«La natura delle bestie feroci e dei serpenti e degli uccelli e di tutti gli altri animali si può domare ed è stata domata dalla natura umana, mentre nessuno può domare la propria lingua» (da Lettera di Giacomo, III, 7-8). 

«Il discorso di colui che si impegna per la verità deve essere semplice e privo di artifici» (da Seneca, Epistole a Lucilio, 40, 4). 

«Pensa che la prima delle virtù è tenere a freno la lingua. Prossimo a Dio è chi sa tacere a ragione» (da Detti di Catone, I, 3). 

«Se hai intelligenza rispondi al tuo prossimo: se no, mettiti la mano sulla bocca, per non restare invischiato in parole indisciplinate e averne vergogna» (da Libro del Siracide, V, 12). 

«Non nuoce affatto avere taciuto, nuoce avere parlato spesso» (da Detti di Catone, I, 12). 

«La parola, una volta fuggita, vola via irrevocabilmente» (da Orazio, Epistole, I, 18, 71)

«L’ambizione spinse molti uomini a diventare falsi, ad avere una cosa pronta sulle labbra e un’altra chiusa nel cuore» (da Sallustio, La congiura di Catilina, 10, 5).

«Due sono le specie di ingiustizia: l’una, di quelli che arrecano ingiustizia; l’altra, di quelli che, pur potendolo fare, non allontanano l’ingiuria da coloro cui è stata fatta. E colui che non si oppone a chi ingiuria è colpevole come se abbandonasse i genitori o la patria o gli amici» (da Cicerone, I doveri, I, 23).

«È più glorioso fuggire l’ingiuria tacendo che superarla rispondendo» (da Beda il Venerabile, Libro dei proverbi – G). 

«Affidati al silenzioso amico del cuore per il consiglio segreto. Affidati al medico di fiducia per la cura del corpo» (da Detti di Catone, II, 22). 

«C’è una misura nelle cose, ci sono limiti precisi, al di là e al di qua dei quali non può trovarsi il giusto» (da Orazio, Satire, I, 1, 106-07). 

«Parole tristi si addicono a un volto mesto, parole  piene di minacce ad uno adirato, ad uno allegro si addicono espressioni scherzose, ad uno austero accenti gravi» (da Orazio, Arte poetica, 105-07). 

«L’uomo saggio tacerà fino al momento giusto; quello arrogante e imprudente parlerà a sproposito» (da Libro del Siracide, XX, 7). 

«Non affrettarti a rispondere finché non sia terminata la domanda» (da P. Alfonsi, Disciplina clericale, “Sul silenzio”).

 

Sono solo alcune delle circa centotrenta citazioni contenute in un breve trattato di Albertano da Brescia, del 1245, dal titolo Liber de doctrina dicendi et tacendi (Libro sulla dottrina del parlare e del tacere): citazioni tratte in grande misura dalla Bibbia – Antico e Nuovo Testamento –  (Libro dei proverbi, Libro del Siracide o Ecclesiastico, Salmi, Lettere di San Paolo, Lettera di San Giacomo), ma anche da autori classici latini (dal più al meno citato, Seneca, Cicerone, Sallustio, Orazio, Ovidio, Publilio Siro, ecc.) e molto più raramente  greci (Esopo, Socrate, Aristotele, Panfilo di Cesarea), da raccolte di sentenze e proverbi (in particolare i Detti di Catone), da autori cristiani come S. Agostino, Cassiodoro, Gregorio Magno, Beda il Venerabile, Pietro Alfonsi.

Le citazioni non sempre sono del tutto fedeli; in uno o due casi non parrebbero nemmeno attribuite allo scrittore o all’opera giusta; almeno una quindicina sono riportate senza che ne sia indicata la provenienza, ma con formule generiche di introduzione come «scriptum est – è stato scritto» (e sono tratte da autori più o meno noti, o riconducibili a detti e proverbi, o liberamente compendiate); allo stesso modo, sono le espressioni «dixit Propheta – disse il Profeta» o «ait Propheta – dice il Profeta» – ad introdurre passi tratti rispettivamente dai Salmi XI, XII, XXXVI, CXIX. In ogni caso, tutte le citazioni servono a conferire autorevolezza alle tesi sostenute, a legittimarle, e a renderle così più persuasive: inserire nel proprio discorso delle citazioni antiche, fare ricorso alla loro auctoritas, è infatti una caratteristica costante negli scritti medievali. Ovviamente, l’auctoritas per eccellenza è rappresentata dalle Sacre Scritture, ma c’è anche l’auctoritas dei Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici dell’alto medioevo, così come ci sono le auctoritates profane, ovvero poeti e filosofi antichi.

Ma quali sono le tesi che Albertano vuole sostenere?

Partiamo innanzi tutto dall’autore.

Albertano da Brescia vive nel XIII secolo. Su di lui, ben poche sono le notizie documentate, a partire dalla professione: egli stesso infatti, nei suoi trattati, si definisce causidicus, termine che però può significare sia un professionista di formazione giuridica, abilitato al ruolo di giudice o di avvocato o di funzionario pubblico, ma che può anche rimandare ad un semplice oratore, con conoscenze di diritto sufficienti a comprendere i consigli dei giureconsulti.

Sicuramente, egli fu comunque tra i protagonisti della politica cittadina nell’Italia comunale.

Dopo avere studiato, probabilmente a Bologna o a Padova, negli anni 1215-1220, nel 1226, in qualità di ufficiale del podestà di Brescia, partecipò, a Mosio (MN), alla conferma dei patti giurati della lega delle città lombarde contro Federico II; nel 1238, nella lotta contro l’imperatore, che tentava di espugnare Brescia con un lungo assedio, gli fu affidata la difesa del feudo vescovile di Gavardo (BS), ma venne fatto prigioniero e tradotto nelle carceri di Cremona, dove compose il primo dei suoi trattati morali, il Liber de amore et dilectione Dei et proximi […] (Libro sull’amore e la dilezione di Dio e del prossimo). Rimesso in libertà dopo la sconfitta di Federico II, tornò a Brescia, e partecipò attivamente alla vita politica del comune. Nel 1242 era a Genova come consulente legale al seguito del podestà Emanuele Maggi.  Databile al 1245 è il suo Liber de doctrina dicendi et tacendi (Libro sulla dottrina del parlare e del tacere), e di un anno dopo il Liber consolationis et consilii (Libro sulla consolazione e sui consigli); ci restano infine cinque orazioni (Sermones), tenute fra il 1243 e il 1253. Dopo il 1253, non si hanno di lui notizie documentate.

I suoi tre trattati, che rientrano in un progetto pedagogico unitario, sono rispettivamente dedicati ai suoi tre figli, Vincenzo, Stefano e Giovanni, e riguardano temi morali ai tempi molto discussi: il fine generale di tutti e tre è quello di provvedere all’educazione del cittadino, allo scopo di costruire un’etica della cittadinanza capace di condurre ad una ordinata convivenza civile. 

Per quanto concerne il  Libro sulla dottrina del parlare e del tacere, dedicato al figlio Stefano, il trattato rientra pienamente nello sforzo generale di stabilire un’etica del linguaggio, che caratterizza la cultura medievale, ma, nel contempo, testimonia di un ‘nuovo’ tipo di attenzione alla disciplina del parlare. A partire da San Gerolamo, fino a Tommaso d’ Aquino, sono infatti numerosissimi i testi che, riprendendo passi delle Scritture, mettono in guardia dai rischi che l’uso della parola comporta: perché la parola dell’uomo è segnata dal peccato, e la Chiesa ha il dovere di disciplinare la parola umana per far sì che possa assomigliare il più possibile alla parola di Dio, di cui è depositaria.  Sennonché, a seguito dei cambiamenti politici, sociali e culturali che segnano i secoli XII e XIII, la Chiesa perde in qualche modo la sua prerogativa di ‘disciplina’: perché l’organizzazione politica comunale, oltre che su quelle della scrittura, si appoggia fortemente sulle pratiche della oralità;  il linguaggio si carica dunque di valori diversi, il suo nesso con la politica si fa stretto, l’atto del parlare assume una chiara rilevanza sociale, e, necessariamente, la discussione coinvolge i nuovi ceti emergenti.

Verso la metà del XIII secolo, si radica la convinzione che l’uomo vada educato e formato come cittadino: il parlare e il tacere non riguardano più il rapporto con Dio – o almeno non soltanto –, ma sono inquadrati all’interno di un’etica sociale. E proprio l’importanza sociale del parlare e del tacere, e della relativa necessità di regole sono al centro del trattato di Albertano. Nella convinta consapevolezza che il linguaggio, in quanto strumento col quale si intrecciano e si esprimono le relazioni sociali, abbia il potere di influenzare la società e sia dunque strettamente connesso alla sfera politica, Albertano si pone dunque nell’ottica di stabilire norme e prescrizioni in grado di condurre ad un uso etico della parola, come elemento indispensabile per la concordia civile. 

 

Il Libro inizia così:

«All’inizio, nello svolgimento e alla fine del trattato, che la grazia dello Spirito santo sia con me. Amen. Poiché molti sbagliano nel parlare e non c’è nessuno che sia in grado di tenere del tutto a freno la propria lingua – come attesta San Giacomo quando afferma che “La natura delle bestie feroci e dei serpenti e degli uccelli e di tutti gli altri animali si può domare, ed è stata domata dalla natura umana, mentre nessuno può domare la propria lingua” (n.d.r. Lettera di Giacomo, III, 7-8) –, così io mi sono fatto carico di mettere a tua disposizione , Stefano, figlio mio, una breve dottrina sul parlare e sul tacere, riassumibile in questa breve formula: Interrogati ripetutamente su chi sia tu che parli, sul cosa tu dica, e  a chi, perché, come e quando tu parli».

«Quando desideri parlare – suggerisce quindi  Albertano al figlio – devi innanzi tutto partire da te stesso, sull’esempio del gallo, che, prima di cantare, si colpisce battendo le ali tre volte. E così, all’inizio del tuo discorso, prima che la bocca dia fiato  alle parole, indaga su te stesso e su tutte le altre parole contenute nella formula; scruta cioè dentro te stesso, e interrogati non una sola volta ma ripetutamente».

 

I. Chi – Riflettere su se stesso

 Chi parla dovrà innanzi tutto interrogarsi su chi egli sia, e se il discorso che si accinge a fare si addica a lui o ad altri, e, in quest’ultimo caso, farà bene a non immischiarsi:

«Allo stesso modo in cui, infatti, dal punto di vista legale, è una colpa immischiarsi di cose che non ci riguardano, come recita la norma del diritto, così è una colpa parlare di ciò che non ci riguarda. Ecco perché Salomone, nei Proverbi, affermava che “Come uno che afferra un cane per le orecchie, così si comporta chi si trova a passare e non si sa trattenere dall’immischiarsi in una rissa altrui”; e Giosuè figlio di Sira disse “Non litigare per qualcosa che non ti crea fastidio” (n.d.r. Siracide XI, 9)».

In secondo luogo, dovrà accertarsi di essere in uno stato d’animo calmo e pacifico, e non mosso dall’ira o da qualche turbamento: perché, in tal caso, è bene che si astenga dal parlare, come già anticamente sostenevano Cicerone e Seneca e Catone e Ovidio e Sallustio, e come giustamente affermava anche il teologo, astronomo e «ottimo filosofo» Pietro Alfonsi, scrivendo che «È propria della natura umana l’incapacità di discernere il vero dal falso in presenza di un qualunque sconvolgimento interiore». Inoltre, se chi parla non sarà in grado di domare la propria lingua e cederà all’impulso irrazionale di parlare, le sue saranno parole irragionevoli.

Dovrà poi prestare attenzione a non rimproverare ad altri gli errori di cui egli stesso potrebbe essere rimproverato; dovrà riconoscere la propria esperienza o inesperienza in merito all’argomento su cui vorrebbe esprimersi; dovrà calcolare i possibili effetti negativi delle proprie parole, dare ascolto al timore di affermare cose che ci si potrebbe poi pentire di avere detto…  Le parole infatti sono come frecce, che, una volta lanciate, non possono essere tirate indietro: vanno dunque pronunciate con prudenza, e, nel dubbio, la scelta migliore è sempre il silenzio.

 

II. Cosa – Parole da evitare e parole da dire

Vero e falso; utile e vano; razionale e irrazionale; parole dolci e parole dure; parole decorose, belle, e parole maligne, indegne; parole chiare e parole ambigue: queste sono le coppie antinomiche prese in esame.

Non a caso, la prima è quella relativa alla verità e alla menzogna, perché la verità va onorata «al di sopra di ogni altra cosa», perché la verità avvicina gli uomini a Dio, e perché la verità è fondamentale per la salvaguardia dei rapporti sociali. Ed è proprio in riferimento al contesto sociale, nonché alla credibilità che in esso occorre avere per non rimanerne isolati, che va respinta ogni falsità volta ad ingannare: ogni affermazione, ogni semplice asserzione, deve avere il peso di un giuramento, qualcosa che sancisce di fatto un contratto sociale. «Devi dunque dire la verità – scrive infatti Albertano – in modo tale che il tuo dire abbia valore di giuramento e non ci sia nessuna differenza tra una tua semplice affermazione e un giuramento»; se poi ci si trovasse costretti a mentire, la menzogna dovrà essere usata a difesa della verità e non per ingannare. Non è comunque sufficiente dire la verità pura e semplice: quella verità deve essere tale da essere creduta, da non poter essere scambiata per menzogna. Il discorso sul vero e il falso si chiude quindi con una breve riflessione sulla buona fede: ché – si afferma – «non è da giudicare menzognero chi afferma il falso ritenendolo vero, dato che, per quanto lo riguarda, non inganna, ma è egli stesso ingannato; al contrario, mente chi spaccia per vero ciò che reputa falso». Infine, dopo aver parlato in breve delle altre coppie,  Albertano conclude insistendo sulla necessità di non ingiuriare mai nessuno, né con le parole né con le azioni; di non irridere  nessuno, amico o nemico o estraneo che sia; di non dire nulla di ingannevole e fazioso, nulla di superbo, nulla di superfluo. Le offese e gli oltraggi sono estremamente pericolosi, e non solo nuocciono ai singoli, ma possono portare distruzioni e sconvolgimenti persino nelle città e nei regni. Le parole derisorie creano fratture. La faziosità porta a divisioni fra i cittadini, e niente è socialmente più pericoloso delle divisioni stesse

 

III. A chi – Parlare ad un amico e parlare ad un nemico

Chi vuole parlare deve innanzi tutto considerare a chi si sta rivolgendo, se si tratta o no di un amico. Ad un amico si parla «bene e felicemente», come con se stessi, ma con un’avvertenza: bisogna comunque evitare di dire all’amico cose di natura tale da temere che possano essere divulgate qualora l’amicizia finisse e l’amico diventasse un nemico. Se si ha un segreto, sul quale non si vuole o non si può ricevere consiglio, l’unico modo per mantenerlo tale è non parlarne con nessuno: ovviamente, non con i nemici; non con gli amici, perché possono trasformarsi in nemici; non coi malevoli; non con chi è troppo loquace; non con gli stolti; non con chi è solito schernire; non con gli ubriaconi; non con le donne… Se si ha invece la necessità di avere un parere o un consiglio, ci si può solo confidare con l’amico più fedele e fidato e riservato.

 

IV. Perché –  Perché parlare

Come occorre cercare le cause delle azioni compiute e di quelle da compiere, così occorre cercare le motivazioni del proprio parlare, perché nulla va detto senza che ce ne sia ragione. Queste motivazioni possono essere: per servire Dio (come fanno i religiosi), per utilità degli uomini – o per guadagno personale – (come fanno ad esempio gli avvocati e gli oratori), per entrambe le motivazioni precedenti, per vantaggio di un amico, per tutte le motivazioni insieme.

 

V. Come – La giusta misura nel parlare

Stabilito che con il «come» si ricerca la misura, il capitolo analizza i punti nei quali è necessario ricercare la misura per parlare bene: la pronuntiatio (declamazione), velocitas (velocità, prontezza), tarditas (lentezza, ponderazione), quantitas (quantità), qualitas (qualità). La declamazione richiede compostezza nelle parole e nei gesti, attenzione alla pronuncia, assenza di eccessi. Ogni discorso va adattato ai luoghi, ai temi, alle cause e alle circostanze, perché «alcune cose devono essere narrate con semplicità, altre rese persuasive col ricorso alle Auctoritates, altre screditate con indignazione, altre addolcite con commiserazione […] Le cose liete vanno dette con volto sorridente, quelle tristi con volto triste, quelle crudeli con volto minaccioso».

Velocità e lentezza richiedono allo stesso modo di adattarsi al contesto: ed esempio, occorre ponderazione nel giudicare, nel consigliare, nel deliberare, così come occorre invece prontezza nell’agire una volta presa la decisione. Misura va anche cercata nella quantità delle cose da dire, che, se troppe, cadono nel superfluo; e misura va cercata nella qualità del parlare, scegliendo parole liete, oneste, lucide, semplici, ed esprimendosi in modo comprensibile, col volto sereno, l’aspetto composto, senza smodati sghignazzi e senza gridare, perché il ‘parlar male’ genera soltanto discordie.

 

VI. Quando –  Un tempo per parlare e un tempo per tacere

Sia per parlare che per rispondere occorre aspettare il momento giusto, senza affrettarsi. Ogni discorso, per essere efficace, va scandito fra parole e silenzi, e ogni cosa va detta a suo tempo e luogo. Questo vale, ad esempio, per i predicatori, per gli ambasciatori, per i giuristi: per tutti coloro, insomma, la cui opera consiste nell’argomentare, consigliare e persuadere, e per i quali la parola è uno strumento imprescindibile. 

 

Come si può facilmente dedurre da quanto sopra esposto, dal punto di vista della materia, la Dottrina rientra appieno nell’ambito delle riflessioni teoriche sull’uso della lingua che, fra la fine del secolo XII e i primi decenni del successivo, coinvolgono filosofi, teologi, predicatori, studiosi di diritto canonico, culminando poi nella costruzione teologica del peccato della lingua: fra l’altro, nel secolo XII era stato anche elaborato – e trasformato poi in una vera “dottrina delle circostanze” – lo schema comunicativo del “chi, che cosa, a chi, perché, dove, come, quando”, al quale si rifà apertamente Albertano.

Allo stesso tempo, però, la Dottrina, pur se costellata di sentenze religiose, si distacca notevolmente dalla precedente tradizione clericale, facendo nascere una ‘cultura’ laica della lingua e del suo uso: Albertano, infatti, pur facendo proprio il modello antecedente di riflessione linguistica, e riprendendone anche la “dottrina delle circostanze”, ne cambia profondamente spirito e motivazioni.

Scritta per un pubblico di laici, costituito palesemente da oratori, avvocati, uomini di lettere e di legge, amministratori, funzionari pubblici, ecc., la Dottrina è volta innanzi tutto a legittimarne l’azione di comunicazione sociale, messa in discussione dai chierici; nel contempo, e conseguentemente, mette in atto una trasformazione dei criteri del giudizio morale, perché il parlare e il tacere inopportunamente sono considerati innanzi tutto come infrazioni dell’etica su cui   deve essere improntata a vita sociale, posti come sono in relazione con i temi fondamentali della vita sociale stessa, ovvero l’amicizia, il consiglio, il segreto, la violenza, ecc.

Sulla legittimazione di quelli che potremmo chiamare “professionisti della parola” – che i chierici accusavano di vendere la propria lingua, ovvero una cosa invendibile in quanto dono e privilegi odi Dio –, appare particolarmente esplicito quanto scritto in relazione al Perché parlare, dove peraltro il guadagno personale è affiancato al servizio divino e al bene dell’amico. Che questi professionisti traggano profitto dalle proprie attività – afferma infatti Albertano – non è peccato, purché il guadagno sia acquisito in modo corretto, non sia eccessivo, e comporti un vantaggio comune. Del resto, – aggiunge poi non senza venature polemiche – gli stessi chierici, che parlano in primo luogo per servire Dio, parlano anche per un proprio guadagno, dovendo vivere dei proventi dell’altare, come stabilisce il diritto canonico; e tuttavia alcuni di loro invertono le motivazioni, perché parlano in primo luogo per il guadagno personale e per ottenere prebende, e solo secondariamente per servire Dio.

La lontananza dagli orizzonti clericali, e dai pericoli che il “peccato della lingua” comporta, è di fatto sancita dalle frasi conclusive del testo, dove Albertano si rivolge al figlio Stefano, invitandolo a servirsi a suo piacimento delle indicazioni presenti nel trattato: trattato scritto appositamente per lui e per i suoi fratelli, anche loro colti, «perché la vita delle persone colte consiste più nel dire che nel fare». «Se poi – aggiunge – tu volessi avere una dottrina del fare, togli dalla formula il verbo dica e sostituiscilo con il verbo faccia, così che si dica Interrogati ripetutamente su chi tu sia, e su cosa tu faccia, e a chi, perché, come e quando».

Di fatto, per Albertano il parlare bene e l’agire bene si sovrappongono perfettamente, e, di fatto, il suo Liber non è definibile semplicemente come un manuale di retorica, ma è un piccolo trattato politico, volto a stabilire una serie di valori e di norme su cui fondare la comunicazione e la società.

 

Viviamo oggi in un’epoca in cui la comunicazione sociale e l’informazione passano pressoché totalmente attraverso linguaggi orali: non solo quelli più tradizionali della televisione e della radio, ma anche quello dei social network, con la loro scrittura  talmente immediata e priva di filtri da essere assimilabile all’oralità (alcuni la definiscono “oralità scritta”). E forse, in questa nostra società, il piccolo trattato di Albertano, centrato sull’impatto culturale e sociale e politico del parlare e del tacere, può avere ancora qualche regola da insegnare.