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Eloisa o Storia della mutilazione di un’anima

2024-05-21 17:19

Claudia Pandolfi

Letteratura femminile,

Eloisa o Storia della mutilazione di un’anima

«Viveva allora a Parigi una fanciulla di nome Eloisa, nipote di un certo Fulberto, un canonico, che le voleva un grandissimo bene e che aveva cercato

«Viveva allora a Parigi una fanciulla di nome Eloisa, nipote di un certo Fulberto, un canonico, che le voleva un grandissimo bene e che aveva cercato di farla istruire in ogni disciplina letteraria. Così Eloisa, non ultima per bellezza, superava tutte per la sua profonda cultura: anzi, proprio questa sua dote, tanto rara nelle donne, le conferiva una particolare attrattiva e le aveva già dato una certa fama in tutto il regno. Trovando in lei tutte le qualità che sogliono attrarre gli amanti, pensai di iniziare con lei una interessante relazione, ed ero sicuro che nulla mi sarebbe stato più facile: avevo allora una tale fama e un tale fascino, anche in considerazione della mia giovane età, che a qualsiasi donna mi fossi degnato di offrire il mio amore, non aveva timore di ricevere alcun rifiuto. D’altra parte ero convinto che la fanciulla avrebbe corrisposto tanto più volentieri ai miei desideri, quanto più la sapevo colta e appassionata per gli studi letterari; pensavo che, anche quando non avessimo potuto stare insieme, ci saremmo sentiti l’uno accanto all’altra scrivendoci delle lettere, e, per iscritto, ci saremmo detti anche quello che a parole non avremmo mai confessato: insomma, avremmo potuto continuare così senza interruzione i nostri dolci colloqui. Tutto preso dall’amore per questa fanciulla, studiai il modo di avvicinarla e intrecciare con lei rapporti quotidiani e familiari, per rendermela amica, in modo da indurla più facilmente a cedermi. Per arrivare a questo, mi misi in contatto con suo zio Fulberto e, per mezzo di alcuni amici comuni, ottenni di farmi ospitare a pensione nella sua casa, che era molto vicina alla scuola: non facevo questione di prezzo e adducevo come pretesto il fatto che il pensiero di dovermi occupare personalmente di una casa nuoceva ai miei studi e mi costava troppo. Fulberto era molto avido di denaro, e per di più desiderava moltissimo che sua nipote si perfezionasse negli studi letterari. Puntando su queste due cose, non mi fu difficile convincerlo, e ottenni quello che desideravo: il denaro gli piaceva e lo lusingava sapere che sua nipote avrebbe potuto trarre giovamento dalla mia presenza. A questo proposito, anzi, andò molto oltre le mie stesse speranze e spianò la strada al mio amore: mi affidò infatti la fanciulla in tutto e per tutto, affinché in ogni momento libero da impegni scolastici, di giorno e di notte, io mi occupassi della sua istruzione: mi diede persino il permesso di batterla, nel caso in cui, a mio giudizio, non si fosse applicata convenientemente. La sua ingenuità mi meravigliò non poco e non potei fare a meno di stupirmi, come se egli avesse affidato una tenera agnella ad un lupo affamato. […] Con il pretesto dello studio pensavamo solo al nostro amore. […] Le mie mani correvano più spesso al suo seno che ai libri. L’amore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri. E talvolta, per meglio stornare qualsiasi sospetto, io arrivavo al punto di percuoterla: ma era l’amore e non lo sdegno, era la tenerezza e non l’ira a dare quelle percosse, e tutto ciò era più dolce di qualsiasi balsamo prezioso. Ma le parole sono inutili. Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e, se in amore si può inventare qualcosa i nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai». 

  

A scrivere queste parole è il filosofo Pietro Abelardo, una delle figure più rappresentative dell’epoca a cavallo fra XI e XII secolo, e il racconto della sua relazione con Eloisa si trova all’interno della lettera autobiografica intitolata Historia calamitatum (Storia delle mie disgrazie): formalmente, una Lettera consolatoria ad un amico, ma più probabilmente una finzione letteraria, tanto più che non è mai stata possibile alcuna identificazione dell’anonimo – sicuramente inesistente – amico.  

Siamo nel 1116: nato nel 1079, Abelardo ha quasi quarant’anni, da due o tre anni occupa la più alta cattedra di insegnamento a Parigi, che, anche grazie a lui, si appresta a diventare il centro culturale dell’Europa; è al culmine della sua fama intellettuale, e da tutti i paesi vengono studenti ad ascoltare le sue lezioni. La via per arrivare al successo – e per salire finalmente su quella cattedra, tanto agognata fin dal suo arrivo, appena ventenne, a Parigi – è stata impervia, segnata fin dall’inizio da scontri e polemiche, soprattutto col teologo e filosofo Guglielmo di Champeaux: ma ora può finalmente godere appieno della sua gloria e del suo benessere economico.  

Eloisa, probabilmente orfana, reduce dal monastero di Argenteuil dove è stata educata e dove ha appreso il greco, il latino e l’ebraico, è una giovane donna di sedici-diciassette anni, già famosa per la sua cultura.  

Il loro incontro, fortemente voluto da Abelardo, segnerà pesantemente il destino di entrambi.  

Quando Fulberto scopre ciò che, da mesi, sta accadendo sotto il proprio tetto, allontana immediatamente Abelardo, ma la lontananza non interrompe il suo rapporto con Eloisa: «Questa separazione dei corpi – scrive ancora Abelardo – non fece altro che avvicinare ancora di più i nostri cuori, e l’impossibilità stessa di soddisfare il nostro amore lo infiammava ancora di più, e perfino la consapevolezza dell’irrimediabilità dello scandalo ci aveva resi insensibili allo scandalo stesso: il senso di colpa, del resto, era tanto minore quanto più dolce era stato il piacere del possesso reciproco».  

Eloisa, rimasta incinta, scrive della propria condizione ad Abelardo, che la rapisce e la conduce, travestita da monaca, a casa sua in Bretagna; qui, Eloisa da alla luce un bimbo, chiamato Astrolabio. Nel frattempo, tornato a Parigi, Abelardo promette a Fulberto che sposerà Eloisa. Avendo probabilmente ricevuto solo gli ordini minori, Abelardo potrebbe benissimo sposarsi e continuare anche ad insegnare; chiede però che il matrimonio rimanga segreto per evitare che possa compromettere la sua carriera. Sennonché Eloisa non vuole il matrimonio riparatore, perché capisce come la vita matrimoniale possa rappresentare un ostacolo per gli studi e per la carriera di Abelardo: preferisce essere la sua amante piuttosto che sua moglie, preferisce che ad unirli sia l’amore e non un vincolo matrimoniale. Alla fine, per non disubbidire in nulla ai voleri di Abelardo, accetta però di sposarlo, e il matrimonio si svolge a Parigi in gran segreto: sennonché Fulberto, venendo meno ai patti, divulga la notizia. Eloisa giura e spergiura che il matrimonio non c’è stato, che è tutta una menzogna; Abelardo, per sottrarla alla continue angherie dello zio, esasperato dal suo contegno, la riporta al monastero di Argenteuil e le fa indossare l’abito monacale (tranne il velo, segno di definitiva consacrazione); si reca ogni tanto a trovarla, vivendo anche momenti di passione. «A questo punto, suo zio Fulberto e tutti i suoi parenti – racconta Abelardo – pensarono che io mi fossi fatto beffe di loro e che avessi messo Eloisa in monastero per sbarazzarmene più facilmente. Perciò, gravemente offesi, si accordarono, e una notte, dopo aver corrotto un mio servo con denaro, mi sorpresero mentre riposavo tranquillamente in una stanza appartata di casa mia e mi punirono con la più crudele e infamante delle vendette, vendetta che tutti appresero con immenso stupore: mi tagliarono cioè la parte del corpo con cui avevo commesso ciò di cui essi si lamentavano. Riuscirono a fuggire tutti, tranne due, ai quali dopo la cattura, furono cavati gli occhi e tagliati i genitali: uno di essi era proprio il servo che, pur essendomi particolarmente affezionato, si era lasciato indurre al tradimento per cupidigia».  

Per Abelardo, travolto dalla vergogna, si prospetta anche la fine della carriera: decide allora di farsi monaco nell’abbazia di Saint-Denis, non prima di aver indotto la stessa Eloisa a prendere il velo e vestire l’abito sacro nel monastero di Argenteuil («Per mio comando, Eloisa aveva spontaneamente preso il velo ed era entrata in monastero»).  

In un continuo alternarsi di persecuzioni, condanne e ‘rinascite’, ben presto Abelardo riprenderà ad insegnare e a scrivere, verrà accusato di eresia e costretto a gettare nel fuoco con le proprie mani un suo trattato, sarà condannato alla reclusione perpetua in un monastero, litigherà con l’abate, se ne andrà, fonderà un oratorio e lo amplierà intitolandolo allo Spirito Santo e chiamandolo Paracleto, subirà nuove persecuzioni, finirà a ricoprire il posto di abate nel monastero di Saint-Gildas in Bretagna: sempre comunque seguito dalla fama e da numerosi discepoli. Nel 1129, informato che Eloisa e le consorelle hanno dovuto lasciare il monastero, donerà loro il Paracleto: donazione che verrà confermata ufficialmente da una bolla papale nel 1131, che riconoscerà anche in Eloisa la prima superiora.  

Eloisa è un’ottima badessa, e sotto la sua guida la comunità prospera: Abelardo si interessa degli affari del Paracleto, veglia sulle sorelle, si rifugia da loro in cerca di pace per sfuggire alle difficoltà dei suoi rapporti con i monaci del Saint-Gildas. Sennonché, le sue frequenti visite vengono male interpretate, e, sotto il peso di quelle che egli chiama calunnie, Abelardo è costretto ad interromperle. Nel suo monastero vive giorni da incubo, costretto com’è a guardarsi dalle «brutali e subdole congiure» dei confratelli: come egli stesso racconta, più volte tentano di avvelenarlo, una volta persino versando veleno nel calice della Messa. Con pochi monaci, lascia allora l’abbazia e si rifugia in un piccolo eremo: ed è qui che, in preda allo sconforto, compone l’Historia calamitatum, ovvero il racconto di tutta la sua vita fino a quel momento. In seguito, continuerà la sua carriera tumultuosa, finché, scomunicato e viste distruggere le sue opere, bruciate pubblicamente a Roma nella chiesa di S.Pietro in Vincoli, andrà a trascorrere i suoi ultimi mesi a Cluny, presso Pietro il Venerabile, e morirà lì vicino, in un piccolo monastero in campagna, dove Pietro l’aveva mandato a curarsi.  

Informata della sua morte, Eloisa, per mantenere una promessa fatta all’antico amante tanti anni prima, prega Pietro di poter avere presso di sé al Paracleto le spoglie di Abelardo e Pietro l’accontenta. Eloisa vive ancora ventidue anni, morendo nel 1164 alla stessa età di Abelardo, e viene sepolta nella cripta al suo fianco: la leggenda narra che, quando venne deposta accanto a lui, Abelardo tese le braccia per accoglierla e la abbracciò strettamente.   

 

Fra le opere di Abelardo, l’Historia calamitatum è sicuramente la più famosa, soprattutto perché diede l’avvio al bellissimo epistolario con Eloisa: capitò infatti per caso nelle mani di Eloisa, che, dopo averla letta, ruppe quello che doveva essere stato un lungo silenzio e, definendosi «la sua ancella, anzi figlia, la sua sposa, anzi sorella»,  scrisse una intensa lettera indirizzata «al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello». Eloisa definisce Abelardo il suo «unico bene», il «padrone» non solo del suo corpo ma anche della sua anima, si angoscia nel saperlo in pericolo, gli ricorda la grandezza del debito che lo lega a lei e alle consorelle per aver dato vita alla loro comunità, ma nel contempo si dichiara stupita e addolorata del fatto che Abelardo abbia sentito il bisogno di scrivere ad un amico e non a lei: lei che ha avuto tanta parte nella sua vita, che è la sua sposa, che, per lui, ha accettato di seppellire in un chiostro la propria giovinezza: «Come solo tu puoi farmi soffrire, così solo tu puoi rasserenarmi e consolarmi. È un tuo dovere, perché io ti ho sempre obbedito con fervore, ha sempre fatto ciò che tu mi dicevi di fare, tant’è vero che, non potendo farti torto in alcun modo, non ho esitato, ad un tuo ordine, neppure a perdere per sempre me stessa. Ma sono andata anche oltre. Può sembrare strano, ma ero talmente pazza d’amore che ho rinunciato perfino all’uomo che amavo, senza alcuna speranza di poterlo un giorno riavere; una tua parola è bastata perché con l’abito mutassi anche il cuore; e con questo ho voluto dimostrarti che tu eri l’unico padrone non solo del mio corpo ma anche della mia anima. In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te   – confessa senza alcuna forma di pudore –, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non ti ho chiesto patti nuziali né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E, anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tento più credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria. […] Sono colpevole, colpevole sotto ogni aspetto, ma sono anche innocente, completamente innocente, tu lo sai bene, perché la colpa non sta nelle conseguenze del gesto, ma nell’intenzione di chi lo compie: la giustizia valuta non l’atto in sé, ma il pensiero che ha ispirato l’atto. E a questo punto solo tu che li hai provati puoi giudicare e valutare i sentimenti che ho nutrito per te. […] Dimmi soltanto, se puoi, perché, dopo il nostro ritiro in convento, ritiro che tu solo hai deciso, hai cominciato a trascurarmi tanto e a dimenticarti tanto di me, al punto che né mi vieni a trovare né mi scrivi. Rispondimi, ti prego, se puoi, altrimenti sarò costretta a dire io quello che penso, o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l’affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica e non amore, e, quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni di affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni. […] Tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell’austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per obbedire ad un tuo preciso ordine: e ora giudica tu a cosa mi è servito tutto ciò, se tu non mi degni neanche di una parola. […] Se tu fossi meno sicuro del mio amore, carissimo, forse ti preoccuperesti di più e saresti più sollecito. Ma ho fatto tanto per renderti sicuro del mio amore, ed ora ti sento indifferente e lontano. Ricordati però, ti scongiuro, di tutto quello che ho fatto per te, e pensa un po’ anche a quello che mi devi. Finché io godevo con te i piaceri della carne, qualcuno poteva domandarsi se lo facessi per amore o per soddisfare la mia voglia: ma ora il risultato ultimo di tutto dimostra quale fosse in realtà il sentimento che mi animava fin dall’inizio. Ho rinunciato a qualsiasi forma di piacere per attenermi alla tua volontà: per me non ho serbato nulla, se non la possibilità di essere tua, solo tua».  

La lettera scuote e turba Abelardo, ma la sua risposta – «Ad Eloisa, sorella carissima in Cristo, Abelardo, suo fratello in Cristo» –, pur se velata di rispetto e tenerezza, è controllata, per certi versi intransigente: le assicura di non averla mai dimenticata; afferma di non averle scritto perché pensava che lei – una donna «cui Dio ha dato tutto quello che poteva servirle» – non avesse bisogno di alcun aiuto, né di consigli, né di conforto; esalta con numerosi esempi biblici l’efficacia della preghiera e le chiede di pregare per lui, anche in virtù del suo essergli stata moglie, «perché io – afferma – ti appartengo»; la esorta ad unirsi alle consorelle nel chiedere a Dio che lo protegga dai pericoli che lo circondano a Saint Gildas; le esprime il desiderio di essere sepolto al Paracleto. Rivolgendosi infine non solo a lei, ma  a tutte le «sorelle», scrive: «Di una cosa, per finire, soprattutto vi prego: le ansie e le preoccupazioni che oggi vi angosciano forse anche troppo, al pensiero dei pericoli che corre il mio corpo, diventino, quando non ci sarò più, una ben più viva preoccupazione per la salvezza della mia anima: così, attraverso il prezioso soccorso delle vostre speciali preghiere, mi testimonierete veramente, quando sarò morto, tutto il bene che mi avete voluto mentre ero vivo. Vivi in salute, e in pace vivete, care sorelle, ma in Cristo conservate, vi prego, memoria di me».  

Di fronte al tono elusivo della lettera e al presagio di morte con cui la stessa si chiude, Eloisa non sa più trattenersi e, in una lunga lettera (che peraltro pare interrotta, mancando di qualsiasi formula di commiato) dà libero sfogo ai suoi sentimenti e al suo amore per «colui che è tutto per lei dopo Cristo», per quello che è il suo «unico bene». Dopo averlo ripreso per essere andato contro le regole dello stile epistolare, ponendo il nome di Eloisa davanti al proprio, lo rimprovera per avere accresciuto la disperazione sua e delle consorelle, agitando lo spettro della propria possibile morte che per loro tutte è già un morire; riferendosi a se stessa, «più infelice e più disgraziata di chiunque altra», lamenta la crudeltà di Dio; ricorda quanto il destino si sia accanito nei propri confronti, avendola resa «la più felice di tutte» solo per gravarla poi di una disperazione infinita; riflette sul «capovolgimento dei valori consueti» che ha segnato la storia sua e di Abelardo, entrambi risparmiati dalla severità divina quando, amanti, si abbandonavano alla «fornicazione», e colpiti invece dalla collera del Signore una volta legittimata la loro unione col sacro vincolo del matrimonio; si dispera per essere stata lei la causa dell’offesa arrecata al corpo di Abelardo, costretto a pagare, lui solo, per quello che era stato il peccato di entrambi; citando passi biblici, si lascia andare ad una digressione sulle donne «causa della rovina degli uomini grandi», ma, a differenza di quelle donne,  rivendica la propria totale estraneità alla rovina di Abelardo, la propria innocenza di fronte alla efferata violenza perpetrata contro di lui; confessa di non sapere come espiare la colpa iniziale di essersi abbandonata «ai piaceri della carne e alle lusinghe dei sensi», perché non riesce a strappare dall’anima i propri desideri, né riesce ad accettare la crudeltà della punizione inferta da Dio ad Abelardo. «Per me, in verità – scrive –, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi, e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Persino durante la santa Messa, quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi ad essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro rimpiangendo quello che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi. Talvolta, da un movimento del mio corpo o da una parola che non sono riuscita a trattenere, tutti capiscono a cosa sto pensando». Per Abelardo – continua – è stato più facile guarire dalle ferite dell’anima, perché la ferita ricevuta sul corpo lo ha di fatto liberato da tutti gli stimoli peccaminosi: ma, contrariamente a lui, lei è «giovane, facile preda delle lusinghe del piacere», e il ricordo dei piaceri conosciuti raddoppia il suo desiderio. Confessa infine l’insincerità della propria conversione religiosa, perché la verità è che, in tutto il corso della sua vita, ha sempre temuto più di offendere Abelardo che Dio; che, dietro ordine di Abelardo e non per aver sentito la voce di Dio, ha preso i voti: «La mia abilità nel fingere – scrive ancora – ti ha a lungo tratto in inganno, come del resto ha ingannato tutti: anche tu, come tutti, hai attribuito a un sentimento di devozione religiosa quello che altro non era se non ipocrisia: e così ti sei raccomandato alle mie preghiere, ma non sai che quello che tu chiedi a me, io lo aspetto da te. Non sopravvalutare i miei reali meriti, ti prego. Non smettere neanche per un attimo di aiutarmi con le tue preghiere: io non sono affatto guarita, non posso fare a meno dell’aiuto della tua medicina. […] Evita, dunque, di lodarmi continuamente, ti prego, se non vuoi apparire un volgare adulatore o un perfido bugiardo. Del resto, se proprio ti sembra di trovare in me qualche cosa di buono, bada che le tue lodi non lo spazzino via al soffio della vanità. […] Le tue lodi per me sono tanto più pericolose quanto più mi suonano gradite: e quanto più cerco di piacerti in tutto più ti credo e mi sento lusingata. Nei miei confronti è sempre meglio, ti prego, che tu pecchi di sfiducia, perché così non mi lascerai mai mancare la tua affettuosa sollecitudine».  

Abelardo reagisce molto duramente: citando a più riprese San Girolamo, l’Antico Testamento, i Vangeli, San Gregorio, Sant’Agostino, gli Atti degli apostoli, risponde, ad una ad una, a tutte le obiezioni di Eloisa; le spiega che la volontà di Dio è imperscrutabile, che Dio non li ha puniti ma li ha salvati, e che bene ha fatto ad inviare loro il castigo quando avevano ormai regolarizzato la loro relazione: «Un giorno, poco dopo il nostro matrimonio – racconta –, quando vivevi nel monastero di Argenteuil presso le monache, venni a trovarti in segreto, e certo ricordi a quali eccessi mi sia lasciato andare con te in quell’angolo del refettorio, visto che non avevamo nessun altro posto dove andare. Ricordi, voglio dire, come la nostra impudicizia in quell’occasione non abbia avuto rispetto neppure per un luogo sacro, per di più consacrato alla Vergine. Questo, anche se non avessimo altre colpe da rimproverarci, sarebbe di per sé degno di un castigo ben più grave. Ma non è certo il caso che stia a ricordarti tutte le cose sconce e vergognose, tutti gli atti immorali, tutte le sozzure che hanno preceduto il nostro matrimonio. Ed è inutile che ti parli dell’atroce tradimento che ho perpetrato nei confronti di tuo zio, approfittando della sua fiducia, del fatto stesso che mi aveva accolto in casa sua, per sedurti in modo così turpe. […] Tu sai anche che, quando ti ho portata al mio paese ormai incinta, ti sei travestita da monaca, indossando un abito consacrato, e che allora, con quel travestimento, ti sei presa gioco in modo irriverente della condizione di quelle monache di cui oggi anche tu fai parte. Di fronte a questo, pensa se non ha fatto bene la giustizia divina, anzi la grazia divina, a farti abbracciare, anche se non volevi, quegli ordini religiosi di cui ti eri burlata.[…] Per quello che ci è successo non si può parlare solo di giustizia, ma di grazia di Dio. Pensa, infatti, mia cara, pensa da quali profondi abissi, da quale pericolosissimo mare ci ha salvato il Signore con le reti della sua misericordia […] Dio, nella sua misericordia, si è servito della sua giustizia per rimetterci sulla retta via, ha saputo trarre il bene anche dal male, ha sfruttato per giusti fini anche la nostra empietà, in modo che la ferita così giustamente inferta a una sola parte del mio corpo è valsa a guarire due anime in una volta sola. […] Tu sai a quale turpe schiavitù aveva asservito i nostri corpi la mia sfrenata passione: non c’era alcuna forma di decenza e alcun rispetto per Dio, neppure nel giorno della sua morte in croce e neanche in occasione delle più grandi solennità, che potesse impedirmi di rotolarmi in quel pantano. Quando tu non volevi e ti opponevi o cercavi di dissuadermi come potevi, visto che eri la più debole, io ricorrevo anche alle minacce e alle percosse per forzare la tua volontà. Ormai ti desideravo con tanto ardore che, per soddisfare quelle misere e sconce voluttà che ora mi vergogno perfino di nominare, avevo dimenticato tutto, e Dio e me stesso. Mi sembra che, per salvarmi, la clemenza di Dio non poteva fare altro se non impedirmi per sempre di godere quei piaceri. Tutto è andato come doveva andare». E bene ha fatto Dio ad unirli in matrimonio, a far sì che Eloisa diventasse la sua inseparabile compagna, perché, uniti, potessero meglio ritrovare la strada della salvezza: ché, se lei non gli fosse stata unita in matrimonio, dopo la propria fuga dal mondo sarebbe rimasta attaccata alle cose del mondo, «per le lusinghe dei piaceri della carne». «Con il colpo inferto al mio corpo – continua più avanti –, Dio mi ha liberato una volta per tutte dall’ardore della passione da cui ero soffocato […] Quanto a te, invece, abbandonando a se stessa la tua giovinezza, lasciando la tua anima in preda agli stimoli della carne, ha voluto rinnovarti la corona del martirio». Abelardo non si pone alcun limite nel dipingere nel modo più sordido ciò che c’è stato fra loro, affermando così di non averla mai amata, ma soltanto desiderata per sé («Il mio amore, l’amore che ci trascinava al peccato, era attrazione fisica, non amore. Con te io soddisfacevo le mie voglie, e questo era quello che amavo di te»), e contrapponendo il proprio miserevole desiderio a quello che è il vero amore di Cristo («È Cristo che ha sofferto per salvarti, che ha sofferto volontariamente per te e con la sua sofferenza ha guarito tutte le debolezze, ha eliminato tutte le sofferenze»). La lettera si chiude con l’invito a supplicare il Signore per lui, recitando la preghiera che egli stesso ha composto e che le invia, e il commiato recita freddamente: «Salute in Cristo, sposa di Cristo, in Cristo salute e vita. Amen».  

A Eloisa non resta che adeguarsi. Nella lettera successiva, gli comunica che, per obbedirgli, eviterà per sempre di parlare di cose su cui non sarebbe in grado di controllarsi e porrà un freno al libero sfogo del suo dolore: ma, già nella iniziale formula di saluto, giocando con termini usuali nelle colte dispute logiche, si ribella alla volontà di Abelardo, ribadendo che, se lui vuole appartenerle solo nella sua veste si servo di Cristo, lei continua ad appartenere a lui come persona («A colui che è suo secondo la specie, colei che è sua singolarmente»). Gli fa quindi richieste ‘da monaca’, invitandolo ad erudire lei e le consorelle sulla storia del monachesimo femminile, e  dilungandosi a trattare dei requisiti cui deve rispondere una regola per gli ordini monastici femminili – regola che prega Abelardo di redigere per lei –. Sennonché, da ogni sua parola e dalle innumerevoli citazioni di cui è costellato il testo, trapelano non solo l’usuale padronanza della retorica e la grande cultura classica e religiosa, ma anche, e soprattutto, la sua indomita libertà di pensiero: nella descrizione delle problematiche presenti all’interno di una comunità monastica femminile; nella equiparazione dei religiosi laici ai monaci e nell’affermazione che la loro condizione di uomini sposati non ne infirma la religiosità; nell’insistenza con cui il tema della ‘debolezza femminile’ è legato al problema dei voti monacali presi sconsideratamente; nelle aperte critiche rivolte al disordinato modo di vita e alla rilassatezza di costumi riscontrabili nei conventi maschili; nello scarso valore attribuito alle pratiche esteriori; nelle riflessioni sulla differenza fra la virtù e l’ostentazione della virtù, sulla castità che è virtù dell’anima e non del corpo, sul matrimonio che nulla toglie alla castità interiore, sull’importanza delle intenzioni, ecc. (traduzioni tratte da Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo e Eloisa, a cura di F. Roncoroni, Garzanti 2003).  

Manifestamente sollevato, Abelardo si affretta ad accontentarla, trattando, nella lettera di risposta, dell’origine del monachesimo femminile, e tracciando in un’altra, altrettanto lunga, una vera e propria Regola per le religiose.  

Questo gruppo di lettere, numerate diversamente a seconda che si consideri come prima la Historia calamitatum (Lettere I-VIII), o la lettera di Eloisa che dà in affetti avvio alla corrispondenza (I-VII), costituisce un unico complesso, databile agli anni 1134-1135. Abbiamo poi una breve lettera di Eloisa, con cui prega Abelardo di risolvere per lei e le consorelle quarantadue Problemata relativi a diversi passi dei testi sacri, e quattro lettere di Abelardo in risposta a lettere di Eloisa per noi perdute: una per accompagnare l’invio di una serie di Sequenze e di Inni, una per accompagnare i Sermones, una nota come Fidei confessio (una vera e propria professione di fede), una per accompagnare l’Expositio in Hexaemeron (ovvero il commento al libro della Genesi).     

 

Come si può facilmente constatare, dalla corrispondenza fra i due amanti emana un fascino eccezionale: in essa sono infatti presenti inaspettati tratti di modernità, e vi si coglie una libertà di pensiero e di espressione che non può non stupire, soprattutto alla luce dei pregiudizi sulla mentalità medievale e sul ruolo della donna all’epoca. Non a caso, dunque, il problema dell’autenticità dell’Historia e del carteggio da essa scaturito fra Abelardo e Eloisa è stato negli anni estremamente dibattuto: data la natura della storia e delle lettere, è facile infatti comprendere come la questione dell’autenticità investa non soltanto la reale personalità storica dei due celebri amanti, ma tutto il modo di intendere il XII secolo. Avanzando ipotesi diverse, questa autenticità è stata messa in dubbio da alcuni studiosi: c’è chi ha sostenuto, ad esempio, che le lettere sarebbero state scritte da un ammiratore di Abelardo ed Eloisa dopo la loro morte; chi ha attribuito ad Eloisa la rielaborazione dell’intero carteggio, e chi, al contrario, ha ritenuto Abelardo l’unico autore; infine, chi, pur ammettendo l’impossibilità di arrivare a conclusioni sicure, ha voluto considerare come parzialmente false almeno le prime due lettere di Eloisa – che sarebbero state rielaborate da un autore ignoto –, perché considerate inconcepibili per una donna e una monaca. In ogni caso, oggi, dopo alterne vicissitudini, l’analisi critica – filologica, filosofica, psicologica – propende con decisione verso la tesi dell’autenticità: indagini su documenti e testi dei secoli XII-XIV hanno peraltro dimostrato che i contemporanei e gli immediati successori di Abelardo ed Eloisa consideravano con grande benevolenza e comprensione la loro vicenda, dimostrando implicitamente di coglierne la ‘normalità’ o quantomeno di accettarne le implicazioni; e la figura di Eloisa appare così in tutta la sua grandezza e ‘attualità’ pur rimanendo profondamente legata al suo secolo.   

 

«Un amore che ha attraversato il tempo», «una storia di passione», «un amore impossibile» sono solo alcune delle definizioni che accompagnano il racconto delle vicende di Abelardo ed Eloisa, ma, nel definire la loro come «una storia d’amore», non si può dimenticare da quanta e quale violenza fu segnata la vita di Eloisa: non si può dimenticare che, dietro a quello definito come amore, si nasconde in realtà la storia di una violenza. Anche a non voler considerare come atto di violenza l’iniziale opera di seduzione compiuta da Abelardo nei confronti di una adolescente – ché coppie composte di maestro e allieva non erano all’epoca cosa rara –; anche a non voler riconoscere come deliberata violenza le percosse che Abelardo, in più di un’occasione, confessa di averle inferto, gli abusi emotivi e gli atti coercitivi a cui dovette piegarsi Eloisa riconducono ad una manipolazione emotiva indubbiamente qualificabile come violenza psicologica: è per comando di Abelardo che Eloisa prende il velo, è per obbedire a lui che sacrifica la sua giovinezza in un convento rinunciando ad ogni forma di piacere; sono ferite inferte da Abelardo il suo silenzio e la sua assenza che è anche assenza di parole; è lacerante il modo in cui Abelardo distrugge ciò che c’è stato fra loro, riconducendo tutto ad una esecrabile schiavitù dei sensi; è una sorta di gioco crudele la sua continua alternanza di rimproveri e lodi; è un atto di coercizione impedire ad Eloisa persino di dare sfogo con le parole al proprio dolore…   

 

Se nulla si può togliere alla grandezza culturale di Abelardo, al vigore del suo pensiero, alle sue intuizioni di metodo, alla forza innovativa e all’importanza della sua produzione teologico-filosofica,  è sul piano umano che la sua figura appare meno grande. L’immagine che egli stesso ci dà di sé, nell’ Historia e nelle lettere ad Eloisa, è un’immagine autocelebrativa, è l’immagine di un uomo fortemente consapevole e compiaciuto di se stesso e della propria bravura. Nonostante diversi squarci di obiettività, la ricostruzione che egli opera della propria vita appare in complesso fortemente apologetica: invidia, diffamazione, calunnie e persecuzioni che lo colpiscono sono il leit-motiv dell’intera narrazione; Abelardo è sempre circondato da nemici; il suo primo maestro, Guglielmo di Champeaux, non accetta le sue critiche e non esita a ricorrere a sotterfugi per relegarlo lontano da Parigi; la sua sicurezza e le sue capacità gli procurano lo sdegno e l'invidia degli altri discepoli, dando così il via alle sue disgrazie. Anselmo di Laon, di cui è andato ad ascoltare le lezioni di teologia, più che avere una effettiva preparazione, si giova di una lunga pratica, ma, ascoltandolo a lungo, ci si avvede della sua nullità; i discepoli di Anselmo, con le loro perfide insinuazioni, glielo rendono nemico; il proprio successo accresce l'invidia di Anselmo stesso nei suoi confronti. L'abbazia di Saint-Denis è mondana e corrotta; l'abate è il primo per dissolutezza e scostumatezza; di fronte alla giusta espressione del proprio biasimo, Abelardo diventa odioso e insopportabile ai compagni. A Saint-Gildas, i monaci conducono una vita sconcia, in mezzo ad una popolazione rozza e volgare… Ciononostante, fin dagli inizi della propria 'carriera', tutti quelli che vogliono apprendere l'arte della dialettica aspettano Abelardo con ansia; tutti quelli che lo ascoltano lo approvano incondizionatamente; ben presto la sua fama supera quella del maestro. Quando parla di una sopravvalutazione delle proprie capacità, Abelardo usa sempre l'avverbio «forse» (forse egli ha sopravvalutato le proprie reali capacità quando ha deciso di dirigere una scuola a Melun; forse le ha sopravvalutate quando l'ha trasferita a Corbeil: forse, ma…non necessariamente!). Persino alle origini del suo 'peccare' ci sono, sì, la superbia e la lussuria che lo divorano, ma c'è anche la forte consapevolezza del proprio indiscutibile fascino. E nella descrizione del rapporto 'peccaminoso' con Eloisa c'è, sì, la censura della propria pazzia, ma c'è anche una sorta di autocompiacimento per la non banalità del rapporto stesso, per i gesti non usuali, per taluni eccessi, e anche per le decisioni prese da lui unilateralmente: come quando, ad esempio, senza nemmeno rendersi conto dell'incongruenza, scrive che Eloisa prese «spontaneamente il velo» dietro suo comando.  

Quanto ad Eloisa, le sue lettere ad Abelardo, e in particolare le prime due, le hanno dato un posto nella letteratura universale: con la sua convinzione profonda della potenza della parola e con le sue parole potenti è lei – molto più che Abelardo – ad aver dato una dimensione quasi mitica alla loro storia, ed è quindi soprattutto grazie a lei se quella storia ha conquistato l’immaginario europeo ed è sopravvissuta al tempo. Il modo onesto e innocente in cui Eloisa mostra i propri conflitti interiori, la voglia di vita che al di là di tutto non la abbandona mai e che trova espressione in ogni sua frase, la sua capacità di reagire e resistere ad ogni forma di annichilimento, la sua formazione intellettuale e la sua ansia di uscire dai confini di un’epoca fanno di lei una figura umanamente straordinaria.     

 

Se pure è vero che l’evirazione di Abelardo ci appare barbara nella sua crudeltà e la mutilazione del suo corpo ferisce la nostra sensibilità, non meno sconvolgente deve essere considerata la mutilazione dell’interiorità, la mutilazione dell’anima e dei desideri, che Eloisa fu costretta a subire: anche a questo dovrebbero pensare gli innumerevoli visitatori del famoso cimitero parigino di Père-Lachaise, che ancora oggi si fermano romanticamente davanti alla tomba in cui dal novembre del 1817, dopo varie riesumazioni e traslazioni, sono sepolti i due amanti.   

 

Le spoglie di Abelardo ed Eloisa furono riesumate per la prima volta nel 1497, a distanza di più di tre secoli dalla morte di Eloisa,: sembrando in qualche modo disdicevole che fossero sepolti insieme, Abelardo ed Eloisa ebbero allora due tombe diverse, rispettivamente collocate ai lati del coro nella chiesa dell’abbazia del Paracleto; successivamente, nel 1630, le spoglie furono trasferite sotto l’altare maggiore, per volontà dell’allora badessa; nel 1767 fu costruita una nuova tomba e le spoglie furono nuovamente traslate. Nel 1792 la rivoluzione francese abbatté il Paracleto: le spoglie di Abelardo ed Eloisa furono esumate, deposte vicine in un unico feretro, pur se separate da un tramezzo di piombo, e il feretro fu collocato in un sotterraneo della cappella di Saint-Léger; nel 1800 le spoglie furono portate nel giardino del Museo di Francia, in una cappella costruita coi resti del Paracleto e dell’abbazia di Saint-Denis; nel 1815, il governo concesse al Monte di Pietà un vasto appezzamento prima assegnato al Museo, e la tomba, pur rimanendo al Museo, fu spostata in un cortile. Nel 1817, infine, le spoglie furono trasportate nel cimitero di Mont-Louise, in una delle sale di un antico palazzo, e vi rimasero circa cinque mesi prima di essere definitivamente traslate nel cimitero di Père-Lachaise e collocate nella stessa cappella del Museo lì rimontata.