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Vibia Perpetua. Il diario di una martire cristiana

2021-05-28 14:22

Claudia Pandolfi

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Vibia Perpetua. Il diario di una martire cristiana

A Cartagine, nel 203, una donna di circa ventidue anni, Vibia Perpetua, venne arrestata, processata e imprigionata; il 7 marzo venne messa a morte per

 

 

A Cartagine, nel 203, una donna di circa ventidue anni, Vibia Perpetua, venne arrestata, processata e imprigionata; il 7 marzo venne messa a morte per il reato di disobbedienza civile, in quanto, come cristiana, si era rifiutata di compiere un sacrificio in onore dell’imperatore. Al tempo del suo arresto non era ancora battezzata, ma stava ricevendo gli insegnamenti cristiani. Era di famiglia nobile, aveva una buona educazione, aveva familiarità coi testi classici, era da poco madre di un bimbo che stava allattando, i suoi genitori erano entrambi in vita. Niente si sa del padre del bambino, vivo o morto che fosse. 
Nelle settimane che passa in carcere, Perpetua scrive un resoconto della sua difficile prova: resoconto che si trova inserito nell’anonima Passione delle Santissime Perpetua e Felicita, riportato – scrive l’autore – «come ella lo ha lasciato, nel suo stile, come la sua stessa mano aveva disposto».

Gli Atti e le Passioni dei martiri sono fra i primi generi letterari documentati nella letteratura cristiana latina. 
Il genere fece la sua comparsa verso la metà del II secolo, nella letteratura greca, e si sviluppò ampiamente con l'intensificarsi delle persecuzioni, continuando ad essere coltivato anche dopo che, nel IV secolo, le persecuzioni, almeno ufficialmente, cessarono: non trova precise corrispondenze nelle letterature classiche, e presenta legami evidenti e talora espliciti col modello della passione di Cristo narrata nei Vangeli
La differenza fra Acta e Passiones consiste nel fatto che gli Atti riproducono i verbali del processo, mentre nelle Passioni la parte relativa al processo viene integrata col racconto dell'intero episodio, dall'arresto al processo alla condanna all'esecuzione. Il primo testo del genere, in latino, datato con sicurezza, sono gli Atti dei martiri Scillitani (dodici martiri di una comunità di Scillium in Numidia, nell'odierna Tunisia), del 180. Di poco posteriore è la Passione di Perpetua e Felicita.

La narrazione di Perpetua occupa i capitoli III-X della Passione, e comprende sia una descrizione esteriore di ciò che le accade, sia una descrizione interiore delle sue fantasie e dei suoi pensieri.

«(III) Quando ancora eravamo solo sotto sorveglianza, e mio padre, per il grande amore per me, insisteva nell’oppormi argomenti e nel cercare di incrinare la mia risoluzione, io dissi: “Padre, vedi quel contenitore laggiù, una brocca, o qualcosa di simile?” Ed egli rispose: “Sì, lo vedo”. Ed io gli dissi: “Non può chiamarsi in modo diverso da quello che è, non è vero? Ed egli rispose: “No”. “Così anch’io non posso dirmi altro che quello che sono: una cristiana”. Allora mio padre, adiratosi a queste parole, si lanciò su di me come se volesse cavarmi gli occhi. Ma era solo arrabbiato, e se ne andò, sconfitto, … Per i pochi giorni che non lo vidi, resi grazie a Dio: mi sentivo sollevata dalla sua assenza. In quel breve arco di tempo fummo battezzati… Dopo pochi giorni fummo condotti in carcere, ed ero spaventata, perché non avevo mai avuto a che fare con una simile oscurità. Un giorno sinistro. Calore intenso a causa dell’affollamento, estorsioni da parte dei soldati. A tormentarmi era però la preoccupazione per la sorte del mio bambino. Allora, Terzio e Pomponio, i diaconi consacrati che ci sorvegliavano, servendosi della corruzione, ottennero che ci lasciassero per qualche ora in una parte migliore e più fresca del carcere… Allattai il mio piccolo, già provato dalla fame. Angustiata, parlai di lui a mia madre, consolai mio fratello, affidai a loro mio figlio: ero stremata, vedendoli logorarsi tanto per causa mia. Di questo genere furono per molti giorni i miei atroci pensieri, finché ottenni che il bambino potesse stare in carcere con me: e, liberata dall’ansia e dall’angoscia per lui, subito mi sentii meglio. E improvvisamente la prigione divenne per me un palazzo, e non c’era luogo in cui avrei preferito trovarmi.
(IV)… Pregai per avere una visione, ed ecco cosa mi apparve. Vidi una scala di bronzo, miracolosamente lunga, che arrivava fino al cielo: era stretta, e vi si poteva salire solo uno alla volta… 
(V) Pochi giorni dopo si sparse la voce che la nostra udienza era vicina. Mio padre… venne da me per convincermi, dicendo: “Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi. Mostra compassione per tuo padre, se sono degno di essere chiamato padre da te… Guarda i tuoi fratelli, e tua madre, e tua zia, guarda tuo figlio che non potrà vivere se tu muori. Non ostentare la tua ostinata perseveranza, o ci distruggerai tutti…” Questo mi disse mio padre, supplicandomi, baciandomi le mani e prostrandosi ai miei piedi, mentre fra le lacrime non mi chiamava ‘figlia’ ma ‘signora’. E io provai dolore per lo stato in cui si trovava, perché lui solo, di tutta la mia famiglia, non avrebbe tratto gioia dalla mia prova. E lo confortai dicendo: “In tribunale le cose andranno come Dio vorrà, perché devi sapere che ormai non siamo più nelle nostre mani ma nelle sue”… 
(VI) Un altro giorno, mentre consumavamo il pasto di mezzogiorno, fummo improvvisamente condotti in udienza… E comparve mio padre con mio figlio, e mi tirò giù dal gradino, dicendo: “Compi il sacrificio, abbi pietà di tuo figlio”. Così pure il governatore…: “Abbi riguardo per l’età veneranda di tuo padre e per la tenera età del tuo piccolo. Compi il rito in onore dell’imperatore!” E io risposi: “Non lo farò…Sono cristiana”: E dal momento che mio padre mi stava ancora intorno, cercando di convincermi, il governatore diede ordine di allontanarlo e lo colpirono con un bastone. E io mi addolorai per la caduta di mio padre, come se fossi stata colpita io stessa… Il governatore sentenziò che tutti noi fossimo condannati alle belve dell’arena, e gioiosamente tornammo in carcere. Poiché il bambino era abituato ad essere allattato e a stare con me in prigione, mandai subito il diacono Pomponio da mio padre ad implorare che mi fosse restituito, ma mio padre non volle lasciarlo. E allora non so come, per volere di Dio, il bambino non ebbe più bisogno di essere allattato, e il mio seno non si infiammò: così non fui tormentata dalle preoccupazioni per lui e nemmeno dal dolore. 
(VII) Pochi giorni dopo, mentre eravamo tutti in preghiera, improvvisamente lasciai scivolare fra le parole il nome di Dinocrate, e rimasi stupita, perché fino a quel momento non avevo mai pensato a lui. E mi addolorai, ricordandomi della sua situazione. Subito mi resi conto che mi era concesso chiedere una visione per lui, che potevo farlo, e cominciai a pregare intensamente Dio per lui. Quella stessa notte, ecco quello che vidi… 
(VIII) Un giorno che restammo in catene, mi fu mostrata quest’altra visione… 
(IX)… Quando si avvicinò il giorno dello spettacolo nell’arena, mio padre venne da me, stanco e provato. Cominciò a strapparsi la barba spargendone i peli a terra, si gettò bocconi maledicendo la sua stessa vita, e proferì parole che avrebbero commosso chiunque. Mi dolsi per la sua vecchiaia infelice. 
(X) Il giorno precedente il nostro supplizio, ecco la visione che ebbi… E mi svegliai. E seppi che non avrei combattuto contro le belve, ma contro il Nemico, e seppi che la vittoria sarebbe stata mia. Ecco quello che ho fatto fino al giorno precedente del combattimento: se qualcuno vuole scrivere del suo svolgimento, che lo faccia».

In un latino colloquiale e familiare, privo di ornamenti stilistici, Perpetua registra i propri pensieri in modo informale, vivace; le sue prime impressioni sulla prigione sono buttate giù come semplici appunti; le sue riflessioni sulla propria famiglia sono di una semplicità estrema. Almeno apparentemente, non sta cercando uno stile letterario, non usa abbellimenti retorici, non ha intenti didascalici o edificanti: e tuttavia riesce a trasmetterci le sue osservazioni psicologiche a riguardo del padre, il complicato groviglio dei sentimenti verso di lui (compreso il senso di sollievo quando egli non le fa visita); riesce a farci entrare nel buio, nel caldo, nel sovraffollamento del carcere e nei suoi stessi tormenti; riesce a darci un quadro della sua famiglia, della sua maternità e delle sue stesse emozioni.
Notevole è il modo in cui parla del processo, con una serie di frasi brevi e staccate: resoconto che contrasta sorprendentemente col modo di parlare attribuito ai cristiani sotto processo. Le laconiche risposte fornite da Perpetua sono infatti lontanissime dalle sfide insistenti e prolisse con cui – così ci viene raccontato negli Atti di martirio, scritti da uomini – le vergini martiri rispondevano ai loro giudici e persecutori. E quando Perpetua stende le sue riflessioni sul bambino e l’allattamento si muove in modo commovente e dignitoso fra particolari che difficilmente avrebbero trovato posto nella letteratura sia classica che cristiana.

Perpetua non stava scrivendo la vita di una futura santa: stava semplicemente registrando il proprio mondo esteriore e interiore, in una prosa dal carattere semplice e realistico, con un linguaggio che si attiene all’essenziale, comunicandoci così qualcosa di grande. 
Non tentava di rendere la propria esperienza un modello, ma si concentrava su ciò che di unico era nella sua esperienza, riuscendo così a consegnarci qualcosa di unico.

Il racconto contiene anche quattro visioni, avute da Perpetua in momenti diversi (rispettivamente, ai capitoli IV, VII, VIII, X): visioni tutte connesse fra loro e agli eventi esterni, che possono essere – e sono state – variamente interpretate, ma che, pervase come sono di cultura biblica, testimoniano sicuramente del suo modo di leggere e vivere le Sacre Scritture.
Nella prima, a Perpetua compare una scala che si alza fino al cielo, stretta, e piena sui lati di armi appuntite, sotto la quale si nasconde un serpente enorme pronto a tendere agguati a chi voglia salire; quando lei si appresta a salire, con la certezza che, nel nome di Cristo, il serpente non la ferirà, il serpente stesso appare spaventato dalla sua presenza, abbassa il capo e le permette di usare il suo corpo come primo gradino; arrivata in cima, Perpetua vede un meraviglioso giardino, un vecchio dai capelli bianchi vestito da pastore che munge una pecora, e migliaia di persone vestite di bianco; il vecchio le dà il benvenuto, le offre un pezzo del formaggio che sta preparando, e le persone attorno dicono tutte “Amen”.
La visione – scrive Perpetua – le fa comprendere che la morte è ormai scritta nel suo destino.

Nella seconda, Perpetua vede il fratellino Dinocrate, morto all’età di sette anni per un cancro al viso, mentre esce da un luogo buio e affollato: è pallido, accaldato, ha sete, i suoi abiti sono sporchi e ha il viso pieno di piaghe come quando era vivo; vicino a lui c’è una pozza d’acqua, coi lati troppo alti perché egli possa bere.
Perpetua capisce che il fratellino sta combattendo per la salvezza della propria anima, e cerca di aiutarlo nella sua lotta pregando per lui giorno e notte.

Nella terza, vede ancora Dinocrate, ma questa volta è pulito, ben vestito, con le ferite ben cicatrizzate; il bordo della pozza d’acqua è basso e ha sopra una coppa d’oro, anch’essa piena d’acqua, che non si svuota mai; Dinocrate, dopo aver bevuto senza sosta dalla pozza e dalla coppa, comincia a giocare felice con l’acqua.
Perpetua ora sa che le sue preghiere hanno aiutato il fratellino, che è finalmente libero da ogni dolore.

Nella quarta visione, infine, vede il diacono Pomponio condurla al centro dell’arena, dove però non compaiono belve, ma un egiziano “di aspetto immondo” che è lì per combattere contro di lei; alcuni bei giovani, suoi sostenitori, le si avvicinano e la spogliano nuda, dopodiché Perpetua diventa un uomo; i giovani cospargono di olio il suo corpo, mentre l’egiziano si rotola nella polvere; ed ecco comparire un uomo gigantesco, più alto delle mura dell’anfiteatro, con in mano una bacchetta impugnata a mo’ di spada e un ramo verde carico di mele d’oro, che, dopo aver chiesto silenzio alla folla, proclama: “Se a vincere sarà l’egiziano, ucciderà lei con questa spada; se lei lo sconfiggerà, riceverà questo ramo”. Dopo un combattimento a pugni e calci, Perpetua vince, e, fra le acclamazioni generali, riceve il ramo dal gigante, che la bacia e le dice: “La pace sia con te”; dopo di che, Perpetua si incammina trionfante “verso la Porta della Vita”. «E mi svegliai. E seppi che non avrei combattuto contro le belve, ma contro il Nemico, e seppi che la vittoria sarebbe stata mia».


La Passione di Perpetua e Felicita è opera di uno scrittore uomo, che, alla luce degli studi fatti, al di là delle ipotesi avanzate, rimane tuttora anonimo: uno scrittore, che, senza modificare il racconto di Perpetua, lo avrebbe inserito nel contesto narrativo, riportandolo appunto come lei lo aveva lasciato, «nel suo stile, come la sua stessa mano aveva disposto». Non sono però mancati autorevoli interpreti che, nel tempo, hanno sollevato dubbi sull’attribuzione del racconto a Perpetua, nella sua interezza o quantomeno nelle parti relative alle visioni, cancellando o riducendo così la forza della sua voce. 
Quello che in ogni caso è certo, è che la voce di Perpetua ha potuto giungere fino a noi solo attraverso la sua ‘registrazione’ – se non la sua ‘riscrittura’– da parte di un uomo: destino, questo, che la accomuna in qualche modo alla poetessa latina Sulpicia, le cui elegie ci sono pervenute solo perché conservate all’interno della tradizione manoscritta di Tibullo, ovvero in un contesto di scrittura maschile.