, irriconoscibile, con le membra sparpagliate, che chiede vendetta: dopo di che, senza più alcun intervento esterno, Medea sarà pronta ad agire con le sole proprie forze.
Sennonché, il tempo dell’esitazione non è ancora completamente esaurito, e, ucciso il primo figlio, il suo animo indugerà per una volta ancora. Sarà un attimo, però, perché le vendette da condurre a termine sono due: e se con la morte del primo figlio è stata vendicata la Colchide, sarà con l’uccisione davanti a lui del secondo figlio che Giasone pagherà il suo tradimento.
Inutilmente Giasone la pregherà di lasciare in vita almeno l’ultimo figlio.
Medea gli griderà:
«Se la mia mano potesse essere saziata da una sola morte, non ne avrebbe cercato alcuna. Se anche ne uccido due, è comunque un numero troppo angusto per il mio rancore. Se un qualche pegno si nasconde ancora dentro di me, io esplorerò le mie viscere con una spada e col ferro estrarrò quel pegno».
Dopo aver sottoposto il padre ad una insopportabile tortura psicologica, il lancio dei due cadaveri su di lui ne segnerà la completa distruzione.
Se Euripide rappresentava indirettamente, fuori dalla scena, l’assassinio dei bambini, Seneca, contravvenendo ai precetti enunciati nell’Ars poetica (Arte poetica) di Orazio e a quella che era la prassi consueta, sceglie di rappresentare l’uccisione sulla scena: per di più, fa rivendicare apertamente a Medea quell’uccisione coram populo come prova estrema e palese del proprio potere.
«Si preparano le armi, mi cercano per uccidermi. Salirò sull’alto tetto della nostra casa, dopo aver dato inizio alla strage. Avviati con me, accompagnami
[dice rivolta al figlio ancora vivo]; porterò io stessa via da qui con me anche il tuo corpo[rivolta al figlio già ucciso]. E ora, forza, animo mio! Le tue facoltà non devono andar perdute restando nascoste: fa’ vedere al popolo la tua potenza!» (vv. 972-977).
Seneca raggiunge così un’efficacia drammatica notevole, e caratterizza ancora di più Medea come personaggio ‘estremo’.
La rappresentazione del dramma di Medea, col rifiuto di ogni misura, si fa in Seneca più terrorizzante; le sue passioni sono accentuate, la sua introspezione è martellante, la sua tensione si fa più nevrotica e coinvolgente.
Il centro focale del dramma non è più la storia in sé, ma consiste nell’allargamento dei conflitti spirituali: il modello greco viene per così dire messo alla prova, per dare spazio al predominio assoluto di Medea, che monologa, interloquisce sulle proprie ossessioni, va alla ricerca di una sua autoaffermazione, perde e ritrova una sua identità.
In Euripide, Medea è ‘una’: con tutte le sue complessità, è comunque sempre se stessa.
In Seneca abbiamo di fatto ‘due’ Medea: perché nel suo personaggio c’è un prima e un dopo, col discrimen segnato dal tradimento di Giasone. Questo tradimento mette Medea nella condizione di non riconoscersi più nella donna innamorata, nella moglie e nella madre, e ciò la pone in un conflitto psicologico ed esistenziale terribile, che la porta a voler ritrovare la sua identità perduta. Ed è questo un aspetto del tutto nuovo del personaggio senecano rispetto a quello euripideo.
Il suo essere se stessa, come spesso accade, implica un ritorno al ‘prima’, e si lega strettamente alla sua appartenenza familiare, al suo essere discendente da divinità, alla sua arte magica: ed ecco che, morte la moglie e la madre, in Medea riemerge l’identità rimasta a lungo celata sotto il velo dell’amore per Giasone. E, come un tempo, per Giasone, aveva rotto ogni legame con la famiglia e la patria di origine, deve ora distruggere ciò che con Giasone ha costruito.
Se è ancora moglie e madre quando decide di uccidere Creonte e Creusa, se è ancora madre dopo il colloquio con Giasone, se c’è ancora in lei un barlume di amore persino dopo il ritorno ai suoi diabolici riti, alla fine la metamorfosi si compie e la seconda Medea emerge definitivamente.
Nelle scene conclusive, alla fine del monologo e nell’ultimo colloquio con Giasone, Medea autoafferma finalmente se stessa, quale è tornata ad essere: e, per una sorta di diritto matriarcale, in cui il maschio castrato dei figli è di fatto inesistente, rivendica il suo femminile potere di vita e di morte, compreso il suo diritto di aborto (vv. 1012-1013).
Ad evidenziare questo sdoppiamento, che percorre tutto il dramma, è peraltro proprio Medea, che più volte si riferisce a se stessa come a due entità diverse e contrapposte: lo fa ad esempio al v. 166 («Medea c’è ancora»); al v. 171 («io sarò Medea»); ai vv. 516, 524, 567, 934; e lo fa soprattutto al v. 910, quando la metamorfosi è pressoché compiuta e Seneca le fa dire «Ora sono veramente Medea».
Non a caso, fin dall’inizio, Medea esorta il proprio animo a scacciare da sé ogni femminile timore (v. 42).
Non a caso, nella descrizione dell’incantesimo sui doni nuziali, la nutrice afferma che Medea sta riesumando tutte le sue risorse magiche, tira fuori «tutto ciò di cui lei stessa per tanto tempo ha avuto paura» (vv. 677-678).
E, se la Medea di Euripide in ben tre passi esprime il desiderio di poter morire, la Medea di Seneca non invoca la morte, ma, già al v. 116, grida «Io sono morta».
Il dramma della Medea di Seneca è quello di aver vissuto un tragico spreco di amore, di aver perso se stessa per quelle che sono state delle scelte d’amore, di aver commesso colpe per amore, per ritrovarsi poi sola, abbandonata, unica colpevole, costretta a scegliere fra quell’amore ora negato e un’ira liberatoria.
Giasone non la comprende affatto: non è come il personaggio di Euripide, che addirittura pretenderebbe da Medea riconoscenza, per averla condotta in un mondo civile allontanandola dalla sua originaria barbara terra, ma si mostra comunque totalmente inadeguato. È, di fronte a Medea, un ‘piccolo uomo’, che non sa cosa siano responsabilità personale e senso di giustizia, che non ha avuto nemmeno il coraggio di incontrare la moglie e comunicarle le sue scelte, che giustifica queste ultime solo in nome del suo amore per i figli da proteggere.
L’ira di Medea, la sua collera, si trasforma a poco a poco in odio allo stato puro: un odio rotondo, freddo, pericoloso, perfetto.
L’uccisione dei figli non è premeditata fin dall’inizio, ma l’idea le appare quasi come una rivelazione durante il colloquio con Giasone, dopo che ha volutamente e razionalmente cancellato ogni traccia di amore nei suoi confronti: sono le parole di Giasone che fanno precipitare tutto, e il dolore, la pena, la disperazione, la tenerezza cedono definitivamente alla collera e all’eccitazione della vendetta.
Se uccidere i figli è considerata, oggi come sempre, una esplosione di follia, lo sdoppiamento di Medea e la sua metamorfosi finale ne danno pienamente atto; i cadaveri dei due figli gettati sulla scena rivelano la nuova Medea a se stessa, sottolineano e fanno brillare il suo piacere della vendetta e la sua riconquistata libertà: ché, con i figli, oltre ad annientare il marito Giasone, Medea ha soppresso anche il loro potere su di sé; la possibilità, cioè, che, per il solo fatto di esistere, essi ponessero un freno alla sua metamorfosi.
Si dice che, per una madre assassina, il suicidio rappresenti quasi un gesto d’amore verso se stessa, per smettere di soffrire: la Medea madre di Seneca non si uccide, non invoca la morte, perché è già morta, e dalle sue ceneri ne è nata una seconda – la maga, la dea –, quella che, in una grandiosa e divina solitudine, si allontana sul carro del Sole.
Io credo che la Medea senecana – con l’abbandono del suo essere moglie e madre, e la trasformazione in maga, terribile e potente, collocata fuori da ogni contesto umano – possa essere vista come metafora della realtà politica e sociale vissuta da Seneca: di un mondo, cioè, che aveva perso i suoi valori fondanti ed era precipitato nel disordine e nella pazzia e nella violenza incontrollata.
Questo suo essere metafora, però, nulla toglie alla caratterizzazione psicologica del personaggio: Medea è un personaggio ‘estremo’, radicale, drammatico; è un’assassina, ma è soprattutto una donna. Ed è una donna che rivendica con orgoglio la propria diversità, la propria sessualità, il proprio potere di procreazione; una donna che si ribella all’interno di un mondo tutto maschile, e che riscopre se stessa al di fuori dei ruoli di moglie e madre.
Indomabile e forte come il mare e la natura, che, se violati, si vendicano, la Medea di Seneca è tutto questo.
E fa paura.