Il 3 dicembre dell’anno 1315, il Collegium Artistarum di Padova conferiva la laurea poetica al padovano Albertino Mussato (1261-1329), per i suoi meriti di poeta tragico e storiografo: nell’occasione, fu declamata, spectante populo, la sua tragedia in latino Ecerinis – scritta fra il 1313 e il 1314 –, che raccontava l’ascesa e la caduta dell’antico tiranno di Padova Ezzelino III da Romano (1237-1259), tristemente famoso per le sue nefandezze, i suoi crimini e i suoi soprusi.
Col proposito di aprire gli occhi ai padovani sul pericolo di cadere negli artigli di Cangrande della Scala, signore di Verona, il Mussato usò infatti la storia di Ezzelino come esempio e monito per i contemporanei, e lo fece usando come modello le tragedie di Seneca: prima opera del genere, scritta in metro classico – trimetri giambici e versi lirici – dopo la produzione teatrale antica, l’Ecerinide ebbe uno straordinario successo politico e letterario, dando anche inizio alla tragedia di imitazione senecana, che tanto spazio sarebbe stata destinata ad avere nel teatro rinascimentale.
Composta di seicentoventinove versi, l’Ecerinis si apre con il racconto di Adeleita, madre dei due tiranni Ezzelino e Alberico, che, colta da malore per l’improvviso ricordo del concepimento dei figli, rivela come esso non sia stato frutto dell’accoppiamento con il marito, Ezzelino II il Monaco, ma con il diavolo in persona: e, a quanto pare, Mussato è il primo ad attribuire ai due fratelli una vera e propria nascita demoniaca.
«Adeleita Ricordo, mio primogenito – si legge ai vv. 26-85 –, il primo istante della tua nascita. Ezzelino O madre mia, narralo subito. Adeleita Quando la prima ora della notte, l’ora della quiete comune, teneva la casa lontana da ogni occupazione, ecco che dal profondo la terra emise un muggito come se il centro si fosse spaccato e il caos si fosse aperto; l’alto cielo risuonò di rimando, un vapore sulfureo invase il fronte dell’aria e formò una nube. Allora all’improvviso un grande lampo illuminò la casa, simile a fulmine seguito da un tuono: una nube di fumo diffusa per il talamo produsse un fetore. Sono presa, allora, e stuprata, costretta a subire – ecco la vergogna! – un violentatore sconosciuto. Ezzelino Com’era quel violentatore, madre? Adeleita Non meno grande di un toro. La nuca irsuta si erge rigida con corna ricurve, una sorta di criniera lo corona di setole ispide; un liquido sanguinolento stilla da entrambe le orbite e le narici vomitano fuoco in soffi continui: una cenere sottile e infuocata, alzandosi dalle ampie orecchie, sprizza dal volto; anche la bocca respirando erutta una leggera fiamma, e un fuoco perenne lambisce la barba. Una volta che un tale violentatore, soddisfatti i suoi desideri, ebbe riempito il mio utero col suo mortifero amplesso, dopo la devastazione lasciò, vincitore, il talamo, dirigendosi nelle profondità della terra: e la terra si ritirò davanti a lui. Ma ahimè, il seme accolto, straordinariamente tenace, s’infiammò dentro di me, subito agitando le viscere; e il ventre sentì il tuo terribile peso, Ezzelino, degna e vera discendenza del padre. Chiamo a testimone il nume celeste che mi è avverso: i dieci mesi che io, gravida, ho trascorso da allora in avanti furono lacrime, angosce, gemiti e dolore; il furore scatenò una guerra dentro le viscere. E tu, figlio, venisti al mondo con un parto mostruoso. Ezzelino Quale parto? Adeleita Pronostico di morte, alleggeristi il ventre, neonato insanguinato, minaccioso nel volto crudele, terribile a vedersi e rivelando un atroce prodigio. Tu, Alberico, figlio caro, già lo vedo, sei in attesa di conoscere le tue origini. Quello che so, lo saprai anche tu: nel mio intimo sono sempre stata incerta su chi fosse il padre che ti immise in questo corpo maledetto. Certo, dal momento di quel crimine, figlio mio, il calore mi ha sempre arso le midolla, come fosse sprigionato dalle fiamme dell’Etna; uno spirito maligno mi ha sempre tormentato le viscere, né il sonno ha mai sciolto il mio petto dagli affanni: insomma, per non negare affatto il vero o confessare il falso, mentre una veglia leggera o la quiete di un sonno incerto si impadronivano di me, il medesimo violentatore, il vero padre di Ezzelino, commise su di me il medesimo stupro. Ezzelino Che cosa chiedi di più, fratello? Forse ti vergogni, insensato che sei, di un così grande padre? Rinneghi l’origine divina? Siamo generati da dei, e neppure Romolo e Remo sono innalzati dal loro Marte a così grande stirpe. Questi è un dio più potente, signore di un vastissimo regno, re delle vendette, per comando del quale scontano le loro pene potenti principi, sovrani, condottieri. Saremo degni giudici del foro paterno, se con le nostre azioni reclameremo il regno di quel padre a cui piacciono guerre, morti, eccidi, frodi, inganni e la perdizione di tutto il genere umano».
Come si può leggere, Ezzelino è esaltato dalla notizia e sprona il fratello Alberico, inizialmente turbato, a rallegrarsi: questa rivelazione rappresenta infatti, a suo dire, una sorta di investitura che apre alla possibilità di compiere ogni sorta di crimini per saziare la sete di potere.
«Ciò detto – continua il testo – (Ezzelino) si ritira nella parte più remota della casa cercando rifugio e, lontano dalla luce, cadendo a faccia in avanti, prostra il capo al suolo, e, digrignando i denti, percuote la dura terra e con voce spaventosa invoca il mortifero padre: O tu, padre superbo, che, scacciato dagli astri, al mattino già brilli nel cielo; tu che reggi il tetro regno della profondità delle tenebre; tu per autorità del quale le anime dei morti scontano i loro delitti, dall’infimo antro accogli, o Dio del fuoco, le degne preghiere del figlio supplice. Ad invocarti è una progenie certa e fidata. Impossessati di me, sperimenta se può qualcosa l’ardente volontà insita nel mio petto. Chiamo a testimone l’atro Stige della livida palude: ho sempre negato Cristo, per me odioso, e ho sempre odiato il nome nemico della Croce. Mi assistano le Furie, dispensatrici di delitti, mi induca Aletto a compiere scelleratezze, le ponga in opera Tisifone, scateni azioni crudeli la feroce Megera e la divina Persefone favorisca le mie imprese. Ciascuno volga smanioso le menti alla rapina, e non venga meno alcuno degli spiriti infernali: eccitino gli animi alle ire, agli odi e alle invidie. A me sia dato il compito della spada crudele: che io, solo e unico esecutore, ponga fine alle liti. La mano risoluta non tremerà di fronte ad alcuna scelleratezza. Concedi il tuo consenso, Satana (Sathan), e verifica l’attitudine di un tale figlio» (vv. 86-112).
Immediatamente dopo l’invocazione di Ezzelino al proprio vero padre, ovvero Satana, è inserito il primo dei cinque cori che puntellano il tessuto compositivo della tragedia: coro che, temporalmente, riconduce ad un periodo posteriore rispetto alla scena precedente, a quando, cioè, Ezzelino aveva già intrapreso e in parte condotto a termine le azioni di conquista e di sopraffazione che in quella scena si riprometteva di compiere.
Composto in versi gliconei (vv. 113-162), questo coro è espressione del pensiero e dei sentimenti del popolo padovano di parte anti-tirannica oppresso da Ezzelino, e svolge il canonico ruolo dell’accortezza che si oppone al furore, della razionalità che dispensa consigli e ammonimenti destinati però a rimanere fatalmente inascoltati.
Ci sono le invettive contro i potenti e i tiranni che bramano il potere; contro la loro distruttiva ambizione, che li porta a non fermarsi di fronte ad alcun ostacolo, a ricercare continuamente maggiori vantaggi e privilegi, a salire sempre più in alto, senza rendersi conto dei rischi che la loro avidità e la loro superbia comportano, aprendo di fatto le porte alla guerra e alla tirannide.
C’è un’autocritica rivolta alla propria instabilità e incostanza come ‘popolo’, che può condurre a favorire l’ascesa di un tiranno.
C’è il tema del fato ineluttabile dei tiranni, che alla fine sono sempre destinati a cadere, trascinando il popolo con sé: perché niente dura in eterno e la ruota della Fortuna gira incessantemente.
Dal punto di vista narrativo, si dà inoltre conto dell’instabile situazione della Marca trevigiana, agitata da guerre frutto della bramosia degli uomini. Il brano corale si chiude infine con l’arrivo di un Nunzio, che è protagonista della scena successiva: dialogando con il Coro, l’anonimo personaggio introduce un racconto rievocativo sugli eventi della Marca dal 1207 fino alla resa di Padova a Ezzelino nel 1237 (vv. 163-227).
Un nuovo canto corale in strofe saffiche descrive il clima di terrore instaurato dal tiranno e dà voce a un’invocazione a Dio perché vi ponga fine (vv. 228-80).
Il successivo dialogo tra Ezzelino e Alberico espone i grandiosi progetti di conquista di Ezzelino, che, ripetutamente, fa riferimento alla propria origine ‘diabolica’ (vv. 281-321).
Nella scena seguente Ezzelino dialoga con Ziramonte, suo luogotenente, che gli conferma come ogni ribellione a Padova sia sedata e il suo dominio incontrastato. A cercare di distogliere Ezzelino dalle sue crudeltà arriva poi frate Luca (identificato col minorita Luca Belludi, compagno di Sant’Antonio), che invita il tiranno a pentirsi e a redimersi: ogni sua richiesta cade però nel vuoto (vv. 322-397).
La tronfia sicurezza di Ezzelino è successivamente incrinata dall’arrivo di un messo, che gli annuncia che Padova è stata riconquistata dagli esuli guelfi, sostenuti da Venezia e Ferrara e guidati dal legato papale.
Ezzelino non crede a una notizia tanto funesta, ma essa gli è confermata poco dopo da Ansedisio Guidotti, podestà di Padova: sia l’anonimo nunzio che Ansedisio sono puniti perché forieri di cattive notizie:
«Ezzelino (al messo) Vattene, servo menzognero, sarai punito col taglio di un piede: prenditi il premio degno della tua relazione! Ma ecco che viene da questa parte Ansedisio. Allora, che c’è? Ansedisio La città di Padova è perduta: è in mano ai nemici. Ezzelino Perduta con la forza? Ansedisio Con la forza. Ezzelino Come? Ansedisio Con le armi, la fuga e gli incendi, cose cui le città sono solite soccombere. Ezzelino Ma avendo tu salva la vita! Il solo tuo volto illeso ti dichiara colpevole, è indice del tuo crimine! Vattene, tu, per il quale la pena di morte non sarebbe sufficiente. Commilitoni, che cosa richiede il nostro valore? Le circostanze avverse mettono alla prova gli animi coraggiosi» (vv. 412-22).
I commilitoni suggeriscono ad Ezzelino di muovere subito alla riconquista di Padova: la città – sostengono – si sarebbe senz’altro piegata se Ezzelino avesse preso in ostaggio e incarcerato a Verona dei padovani, minacciandoli di morte (vv. 423-431).
Gli eventi successivi sono riassunti da un coro in asclepiadei minori (vv. 432-58): Padova rifiuta di cedere al tiranno, che reagisce infierendo sui prigionieri, lasciati morire di fame e di sete (i morti ammonterebbero alla cifra inverosimile di undicimila v. 450). Al che, Ezzelino sceglie di rinunciare momentaneamente a Padova, muovendo verso la Lombardia: e questa, che sarà la sua ultima impresa, è narrata retrospettivamente da un messo quando Ezzelino è ormai morto.
Il tiranno aveva conquistato Brescia, ed era in seguito avanzato verso Milano, dove una fazione di nobili aveva promesso di consegnargli la città; il piano però era fallito, e, mentre cercava di tornare in Veneto attraverso il guado di Cassano, Ezzelino si era trovato circondato dalle truppe milanesi da un lato, e da una lega di cremonesi, mantovani e ferraresi dall’altro; era caduto prigioniero e un anonimo soldato lo aveva colpito al capo, ferendolo a morte; era spirato dopo qualche giorno nel castello di Soncino, dove era stato sepolto (vv. 459-520).
Un canto corale in strofe saffiche rende grazie a Dio per la cacciata del tiranno e per la rinnovata pace (vv. 521-36).
L’ultimo episodio della tragedia ha per protagonista Alberico che, temendo di andare incontro alla stessa sorte del fratello, si era rifugiato nella rocca di San Zenone: accerchiata dagli eserciti di Padova, Vicenza e Treviso, cui si era unito anche il marchese Azzo d’Este, la rocca era stata espugnata, e Alberico e i suoi si erano consegnati, andando incontro a un barbaro massacro (v. 537 sgg.).
«La folla – si legge ai vv. 551-615 – fa irruzione nella nobile casa. Uno afferra i piedi di un neonato strappato al seno materno, sbattendo il tenero capo contro una trave di quercia: il sangue sparso dal cervello spappolato schizza sul volto della madre. Un novello Ezzelino corre verso un uomo con la spada, che un bambino di tre anni chiama zio: “Tuo zio – gli dice – ha insegnato a dare ai propri nipoti un premio come questo”, e gli taglia le vene ben visibili della gola. E perché la vista del brutale delitto sia accessibile a tutti, infigge l’orrido capo su una lunga lancia: un repentino rigore fa corrugare il volto e rovesciare le orbite, un liquido sanguinolento riempie la mano di colui che porta la lancia, mentre un altro mastica con i denti il fegato ancora palpitante. Queste le orribili fini dei figli maschi di Alberico: tanto crudele e feroce fu la strage della triplice alleanza. E quando, al sommo della rocca, Alberico cade nelle mani del popolo, a lui, che già si prepara a dire falsità, viene applicato un morso sotto la gola aperta e lo si trascina ad assistere, vivo, alla strage dei suoi familiari. Ed ecco, strappata dalla camera matrimoniale, trascinata fuori dalla folla feroce, giunge la moglie di Alberico, con gli occhi rivolti al cielo e la chioma scarmigliata: una fune le bloccava strettamente le mani. Poi cinque fanciulle vengono trascinate insieme davanti agli occhi dei genitori, con i capelli sciolti, prole da offrirsi alla morte in mezzo alle fiamme. Si raccolse intorno a loro tutto il popolo, rinfacciando le loro crudeltà, come una turba di cacciatori, dopo aver intrappolato le belve nella tana, sta intorno ai lupi rapaci, ricordando i danni da loro fatti e conducendo i cani, rimandando così volontariamente il piacere della strage […]. Arde alta la catasta di legna di una grande quercia. Le fiaccole accese sotto diffondono odore di pece, grasso olio d’oliva alimenta i ceppi e il fumo forma nel cielo una nera nuvola; il bagliore rumoreggia come un tuono celeste e le cavità emettono gemiti; perché nessuno possa negare che dentro ci sia la potenza di Giove infernale, ci sono bocche di camino che vomitano fiamme. O penosa sorte offerta alla vista dei genitori! La serie delle innocenti è gettata nel fuoco per prima. Quando le fiamme minacciose incendiarono, ardendo, i loro seni e afferrarono le bionde chiome, le fanciulle si ritrassero, invocando invano la protezione dei genitori: ma questi si sottrassero al loro pernicioso abbraccio. Dopo che una vana speranza le ebbe spinte qua e là tutt’intorno fuori di sé, all’improvviso un brutale aguzzino afferrò la madre con mani violente e, trascinandola, la gettò assieme alle figlie nel rogo che si apriva davanti […].E poi numerose furono le armi che a gara colpirono l’uomo fermo e immobile; uno gli conficcò nel fianco destro la spada, che fuoriuscì dal lato sinistro, e da entrambe le ferite sgorgò copioso il sangue; un altro lanciò la spada come un fulmine e lo colpì alle spalle. Recisa la nuca, il capo, vacillando, emise un gorgoglio, e il busto rimase a lungo eretto vacillando prima di cadere, finché la folla numerosa sparpagliò le membra ridotte in piccoli pezzi, distribuendole tra i cani famelici».
Il coro finale (vv. 616-29), in dimetri anapestici, esplicita quello che è l’insegnamento morale della vicenda, ovvero che il trionfo dei malvagi può solo essere temporaneo, perché c’è una giustizia che governa il mondo, grazie alla quale ciascuno ottiene ciò che merita.
Come s’è accennato, con questa tragedia il Mussato intendeva aprire gli occhi ai padovani sul pericolo costituito da Cangrande della Scala: la parabola politica di Ezzelino presentava infatti non poche analogie con l’ascesa che Cangrande della Scala stava compiendo negli anni in cui Mussato scriveva. Peraltro, la scelta della vicenda di Ezzelino era abbastanza vicina nel tempo da risultare ancora presente nella memoria e nella tradizione orale dei padovani, e, nello stesso tempo, era abbastanza lontana negli anni da poter essere colorita con particolari più o meno fantastici.
Senza entrare nel merito delle convinzioni del Mussato sul sistema comunale, sulla sua esaltazione o, viceversa, sulla consapevolezza dei suoi possibili rischi – e senza dunque interrogarci sul significato politico dell’Ecerinide nella contingenza storico-politica del momento –, ciò che preme sottolineare è non solo la volontà dell’autore di fornire un insegnamento pratico, ma sono soprattutto le istanze ’universali’ che dal suo messaggio emergono chiaramente: la vicenda di Ezzelino, con la decadenza morale del personaggio, assurge infatti ad esempio dei comportamenti da evitare, perché nocivi sia sul piano individuale che collettivo, avendo come conseguenza la tirannia e la rovina di intere città e nazioni.
L’impianto della tragedia è senecano.
La presenza significativa del Coro, che, composto da cittadini padovani, è insignito del ruolo di controparte collettiva della folle violenza del tiranno e si fa portavoce di riflessioni etiche, deriva dalle tragedie di Seneca.
Fortissimi sono i richiami al Tieste, cui l’Ecerinide si ispira nella maniera più diretta, ma palesi sono gli spunti tematici e stilistici provenienti dall’intero corpus tragico senecano: la figura di Ezzelino, ad esempio, è modellata sul personaggio di Atreo nel Tieste, ma anche su quello di Nerone, protagonista dell’Ottavia (all’epoca ritenuta di Seneca); la descrizione del demonio, responsabile dell’orrendo concepimento di Ezzelino, è ispirata all’apparizione del mostro marino dalle sembianze di toro della Fedra, ma rimanda anche allo stupro evocato dall’ombra di Tieste nell’Agamennone; il rinnegamento di Cristo e l’invocazione, da parte di Ezzelino, del suo vero padre e delle Furie, sono costruiti sul modello della prima scena del Tieste, dove una Furia conduce l’ombra di Tantalo alla reggia degli Atridi perché vi fomenti vendetta, ecc..
A Seneca riconducono l’uso della crudezza e il gusto dell’orrido
In molti modi, insomma, l’Ecerinide è debitrice delle tragedie senecane, ma, ciò che più conta, riconduce a Seneca anche il recupero dei temi che ne costituiscono l’impianto etico e ideologico: ché centro focale delle tragedie senecane, come dell’Ecerinide, è la tematica del Regno e del Potere, e la funzione del teatro senecano, come quella dell’Ecerinide, è fondamentalmente antitirannica.
Detto questo, nell’Ecerinide è rilevabile la presenza di numerose altre fonti, che spaziano dai classici ad autori tardoantichi e medievali: vi si ritrovano echi e suggestioni più o meno forti da Virgilio, Ovidio, Stazio, Lucano, ecc.. Abbastanza significativa è poi l’influenza della Consolatio philosophiae di Boezio sia nello sviluppo di alcuni temi quali il ruolo della Fortuna nelle vicende umane, o l’idea del potere come fonte di ansia e pericoli, tema centrale del secondo e terzo libro dell’opera, sia nell’uso degli inserti poetici all’interno dei cori (v. Boezio e il “De consolatione Philosophiae”).