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Ildegarda di Bingen – L’armonia di anima e corpo, il cibo e la nutrizione

2024-11-23 15:55

Claudia Pandolfi

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Ildegarda di Bingen – L’armonia di anima e corpo, il cibo e la nutrizione

«Alcuni uomini sono del tipo melanconico: hanno il cervello grasso, e le membrane e le vene del cervello stesso sono come offuscate; hanno un viso dal

«Alcuni uomini sono del tipo melanconico: hanno il cervello grasso, e le membrane e le vene del cervello stesso sono come offuscate; hanno un viso dal colorito scuro e occhi di fuoco quasi da serpente, e vene dure e forti nelle quali scorre un sangue nero e denso; sono di corporatura grande e muscolosa; hanno ossa grosse con un midollo scarso, che però arde fortemente, in quanto con le donne sono incapaci di dominarsi e si comportano come bestie e come vipere […] Sono irritabili, avidi, insensati, eccessivi nella lussuria e, come degli asini, incapaci di moderazione nei loro rapporti con le donne: dal che deriva che, se non possono sfogare le loro voglie, facilmente impazziscono perché colti da una sorta di frenesia. Quando possono dare sfogo alla propria libidine congiungendosi carnalmente con le donne, non sono colti dalla pazzia, ma il loro amplesso, che dovrebbero vivere con sobrietà, risulta tortuoso e odioso e mortifero come quello di lupi assalitori. D’altra parte, per le loro vene e il midollo che arde violentemente dentro di loro, ci sono alcuni che, pur avendo volentieri rapporti con le donne, secondo l’umana natura, tuttavia le hanno in odio. Alcuni poi possono evitare il sesso femminile, in quanto non amano le donne né desiderano possederle, ma nei loro cuori sono feroci come leoni e si comportano come orsi: ciononostante, sanno rendersi utili ed essere avveduti nelle opere manuali alle quali si dedicano volentieri».   

«Alcune donne (del tipo sanguigno) sono di natura prospera e hanno carni morbide e voluttuose, e vene sottili e sangue privo di qualunque umore corrotto […] Hanno un viso dal colorito chiaro e luminoso, e sono espansive nel rapporto amoroso e accurate nelle opere manuali e moderate di natura; durante le mestruazioni hanno poche perdite di sangue, e il loro utero è fortemente predisposto al parto, ragion per cui sono feconde e possono accogliere il seme dell’uomo: non generano tuttavia molti figli e, se non hanno marito, non potendo partorire, facilmente si ammalano; se invece hanno marito, vivono in salute. Se entrano in menopausa prima del tempo, allora diventano malinconiche, o soffrono di dolori al corpo, o la loro carne si ulcera, o si ammalano di quella che chiamano scrofolosi, o, pur se in forma lieve, prendono la lebbra».

«Quando Adamo guardò Eva si sentì colmo di discernimento, perché guardava la madre attraverso cui procreare dei figli; quando Eva guardò Adamo, lo guardò come se lo vedesse in cielo, così come l’anima che desidera il divino tende all’alto, giacché la sua speranza era nella casa dell’uomo. E dunque uno solo è il piacere, e deve essere proprio dell’uomo e della donna e non di altri. Ma, per il piacere della donna nel calore dell’ardore il piacere dell’uomo è come il fuoco di montagne che bruciano, che difficilmente si può spegnere, in confronto al fuoco del legname che si spegne facilmente; per il piacere dell’uomo, il piacere della donna è invece come il soave calore che viene dai raggi del sole e che produce frutti, in confronto al fuoco più che rovente del legname, perché, come la terra, anche la donna produce soavemente i suoi frutti attraverso il concepimento dei figli. Il grande amore che albergava in Adamo quando Eva uscì dal suo corpo, e la dolcezza trasmessa da quel suo sonno si mutarono al suo risveglio  in una forma opposta di dolcezza. E l’uomo, continuando ad avere e a sentire in sé questa dolcezza, come un cervo alla fonte così corse veloce verso la sua donna, e la donna corse verso di lui, simile all’aia del granaio, che, percossa da numerosi colpi, si riscalda durante  la battitura del grano».  

Da un lato, siamo di fronte a descrizioni di tipi umani – sia uomini che donne – con aspetti distintivi legati anche e soprattutto a caratteristiche fisiche e sessuali, nonché ai relativi modi di vivere il rapporto sessuale; dall’altro, alla descrizione dell’atto d’amore primordiale fra Adamo ed Eva nel paradiso terrestre: e queste descrizioni sono da un lato fondate su osservazioni naturalistiche e caratterizzate dalla totale assenza di connotazioni di stampo morale, dall’altro da una neutralità morale che finisce col caricare di bellezza poetica ogni atto d’amore reciproco.     

 

Questi passi sono tratti da un libro del XII secolo, intitolato Causae et curae (ed. P. Kaiser, Teubner 1903, libro II, pp. 73, 87, 136), e, sorprendentemente, l’autrice è la badessa di un monastero benedettino. Stiamo parlando di  Ildegarda di Bingen, sicuramente uno dei personaggi femminili più enigmatici e significativi del Medioevo, dichiarata dottore della Chiesa da Benedetto XVI nel 2012.     

 

Nata nel 1098 da una nobile e numerosa famiglia, ancora bambina fu fatta entrare in un monastero, e in stato monacale trascorse l’intera sua esistenza. Dotata del dono della visione, come lei stessa racconta, e consapevole del dono ricevuto, visse questo stesso dono con una sorta di disagio, tra malesseri e timori, fino al suo trentottesimo anno di vita, quando avvertì una impellente necessità di non nasconderlo ulteriormente: accadde così che, con la progressiva accettazione da parte del mondo maschile –dall’arcivescovato di Magonza allo stesso Pontefice –, nonché l’approvazione ufficiale del suo ruolo profetico, a partire dal 1147 fu spesso chiamata dalle maggiori autorità religiose e secolari per riceverne i consigli; nonostante le ricorrenti crisi fisiche e psichiche, cominciò a fare viaggi di predicazione, assumendo di fatto molte di quelle funzioni sacerdotali che la Chiesa considerava da sempre come prerogative maschili. Personaggio dunque di grandissimo rilievo, venerata e consultata dai personaggi più eminenti  dell’epoca per le sue virtù e per la fama di veggente e di guaritrice, fu detta la “sibilla del Reno” per le sue qualità profetiche e per aver trascorso gran parte della sua esistenza nel monastero di Rupertsberg, da lei fondato e situato a Bingen, sulla riva del fiume. Morì nel 1179.  

Oltre ad un ricco epistolario, Ildegarda ci ha lasciato innumerevoli scritti, affrontando temi quali la cosmologia, la teologia, l’etica, la medicina, la botanica, la farmacopea, la musica, la poesia, ecc., e spaziando in una grande varietà di generi letterari. In questi scritti si riscontrano elementi di forte originalità, che lasciano ben trasparire il suo contatto con le nuove fonti del sapere scientifico, e anche con le fonti mediche: in una inedita chiave di lettura, Ildegarda, mantenendosi saldamente nell’alveo della ortodossia cristiana,  attribuisce valore al mondo corporeo, si apre nel contempo alle novità scientifiche del suo tempo, ed elabora una inedita mescolanza fra saperi monastici, cultura scientifica e conoscenze dovute all’osservazione personale.  

Spesso si trova scritto che Ildegarda era analfabeta e che dettava ad altri i suoi scritti: in realtà, è chiaramente impossibile che fosse illetterata, e, seppure priva forse di formazione scolastica, dovette di certo avere progressivamente perfezionato le proprie competenze grammaticali e retoriche. Il suo presunto analfabetismo è insomma semplicemente l’amplificazione di un topos al quale aderirono sia i suoi biografi che la stessa Ildegarda, ovvero il topos letterario della donna semplice e incolta, che, per quanto appaia legato allo stereotipo dell’inferiorità femminile, contribuisce di fatto ad amplificare la portata profetica della sua figura e del suo messaggio.     

 

La mole delle sue opere, ben più vasta ed eclettica rispetto a quanto ci hanno lasciato altre scrittrici prima e dopo di lei, unita alla loro specificità e complessità, non consente che si parli diffusamente di tutte, a meno di non farlo in modo talmente superficiale da risultare scarsamente significativo.  Senza aprire nemmeno il discorso sull’Ildegarda visionaria e profetessa, molto lontana da noi e dai nostri interessi, e trascurando anche di parlare dei suoi scritti musicali e poetici, vorrei dunque soffermarmi brevemente solo sui suoi scritti naturalistici: e questi scritti, che testimoniano della familiarità di Ildegarda col corpo umano e la natura, e che riconducono alla sua attività pratica e concreta nei campi della botanica, della medicina e della farmacopea, sono, a loro volta, talmente ricchi di argomenti e tematiche, che, ad evitare semplici e generiche sintesi, risulta indispensabile individuare al loro interno un qualche percorso di lettura tematico.  

L’argomento su cui ho scelto di soffermarmi è l’attenzione rivolta da Ildegarda al cibo e alla pratica della nutrizione: un tema scarsamente approfondito anche da parte degli studiosi che si occupano delle opere scientifiche di Ildegarda, e molto caro invece a quanti seguono l’approccio olistico alla salute, ridefinita – come si sa – su rapporti di sintonia tra la componente fisica e quella psichica e spirituale.  

Come giustamente scrive Michela Pereira nel suo saggio Cibo e misura, salute e salvezza in Ildegarda di Bingen (in Nutrire il corpo, nutrire l’anima nel Medioevo, a cura di C. Crisciani e O. Grassi, Edizioni ETS, 2017, pp.153-79) – saggio a cui mi richiamo per queste sintetiche annotazioni –, questo tema è sempre affrontato da Ildegarda con riflessioni che rispecchiano appieno «l’impostazione di fondo del suo pensiero, orientata alla salvezza dell’umanità attraverso la reintegrazione dell’armonia originaria di anima e corpo perduta con il peccato originale», e le osservazioni sull’«atteggiamento corretto nei confronti del cibo» non sono presenti solo là dove è più logico aspettarsele, ma interessano di fatto quasi tutta la sua produzione. Non a caso, sono infatti riscontrabili già nel breve commento alla regola benedettina, scritto probabilmente, nella sua veste di badessa, fra il 1551 e il 1561, dove si legge che il cibo va distribuito, con discernimento e misura, secondo le condizioni e i bisogni di ciascuno, ammettendo deroghe sia nella qualità e nella quantità degli alimenti, sia negli orari in cui cibarsi; e trovano piena espressione nel suo ultimo libro, il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine), il più importante dei suoi scritti profetici, laddove la nutrizione è definita come «un’opera mista, agita insieme dall’anima e dal corpo, ed è un ambito fondamentale per la vita morale, perché attraverso la sua regolazione si può in buona misura determinare se corpo e anima si accorderanno con maggiore o minore difficoltà». Per Ildegarda, cioè, l’equilibrio psicosomatico non si risolve attraverso la negazione del corpo; l’azione del nutrirsi è importante; l’anoressia, in quanto negazione dei bisogni del corpo, è irragionevole ed apre anzi le porte alla superbia indotta dal demonio; anche l’eccesso nell’astinenza ha una valenza negativa.  

Ovviamente, i punti che riguardano specificamente l’alimentazione sono numerosissimi nel Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum (Libro delle sottili differenze della natura delle creature), un’opera che raccoglieva tutto il sapere medico e botanico dell’epoca, e che venne poi smembrata nella tradizione manoscritta in due parti, ovvero la Physica o Liber simplicis medicinae, e il Causae et curae o Liber compositae medicinae. La Physica include un erbario, un bestiario e un lapidario, laddove il Causae et curae può configurarsi come un manuale di medicina pratica e farmacologia.  

«L’essere umano – si legge nel prologo della Physica (Forza guaritrice della natura o libro delle medicine semplici) – è alia terra, una terra diversa, tratta dalla terra creata, e per questa ragione la terra contribuisce alla sua vita sotto tutti gli aspetti, fornendogli viriditas»: dove per viriditas si intende il vigore, l’energia vitale che scaturisce dal rapporto filosofico tra l’uomo e la natura, e che è una preziosa alleata anche per la guarigione dalle malattie. Già significativamente presente nel prologo, il tema alimentare trova poi riscontro in tutta la prima sezione del testo, che, nel suo carattere enciclopedico, enumera le piante usate prevalentemente nell’alimentazione, le spezie e le erbe aromatiche utilizzabili in cucina, nonché le sostanze vegetali con uso esclusivamente o prevalentemente medicinale, sempre nell’ottica degli effetti che ogni alimento produce sul corpo; lo si ritrova poi nelle parti dedicate agli animali (nello specifico, pesci, volatili e quadrupedi), che costituiscono un apporto consistente alla mensa dell’umanità, e, contrariamente alle erbe, una molto meno consistente utilità come fornitori di rimedi salutari.  

Le diverse annotazioni sulla maggiore o minore digeribilità degli alimenti, che riguardano soprattutto le carni, inducono a prendere in considerazione anche il modo in cui Ildegarda affronta la fisiologia della digestione nel Causae et curae (Libro delle cause e dei rimedi o libro delle medicine composte), dove si legge che la digestione avviene nello stomaco, che però non può assumere cibi oltre il giusto, o crudi o semicotti o eccessivamente grassi e pesanti, o troppo asciutti o essiccati, perché in tal caso non può ricevere da cuore e fegato e polmoni il calore necessario per renderli assimilabili dal corpo; le bevande devono essere assunte con moderazione e prestando attenzione alla stagionalità, così come va fatto per gli alimenti. Praticare la moderazione significa conservare la salute e a favorire l’armoniosa convivenza del corpo con l’anima, laddove l’eccesso – in qualunque sua forma, compresa la privazione – genera squilibrio negli umori del corpo, e lo squilibrio provoca malattie nonché inclinazione a compiere il male.  

Nella piena consapevolezza della problematicità della vita morale, con la duplice composizione umana di corpo e anima, Ildegarda non condanna il corpo, ma suggerisce di servirsi di ciò che il creato offre per armonizzarlo con l’anima, e questo anche mediante l’assunzione di cibo appropriato, perché la corporeità in tutte le sue forme è segno visibile del divino.     

 

Parlando di nutrimento e di corpo e di anima, vale senz’altro la pena di spendere qualche parola sul citato volume Nutrire il corpo, nutrire l’anima nel Medioevo, le cui problematiche centrali – come si legge nella bella Introduzione di Chiara Crisciani e Onorato Grassi – vertono appunto sul valore e sul significato che il nutrimento ha avuto nella cultura medievale: «dal gusto al digiuno, dal ruolo materiale del cibo a quello simbolico, dalla cura del corpo alle necessità dell’anima, dall’inventio culinaria alla disciplina delle diete»: e – aggiungerei – con i riferimenti al vizio capitale della gola molto spesso presenti sullo sfondo.  

Per quanto concerne il filo conduttore che lega i dodici saggi di cui il libro si compone, esso è rappresentato – cito – dai «rapporti tra corpo ed anima prospettati dalla specifica angolatura del nutrire e del cibo»: ovvero – come recita il titolo – esso concerne il nutrimento (materiale) del corpo e quello (metaforico) dell’anima. In una prospettiva di analisi fondamentalmente storico-filosofica, i saggi affrontano argomenti diversi, toccando questioni di volta in volta più direttamente connesse alla filosofia, alla religione, alla filologia, al folklore, e consegnandoci, nel loro insieme, un articolato panorama di storia sociale e storia del pensiero: ma, prima di parlare dei singoli saggi – o meglio di alcuni di essi –, e per inquadrare meglio le teorizzazioni sul vizio capitale della gola e i loro cambiamenti,  può forse rivelarsi  utile una premessa di carattere generale.  

Nella storia dell’alimentazione medievale hanno un peso notevole i mutamenti connessi al rapporto fra i diversi settori economico-alimentari, ovvero l’agricoltura e lo sfruttamento dei pascoli e delle foreste: due modelli contrapposti, derivanti rispettivamente dal mondo romano e dal mondo cosiddetto barbarico, destinati alla fine ad integrarsi reciprocamente. Il cristianesimo ebbe un ruolo importante, influendo a vari livelli – pratico e ideologico – sull’alimentazione: basti pensare ai suoi simboli alimentari – il pane, il vino e l’olio –, direttamente improntati ai valori agricoli della tradizione romana; simboli che indussero, fin dalle origini dell’integrazione dei modelli, un sostrato di diffidenza nei confronti del consumo di carne. Questo portò, ad esempio, all’imposizione dell’alternanza fra due modelli contrapposti (con e senza carne), con una dieta che prevedeva l’alternanza nei giorni di cibi ‘grassi’ e cibi ‘magri’; portò a considerare la rinuncia alla carne come strumento meritorio di purificazione; e portò soprattutto alla definizione di regole comuni, creando un conformismo alimentare che rimescolò e avvicinò i diversi modelli di consumo dell’intero mondo occidentale. Nel frattempo, a iniziare dalla fine del X secolo, per vari motivi socio-economici, si innescò un meccanismo di differenziazione sociale, destinato ad allargare sempre più il divario quantitativo e qualitativo fra dieta contadina e dieta signorile: il consumo di carne si definì sempre più come una prerogativa di classe, e le fasce più umili della popolazione ne furono tagliate fuori. L’antica opposizione fra pane e carne diventò cioè il segno di una divaricazione sociale. Nel contempo, però, a partire dalla rinascita carolingia, ebbero impulso nuove colture e coltivazioni più intense di legumi, sicché, se prima dell’anno Mille, il Medioevo fu un periodo di povertà, di fame e di insicurezza generalizzate, con carestie ricorrenti, grande diffusione di malattie endemiche ed epidemie devastanti, dopo il Mille si cominciò a morire di meno, l’Europa cominciò a ripopolarsi e si aprì un periodo di crescita e prosperità destinato a durare fino alla grande carestia del 1315-1317. Tutto questo può forse, almeno in parte, spiegare perché la gola fu un peccato capitale per i primi secoli del Medioevo, mantenne nei secoli la sua pericolosità, ma subì progressivi adattamenti, finendo con l’essere ridefinito in maniera definitiva a partire dal XII secolo: forse anche perché, fino all’anno Mille, con l’ampia e tragica diffusione della fame, la dura punizione che la Chiesa riservava a chi aveva fin troppo da mangiare poteva essere di una qualche consolazione.    

 

E veniamo ai saggi. Se parliamo delle teorizzazioni sul cibo, risulta chiaro dai diversi contributi che, per tutti i secoli dal V all’XI, predomina il pensiero agostiniano, col suo modello conoscitivo: all’interno di questo modello, per quanto concerne il rapporto fra il cibo e il peccato, se è vero che la gola è uno dei peccati capitali, è però un vizio carnale, radicato nella fisiologia stessa dell’uomo, e dunque meno grave dei vizi spirituali, anche se, al tempo stesso, più difficile da individuare ed estirpare. Ma, se il mangiare è un comportamento naturale, in che cosa consiste la colpevolezza? Come spiega Agostino, «la colpa non sta nel cibo e nemmeno nel gusto, ma nella concupiscenza, nel desiderio disordinato del cibo e nel pericoloso piacere indotto dalla sazietà» (Silvana Vecchio, Cibo e peccato nelle cultura medievale: dalla gola alla curiositas). E proprio di «ossessione del piacere come nemico da combattere» parla Massimo Montanari (Il gusto del cibo tra realtà e metafora), riferendosi ai primi secoli del Medioevo. Allo stesso modo, Giovanni Paolo Maggioni (Il cibo dei santi), che focalizza la sua attenzione sulle vite dei santi, rileva come i modelli agiografici dei primi secoli non presentino alcuna indulgenza nei riguardi del cibo e nei confronti del vizio della gola.  

L’epoca che copre la fine dell’XI e l’intero XII secolo è il cosiddetto periodo della prima scolastica: e sono anni in cui si assiste allo slancio di un movimento di traduzioni di grande ampiezza, attraverso il quale la filosofia, la scienza, la medicina arabe, nonché tutto Aristotele (per l’intermediario delle traduzioni dall’arabo) diventano accessibili al mondo occidentale. Fiorisce inoltre lo studio dell’antichità e la sua comprensione si approfondisce. Ed è tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo che si attua il passaggio dal modello conoscitivo di stampo agostiniano-neoplatonico a quello aristotelico. Se Agostino concepiva l’anima umana come soggetto dell’attività conoscitiva, e l’anima era intesa come principio sostanziale autosussistente e reggente il corpo, la concezione aristotelica si orienta verso una visione sostanzialmente unitaria dell’essere umano. L’XI secolo vede inoltre la fioritura della scuola medica salernitana, che nel XII – col recupero della filosofia aristotelica, la ripresa del collegamento fra medicina e filosofia, nonché lo sviluppo dell’insegnamento della medicina –, raggiunge il suo massimo vigore e una grandissima fama. Ed è ovvio che sia gli sviluppi della medicina, sia il prevalere del modello aristotelico non possano non influire anche sulle teorizzazioni relative al cibo.  

Per quanto riguarda l’ambito più strettamente medico, ampie conferme al riguardo vengono dal saggio di Marilyn Nicoud (Nutrirsi secondo i medici nell’età antica e medievale) su medicina e diete, col suo lungo ed esaustivo excursus dalla medicina antica fino al XV secolo. Per quanto riguarda invece la filosofia e l’etica, sia Montanari, che la Vecchio che Maggioni, pur evidenziando elementi nuovi preesistenti ed elementi vecchi persistenti, sottolineano il cambiamento e il riassetto di valori che caratterizzano quest’epoca. Parlando del gusto e del piacere, Montanari annota ad esempio come il pensiero medievale del XIII secolo finisca con l’assegnare al gusto un enorme valore conoscitivo, considerando di fatto il piacere e il dispiacere uno strumento di conoscenza. Più esplicitamente, la Vecchio sottolinea che, se pure il peccato di gola mantiene nei secoli la sua pericolosità, esso subisce progressivi adattamenti; e, se già in età carolingia si trasforma per così dire in vizio degli eccessi e dell’intemperanza, a partire dal XII secolo viene definito diversamente, con riferimento alla nozione di eccesso, al desiderio e al piacere smodati: perché non è più il piacere in quanto tale a costituire il peccato, ma la sua mancanza di misura. Esiste, cioè, una misura del piacere, e, in una sorta di rivoluzione etica, il piacere in sé non costituisce peccato: perché Dio ha creato gli alimenti, Dio ha posto in essi dei sapori che danno piacere, e Dio non può essere responsabile dell’inevitabile piacere provato dall’uomo che se ne nutre. Maggioni, dal canto suo, parla di una evoluzione culturale, che ha visto cambiare la concezione del corpo e conseguentemente la considerazione del cibo, inducendo mutamenti anche nella letteratura agiografica, dove, dopo il XII secolo, appare evidente un rapporto diverso col cibo e con l’alimentazione da parte dei santi. La letteratura agiografica è insomma anch’essa specchio di un cambiamento culturale: tanto che gli agiografi non hanno remore a raccontare, ad esempio, che a Francesco piaceva molto il pasticcio di gamberi, o che condiva i cibi col lardo anche in quaresima essendo intollerante all’olio. E, ancora, accanto al pane, compaiono nelle narrazioni anche vivande elaborate. Peraltro, a partire dal XII secolo, il racconto agiografico è parte di un sistema di comunicazione che ha come elemento complementare la predicazione, e il destinatario della predicazione è il pubblico laico: niente a che vedere dunque col contemptus mundi monacale, e con quello che la Vecchio definisce l’universo chiuso e protetto dei monasteri, cui si rivolgevano ad esempio Ambrogio, Gerolamo, Cassiano , Gregorio Magno, ecc.  

Anche Giulio d’Onofrio (Il pane caldo) parla di «temperie innovativa del secolo XII», affermando che il maturare dei tempi – con i primi avvistamenti della nuova scienza, proveniente dal recupero della filosofia classica attraverso il mondo di cultura degli arabi – accelera, negli autori cristiani di ambito monastico, l’esigenza di formalizzare meglio i procedimenti interpretativi, per renderli invulnerabili a critiche soggettive e controversie inutili.     

 

Specchio fedele dei nuovi tempi, e più precisamente del XII secolo, sono sicuramente – come abbiamo visto – le teorizzazioni sul cibo e la misura, sulla salute e la salvezza, presenti negli scritti di Ildegarda di Bingen: aggiungo qui che la conoscenza delle fonti mediche di Ildegarda si evince chiaramente dal confronto fra l’intervento della Pereira e quello della Nicoud (ad esempio, per quanto concerne l’attenzione ai bisogni di ciascuno nell’alimentazione – alle diverse necessitates corporis / necessità del corpo). Quanto alle posizioni di Ildegarda nei confronti dell’eccesso di astinenza e dell’anoressia, la condanna da lei espressa ci riporta ai racconti agiografici del XIII e XIV secolo citati da Maggioni, dove non solo i santi amano sedersi a buone tavole, ma l’eccessiva astinenza è considerata un peccato indotto dal demonio; e dove si racconta anche di un monaco che, preso dai morsi della fame prima dell’ora canonica, si vide preparare del cibo dal diavolo, resistette con le preghiere e, arrivata l’ora giusta per mangiare, chiese al priore cosa dovesse fare di quel cibo: e il priore rispose che non c’è nulla che Dio abbia creato che debba essere rifiutato in stato di grazia. E dunque il monaco mangiò, dichiarando peraltro di non avere mai assaggiato un cibo così buono. Per quanto concerne infine il discorso relativo all’uso delle erbe, dei cibi e delle bevande, nonché le annotazioni sugli eccessi alimentari con gli effetti negativi che essi producono sia sul corpo che sull’anima, si tratta di un tema un tema destinato a sviluppare nel secolo successivo l’ampio dibattito scolastico sugli eccessi alimentari e sulla definizione della giusta misura del piacere, come bene spiega la Vecchio.     

 

Gli altri saggi presenti nel volume sono:  

Umberto Eco, Il cibo e la fame nel Medioevo; Alessandro Ghisalberti, Il logos tra corpo e spirito in Tommaso d’Aquino; Gianfranco Fioravanti, Il pane degli angeli nel Convivio di Dante; Marta Cristiani, Assaporare la vita; Alessandra Beccarisi, La metafora del cibo in Meister Eckhart; Valeria Sorge, Sonno e sogni in Agostino Nifo.