Come si è già avuta occasione di scrivere, Christine de Pizan – nota soprattutto per il suo libro La cité des dames (La città delle dame), che, composto attorno al 1405, confutava gli stereotipi e i pregiudizi attorno alla natura del sesso femminile, rivendicando nel contempo i bisogni intellettuali e il diritto all’istruzione delle donne – fu la prima donna ad affermare apertamente la sua identità di autrice, rivolgendo la sua scrittura anche a generi tradizionalmente maschili, e segnando di fatto l’ingresso della donna nel campo delle lettere.
Ma anche dopo Christine de Pizan, e anche col trionfo dell'umanesimo, lo spazio letterario non assume per la donna quelle dimensioni ampie che ci si sarebbe potuti attendere. Abbiamo ricordato come, già nel XVI secolo, non fosse nuovo il riconoscimento del posto che spettava alle rimatrici nella grande fioritura della lirica, ma anche come, di fatto, nelle varie storie della letteratura italiana, per l’età umanistica siano generalmente ricordate solo Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Gaspara Stampa: solo tre scrittrici, a fronte di una letteratura femminile ben più ampiamente rappresentata. A non voler parlare delle religiose, come ad esempio Caterina Vigri, o Camilla Battista Varano, autrici quali Alessandra Macinghi Strozzi, Isotta Nogarola, Laura Cereta, Barbara Torelli, Cassandra Fedele, Isabella Morra, Olimpia Morata, Tullia d'Aragona, Laura Terracina, Chiara Matraini, Laura Battiferri, Francesca Turrini Bufalini, Veronica Franco, Isabella Andreini… per molto tempo sono state tutte cancellate dal panorama letterario, o relegate al ruolo di ‘minori’ (vedi Sulpicia…e le altre). Vero è che i loro scritti – sia quelli più numerosi in volgare sia quelli in latino – possono apparire non particolarmente significativi, ma hanno comunque un grande valore di testimonianza, soprattutto se letti in un’ottica femminista. Al di là delle diverse personalità, delle diverse scelte di vita, dei diversi ambienti intellettuali di riferimento, le tematiche prevalenti sono quelle di tipo familiare e religioso; spesso la scrittura sembra rispondere ad un bisogno interiore, e, conseguentemente, i generi letterari più diffusi sono poesie ed epistole, anche se alcune scrittrici, come ad esempio Isotta Nogarola e Cassandra Fedele si cimentano con generi diversi.
Basti dire che Vittoria Colonna consacrò il suo pensiero e la sua poesia alla memoria del marito, e visse con grande fervore i problemi religiosi connessi alla Riforma, stringendo relazioni con letterati, artisti e pensatori religiosi; Veronica Gambara cantò nei suoi versi il marito, sia mentre era in vita che dopo la sua morte; le rime di Gaspara Stampa assumono quasi il carattere di un diario o di un romanzo d'amore, e ai versi sono spesso affidati i suoi stati d'animo mutevoli; di Alessandra Macinghi Strozzi abbiamo un corpus di lettere scritte ai figli lontani; Barbara Torelli sembra aver composto un unico mirabile sonetto per la morte del secondo marito, Ercole Strozzi, assassinato pochi giorni dopo le nozze; una sorta di canzoniere autobiografico dai forti accenti poetici ed umani è quello che si deve a Isabella Morra; ugualmente di stampo per così dire intimista appaiono i versi di Tullia d'Aragona, Chiara Matraini e Laura Battiferri. Poesia di confessione è in parte quella di Isabella Andreini; cantrice di affetti è, almeno in parte, Francesca Turrini Bufalini, alla quale si devono anche poesie sacre, e, prima di lei, tematiche morali e religiose si trovano presenti nei versi di Laura Terracina. Pur se di natura per così dire più intellettuale, abbiamo le epistole di Isotta Nogarola, indirizzate a uomini di lettere e politici, il cui tema prevalente è quello della difesa del sesso femminile; e ancora, le epistole latine di Laura Cereta, che circolavano negli ambienti elitari dei circoli di Brescia, Verona, Venezia e Pavia; e poi quelle – sia in italiano che in latino – di Cassandra Fedele, che testimoniano dei suoi forti legami con umanisti del tempo, con letterati alla corte di Lorenzo de' Medici, con gruppi intellettuali dell'università di Padova, e anche con la corte aragonese di Spagna; e infine quelle di Veronica Franco, con la sua sincerità di cortigiana.
A questa breve panoramica va aggiunto il nome della ferrarese Olimpia Morata, un personaggio sicuramente molto interessante, se non altro per le sue tragiche vicende biografiche, che si intrecciano con la storia del movimento Riformatore a Ferrara. Di lei ci restano alcuni scritti giovanili e, soprattutto, l’Epistolario.
«Puella supra sexum ingeniosa» è la definizione che di Olimpia ci offre Lilio Gregorio Giraldi, nel secondo dei suoi Due dialoghi sui poeti dei nostri tempi (Dialogi duo de Poetis nostrorum temporum), opera stampata per la prima volta a Firenze nel 1551. La citazione è tratta da un passo più ampio, in cui si parla anche del padre Pellegrino Morato.
Siamo a Ferrara, agli inizi dell’agosto del 1548. Anna d’Este sta per andare in sposa al duca Francesco di Guisa. Alcuni amici si recano in visita da Lilio Gregorio Giraldi. Il discorso cade inizialmente sulle nozze, ma ben presto si volge ad altro: dall’incontro, scaturisce infatti la volontà di svolgere, tutti assieme, una rassegna dei poeti contemporanei. Onde evitare di ripetere cose già dette, viene preliminarmente riletto un vecchio dialogo sui poeti italiani, scritto dal Giraldi stesso attorno agli anni 1513-1515, nel suo periodo romano; sotto forma di un nuovo dialogo fra i convenuti, si procede quindi alla rassegna dei poeti stranieri e degli italiani più recenti. Ed è fra questi ultimi che Giraldi ricorda Olimpia Morata, «una giovane – dice – di ingegno superiore in relazione al suo sesso. Non contenta del volgare, ella ha infatti perfezionato in maniera eccellente la propria conoscenza delle lettere greche e latine, tanto da apparire come un prodigio a quasi tutti coloro che l’ascoltano».
Nell’agosto del 1548, Olimpia Morata aveva ventidue anni.
Era una giovane donna, già molto ammirata e lodata per la sua cultura.
Oltre che in questo passo dei Dialoghi del Giraldi, in momenti diversi le sue lodi sono tessute, fra altri, da Celio Calcagnini e da Celio Secondo Curione. Il Calcagnini, in una lettera a Pellegrino Morato datata 1534, la chiama Delia puella (fanciulla di Delo, patria di Apollo protettore delle Muse); in una lettera successiva, indirizzata alla stessa Olimpia, le si rivolge come a novella Diotima (la filosofa greca del V secolo a. C., figura magistrale di donna sapiente, con un ruolo rilevante nel Simposio platonico) e Aspasia (la concubina di Pericle, donna colta e nota per la sua saggezza, tanto che consigliava Pericle nelle scelte politiche). Diceva di lei che aveva succhiato assieme al latte l’amore per la poesia, e che, per una sorta di magia, quello stesso latte aveva nutrito il suo corpo e formato il suo spirito; ne lodava il pudore e la modestia.
Curione, che l’aveva udita, appena adolescente, declamare in latino e improvvisare in greco, che l’aveva sentita spiegare i paradossi dei più celebri oratori e non lasciare senza risposta alcuna domanda che le fosse rivolta, in una lettera indirizzata ad un amico affermava che, a buon diritto, la si paragonava alle dotte vergini dell’antichità greco-romana.
Attorno al 1548/49, Gaspare Sardi dedicava a lei un trattatello filosofico (Libellus Olympiadi Moratae De triplici philosophia inscriptus), per offrire una risposta e una guida alla sua crescente passione per la filosofia: una passione di cui il Sardi aveva compreso la nuova intensità e forse i rischi, leggendo una epistola in greco di Olimpia a lui indirizzata.
Nata nel 1526, Olimpia aveva trascorso una fanciullezza felice fra gli affetti familiari e gli studi; dotata di una particolare e precoce intelligenza, fin dai suoi primi anni aveva appreso il latino e il greco sotto la guida del padre e dei fratelli tedeschi Chiliano e Giovanni Sinapi; per la fama della sua precocità e del suo sapere, ancora bambina poteva già contare su numerosi ammiratori fra i letterati.
A quattordici anni, nel 1540, per intercessione di Celio Calcagnini, era stata scelta come compagna e amica di Anna d’Este e, a corte, aveva avuto modo di dedicarsi pienamente ai suoi interessi letterari e filosofici, approfondendo anche la sua conoscenza dei classici.
Da una lettera dello stesso Calcagnini, sappiamo che la sua prima prova letteraria a corte fu, fra il’40 e il ’41, la composizione di una orazione In difesa di Cicerone (Defensio pro Cicerone), purtroppo perduta. Allo stesso scorcio di tempo risale un carme greco che ha per oggetto l’amore per gli studi. Di poco posteriori (sicuramente anteriori al 1542) sono i tre Proemi ai Paradoxa di Cicerone; immediatamente successiva (1542-43) è la Lode di di Q. Muzio Scevola (Laus Q. Mutii Scevolae); di datazione più incerta, anche se realizzata comunque in adolescentia, è la traduzione delle prime due novelle del Decameron del Boccaccio; del 1547, il carme greco per la morte di Pietro Bembo. Anteriori al 1548 sono infine sicuramente sei epistole, di cui le prime tre indirizzate a Chiliano Sinapi, la quarta al padre Pellegrino, le ultime due a Giovanni Sinapi.
Nel complesso, la produzione giovanile di Olimpia è certamente ridotta, o, in ogni caso, è ben poco quello che ci resta, ed è una produzione che sicuramente non giustifica, da sola, i giudizi entusiastici espressi dal Calcagnini, dal Curione, dal Giraldi e da altri letterati. Riguardo ai Proemi, Lanfranco Caretti (Olimpia Morata, Opere, voll. 2, Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria, Ferrara 1954), parla giustamente di «convenzionalità e scolasticismo», di «tono piatto e uniforme, rotto solo a tratti da qualche immagine vivacemente mossa»; nella Laus la «scioltezza del discorso» – dice – rivela semplicemente «una già esperta padronanza di linguaggio», una «maggiore armonia, uno stile più continuo e sorvegliato»; i due carmi greci sono «d’ispirazione erudita e di tono classicheggiante»; le traduzioni delle novelle boccaccesche non sono da lui incluse nell’edizione in quanto il loro interesse «è limitatissimo» (vol. II, pp. 8-17). Fin troppo duro è peraltro il giudizio espresso sulla traduzione della prima novella da Gabriella Albanese: «La nuova latinizzazione del Ciappelletto, fondamentalmente un esercizio di apprendistato scolastico, si risolve per lo più in un calco inerte del testo volgare, trasposto meccanicamente nei terminali di un piatto latino di scuola» (La Fabula Zapelleti di Antonio Loschi, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, Antenore, Padova 1997, vol. I, pp. 3-59, p. 20, nota 41). «Una sorta di esercitazione scolastica» definisce le due traduzioni Donato Pirovano, pur se sottolinea come esse appaiano comunque «frutto di una personalità più matura, soprattutto per l’inedita impostazione della traduzione della novella di ser Ciappelletto e per le implicazioni riformiste disseminate nel testo» (Olimpia Morata e la traduzione latina delle prime due novelle del Decameron, in “ACME” (Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano), 51,1 (gennaio-aprile 1998), pp. 73-109, p. 79).
Ciò non toglie nulla al grande valore documentario di questa stessa produzione, sia sul piano strettamente letterario, sia su quello più significativo della ricostruzione di un percorso intellettuale, spirituale e religioso; può però indurre ad una più attenta riflessione sull’ammirazione che Olimpia era in grado di suscitare, nonostante l’acerbità palese delle sue realizzazioni letterarie: una ammirazione che di certo trovava la sua ragione prevalente nella conoscenza personale, nell’assidua frequentazione, nelle discussioni alle quali la giovane partecipava, nella luminosità della sua intelligenza precoce, nel suo fascino, nella sua apertura mentale, nei modi e nella qualità della sua presenza a corte, nella profondità e vastità dei suoi interessi. E questa inequivocabile ammirazione che induce a cercare, già nei suoi primi scritti, le tracce di una ricca e affascinante irrequietezza mentale: tracce che inequivocabilmente ci sono. Sotto la rigidità formale dell’erudizione, si intravede infatti un amore per i classici del tutto autentico, come autentici appaiono l’interesse per la filosofia e quello per l’eloquenza; per niente formali sono gli accenni ai temi della fortuna, della libertà, del rapporto fra apparenza e sostanza, della lotta fra ideali e realtà, fra fede e corruzione; particolarmente interessante è il tema dell’istruzione, che si riallaccia inevitabilmente a quello della condizione femminile e della diversificazione sessuale delle pratiche educative.
Sul tema dell’istruzione femminile, un accenno indiretto troviamo anche nella definizione di Olimpia da parte del Giraldi come puella supra sexum ingeniosa, in cui è sicuramente leggibile una rivendicazione della superiorità intellettuale maschile, o quanto meno della diversità di attitudini fra uomini e donne: rivendicazione maschile che, abbastanza frequente nella letteratura medievale, trova conferma anche in altri passi dei Dialoghi. Per il Medioevo, basti ricordare l’epistola 50 delle Epistolae duorum amantium, in cui l’uomo scrive alla donna «Il tuo ingegno, la tua eloquenza cominciano ad andare oltre i confini della tua età e del tuo sesso e ad acquistare un virile vigore» (su questo epistolario, vedi L’amore e la consapevolezza di sé: parole di donne fra XI e XII secolo). Quanto al Giraldi, scrive ad esempio che «fuere pene non viris inferiores / furono quasi non inferiori agli uomini» Vittoria Colonna e Veronica Gambara, «quorum utriusque pro sexus qualitate divina leguntur poemata / di entrambe le quali si leggono composizioni poetiche di qualità straordinaria, se si pensa al loro sesso». E aggiunge: «composizioni che sono dai più lette tanto più avidamente in quanto composte da matrone illustri». Di tono diverso, ma ugualmente significative per quanto concerne la visione della donna e le divisioni dei ruoli, sono, nel primo dialogo, le annotazioni relative a Bernardino Capella il Vecchio e ad Evangelista Maddaleni: dell’uno, si afferma che «avendo ancora […] la madre in vita, si diletta di interessi giovanili»; dell’altro, che sarebbe idoneo a coltivare le muse poetiche «se la moglie non lo obbligasse a dedicare il suo tempo più ai figli che ai libri».
E, se questo è un atteggiamento che, almeno a livello teorico, appare oggi censurabile, certamente non era vissuto così dai contemporanei e soprattutto non era percepito così dalla stessa Olimpia, che anzi lo condivideva, o quantomeno mostrava di condividerlo appieno, rivendicando però nel contempo la propria diversità.
Basti leggere il suo carme sull’amore per gli studi. Le persone – vi sostiene Olimpia – hanno qualità e attitudini diverse: lei, benché «nata femmina», ha abbandonato le attività tipicamente femminili e si è consacrata alle muse, distaccandosi «dalle altre donne» (Opere, II, p. 50). Lo stesso motivo è presente anche in una lettera a Chiliano Sinapi più o meno coeva, del 1540: «Le lettere – vi si legge – sono talmente superiori ad ogni altra attività umana che io mio chiedo quali femminili opere di filatura o di ricamo, quali fusi o quale ago – come tu dici – , potranno mai allontanarmi di grazia dalle più tranquille fra le Muse» (Opere, I, p. 57).
E doveva trattarsi di un suo atteggiamento ben noto, se è vero che Celio Calcagnini, in una lettera a lei indirizzata dopo l’ingresso a corte, le scriveva: «Ormai tu puoi dedicarti interamente ai tuoi studi preferiti, scambiare la conocchia con la penna, i tessuti di lino con i libri, il lavoro di cucito con l’esercizio dello scrivere». E ancora, in un’altra lettera: «Le giovanette della tua età, amano cogliere qua e là fiori primaverili e comporne variopinte corone; ma tu non hai raccolto quei fiori che vivono poche ore e in breve appassiscono, bensì hai colto dai fecondi giardini delle muse gli immortali fiori dell’amaranto, che hanno avuto il divino privilegio di non appassire mai, ma di godere anzi del beneficio degli anni, diventando ogni giorno più belli e più verdi» (Celio Calcagnini, Opera aliquot, Basilea 1544, pp. 205-206).
Questa era Olimpia nel felice periodo dell’adolescenza; queste erano le sue attitudini, i suoi interessi, i suoi desideri, il suo mondo interiore. Ben poco lasciava presagire in lei la futura crisi religiosa, la conversione, e soprattutto le drammatiche vicende che ne sarebbero derivate.
Fino al 1548, Olimpia aveva vissuto in un clima familiare e pubblico di grande vivacità culturale, caratterizzato da una grande libertà di opinione e da un diffuso interesse per la Riforma: sia nella casa paterna che a corte, nell’ambiente legato alla duchessa Renata di Francia, aveva respirato, assieme all’entusiasmo per l’antichità, l’atmosfera culturale della Riforma protestante. I suoi bisogni religiosi si erano affinati; aveva coltivato i dubbi, le pulsioni e le necessità della propria anima, mai disgiunti però dal piacere per le discussioni filosofiche e religiose che li accompagnavano, e sempre affiancati da un immutato amore per la classicità pagana. Scrive Caretti: «È certo che i tre proemi e la lode, oltre alla traduzione delle due novelle boccaccesche […] stanno a dimostrare che Olimpia aderiva all’ambiente in cui viveva: ambiente dotto, umanistico, anticattolico […] L’anima di Olimpia adolescente era imbevuta di spiriti classici e ciceroniani. Restando l’impressione di una specie d’indifferenza all’approfondimento dei problemi religiosi, e di una accoglienza non sempre ragionata e cosciente d’opinioni respirate nell’aria o attinte da una tradizione culturale appena scandagliata» (Opere, II, pp.9-10).
Sennonché, è proprio con il 1548 che l’adolescenza di Olimpia – ci dicono i biografi – si interrompe bruscamente. Il padre si ammala, e Olimpia lascia la corte per tornare a casa ad assisterlo; ma Pellegrino ben presto muore, lasciando alla figlia il peso di una madre inferma, di tre sorelle e di un fratello ancora piccolo. Intanto, Anna d’Este si è sposata ed è partita per la Francia; i duchi, dai quali Olimpia sperava di ricevere protezione, la lasciano priva di un qualunque appoggio, dimenticandosi quasi della sua esistenza.
«Sappi che, dopo la morte […] di mio padre – scriverà Olimpia – io fui subito abbandonata dalla mia Principessa, e trattata in maniera indegna. Né ebbero un trattamento diverso le mie sorelle, ma tutte raccogliemmo dai nostri Principi gli stessi frutti: odio in cambio della nostra devozione. Tu puoi comprendere quale fosse allora la mia disperazione. Non c’era nessuno che si mostrasse interessato a noi, e nello stesso tempo erano così tante le cose che ci opprimevano da sembrare impossibile che potessimo venirne fuori» (Opere, I, p.70). La lettera, inviata dalla città di Augusta, è indirizzata a Celio Secondo Curione, ed è convincentemente datata al 7 ottobre 1550. Il padre – vi si legge – è morto da due anni; nel dolore e nella disperazione, Olimpia è rimasta due anni soltanto, perché Dio ha voluto che si innamorasse di un giovane tedesco, Andrea Grunthler, che si sposasse e si recasse in Germania con lui. Va ricordato come in quegli anni a Ferrara la situazione della Chiesa riformata si andasse facendo sempre più difficile, tanto che anche i fratelli Sinapi, caduti in sospetto nonostante il profondo e dimostrato attaccamento alla corte ducale, si preparavano a partire per la Germania; per le stesse ragioni Andrea Grunthler aveva deciso di farvi ritorno con la moglie.
L'epistolario, che sicuramente rappresenta il documento più interessante e vivo della singolare esperienza religiosa di Olimpia, ci consegna anche la maggior parte delle notizie biografiche successive al viaggio in Germania.
Sappiamo dunque che Olimpia condusse con sé il proprio fratello Emilio, di otto anni, e i tre si stabilirono a Schweinfurt, dove Andrea esercitò la professione di medico.
Le guerre imperialistiche e religiose condotte dai principi tedeschi coinvolsero anche Schweinfurt, che fu saccheggiata e incendiata; la famiglia di Olimpia, protestante, fuggì a Heidelberg, ma nella fuga Olimpia perse quasi tutti i suoi scritti e le poesie (oltre alle lettere, dei suoi scritti 'tedeschi' ci restano solo due dialoghi, tre carmi latini e tre greci, la riduzione in versi di otto salmi davidici). Ad Heidelberg, mentre il marito insegnava medicina all’Università, Olimpia insegnò privatamente latino e greco. Morì nel 1555, durante la peste che colpì questa città, e in pochi mesi morirono di peste anche il marito e il fratello Emilio.
Curione pubblicò tutti gli scritti di Olimpia che poté rintracciare in una prima edizione, stampata a Basilea nel 1558.