L’uomo:
«La stella rischiara il polo, e la luna colora la notte. Ma a me è di guida un solo astro e se, fugate le tenebre, sorgerà la mia stella dall’oriente, la mia mente ignorerà le tenebre del dolore. Tu sei la mia stella portatrice di luce, che caccerà la notte, e senza di te è notte la luce stessa, mentre con te la stessa notte è splendida luce».
«Se ho fame, tu sola mi sazi; se ho sete, tu sola mi disseti. Ma che dico? Tu ristori, ma non sazi. Mai sono stato sazio di te, né mai lo sarò».
«Tanta è la tua dolcezza, così mirabile la tua costanza, tanto ineffabile il tono della tua voce, tali la bellezza e la grazia che ti fanno corona, che sarebbe gran scortesia tentare di esprimerle a parole. Cresca sempre più il fuoco che ci consuma, e con nuovo alimento, e quanto più resterà nascosto, tanto più avvampi e inganni gli invidi e gli insidiosi, così che sempre rimanga il dubbio su chi di noi due ami di più, e in modo che tra noi si svolga sempre una bellissima tenzone in cui entrambi si vince».
La donna:
«All’amore che mi sale dai precordi, che olezza più di ogni altro aroma, colei che è tua corpo e anima, ai fiori assetati della tua gioventù augura la freschezza di una eterna felicità… A te, mia gioconda speranza, offro la mia fede, e con ogni devozione me stessa, per quanto io viva…».
L’uomo:
«Oh, stammi bene, perché in te è il mio bene, in te la mia speranza e il mio riposo. Non faccio in tempo a risvegliarmi che l’animo mio ti ritrova, custodita dentro di sé».
La donna:
«Da quel primo momento che ci vedemmo te solo ho prediletto, prediligendoti ti ho voluto, volendoti ti ho cercato, cercandoti ti ho trovato, trovandoti ti ho amato, amandoti ti ho desiderato, desiderandoti ti ho posto nel mio cuore sopra tutto…e ho gustato del tuo miele… Ti saluto, mio cuore, mio corpo, mia sola gioia… ».
Sono questi gli stralci di un epistolario riportato da Umberto Eco nel VII capitolo del suo romanzo Baudolino, dal titolo Baudolino fa scrivere lettere d’amore a Beatrice e poesie al poeta: uno scambio epistolare immaginario, costruito dal protagonista.
Per chi non avesse letto il libro, Baudolino è un ragazzetto un po’ imbroglione e mentitore nato, che vive nella campagna piemontese, più o meno nella zona della città di Alessandria; adottato da Federico Barbarossa all’età di tredici anni proprio in grazia di una sua bugia, finisce per instaurare con lui non solo un rapporto di fiducia, ma anche un vero e proprio rapporto di figliolanza, sicché, quando viene colto da un amore improvviso e impetuoso per la sposa dell’imperatore, la giovanissima Beatrice di Borgogna, si allontana in qualche modo dalla corte, soggiornando per la maggior parte del tempo nella abbazia in cui il vescovo Ottone di Frisinga gli fa da maestro: ma la passione amorosa non accenna a diminuire. Avendo già dato prova di grande intelligenza e sagacia, nonché di attitudine agli studi, alla morte di Ottone Baudolino viene mandato a studiare a Parigi, per affinare la propria istruzione e le proprie capacità, e, così come lei gli aveva chiesto, inizia a scrivere all’imperatrice, raccontandole della città e dell’università e della vita parigina: sennonché, scriverle senza poterle dire ciò che prova veramente si rivela essere un tormento, ed è un tormento che continua ad accrescersi di giorno in giorno. È per questo che, pensando di poter trovare sollievo nella scrittura, Baudolino inizia ad indirizzarle lettere d’amore: lettere che, in una sorta di terapia dell’anima, sono ovviamente destinate a non essere mai inviate. Il tentativo non sortisce però il risultato desiderato, ché anzi, rileggendo ciò che le ha scritto, Baudolino si invaghisce sempre più di Beatrice e, anelando ad avere da lei delle risposte, ne imita la scrittura e scrive lettere a suo nome, dando vita così, per diversi mesi, ad un illusorio carteggio.
Intervistato dallo studioso tedesco Thomas Stauder, alla domanda sui documenti medievali da lui consultati per la stesura del romanzo, Eco, oltre a confermare di essersi basato su Grandezza e catastrofe di Bisanzio, di Niceta Coniate – personaggio inserito peraltro nel romanzo come interlocutore al quale Baudolino racconta la propria vita durante l’assedio di Costantinopoli del 1204 –, cita anche l’opera di Ottone Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca o Storia delle due città), nonché «tutti i testi milanesi sugli assedi di Crema», e conclude: «Questo è il mio metodo: vai a leggere la storia della scienza, e trovi delle cose avventurosissime. Per esempio i supplizi a cui venivano sottoposti gli imperatori di Bisanzio sembrano un’invenzione del Marquis de Sade, ma li racconta Niceta […]. Molti testi medievali realmente esistenti vengono poi presentati nel romanzo come invenzione di Baudolino. Per esempio l’epistolario con l’imperatrice, che è un vero testo medievale che è anche stato pubblicato, ma non si sa bene se appartiene ad Abelardo ed Eloisa o se ha un’altra origine» (T. Stauder, Colloqui con Umberto Eco, La nave di Teseo, Milano 2024, cap. 4).
Il riferimento è alle Epistolae duorum amantium (Lettere di due amanti), più di cento lettere, o piuttosto estratti di lettere, fra due corrispondenti siglati rispettivamente V e M – abbreviazioni scioglibili in vir e mulier –, di cui almeno una cinquantina attribuibili alla donna (mulier), e un numero leggermente maggiore all’uomo (vir): lei, una colta allieva; lui un maestro (magister) illustre ed invidiato. L’epistolario, databile alla prima metà del XII secolo, traccia il disegno di una storia d’amore fra i due, fisicamente lontani l’uno dall’altra, senza connotazioni geografiche o contestuali, salvo pochi riferimenti alla Francia, e, come molte altre opere medievali (v. ad esempio L'Ecloga di Teodulo: un puzzle insoluto), anche questa è avvolta da non pochi misteri: è stato ipotizzato che si tratti di un ‘falso’ di età umanistica, attribuibile al copista del XV secolo Giovanni de Vepria; accettandone l’autenticità e la relativa collocazione al XII secolo, incertezze gravano sulla sua provenienza geografica – originariamente collocato in area francese, è stata più recentemente avanzata l’ipotesi di una sua origine italiana –; polemiche hanno avvolto le figure dei due amanti, la cui esistenza è stata a più riprese messa in dubbio, sostenendo che l’intera corrispondenza sia opera di un unico autore, laddove, al contrario, c’è stato chi ha voluto riconoscere in loro Abelardo ed Eloisa, ecc. L’idea oggi prevalente è che le lettere siano autentiche, scritte da un uomo e da una donna non identificabili e poi verisimilmente sistemate e riorganizzate nel XV secolo da Giovanni de Vepria, ma molte domande restano tuttora senza risposta: né si può negare che la storia dei due innamorati leggibile fra le righe mostri stretti paralleli con quella di Abelardo ed Eloisa e che la coppia abbia molte somiglianze con i due più celebri amanti.
Contrariamente a quello immaginario fra Baudolino e Beatrice, il rapporto fra i due amanti che emerge dalle lettere è abbastanza movimentato, con fraintendimenti, recriminazioni, liti, pretese infedeltà, riconciliazioni, e, nella vasta gamma di emozioni che emergono dalle lettere della donna – l’ennesima donna condannata per secoli ad una sorta di oblio letterario – trovano posto l’amarezza, il perdono, la deferenza, il biasimo, il rimpianto, la passione, la tristezza, la gioia, l’ardore sensuale, l’adorazione, il desiderio di morte…
Con qualche poco significativa libertà nelle citazioni, gli estratti scelti da Eco riconducono rispettivamente alle epistole maschili 20, 50, 85; alle femminili 1 e 5; alla maschile 6; alle femminili 18 e 84 (Epistolae duorum amantium, ed. Ewald Könsgen, Brill, Leiden und Köln, 1974).
Rimanendo nell’ambito degli epistolari e delle scrittrici ‘dimenticate’, le lettere della donna sconosciuta al proprio maestro trovano un precedente significativo nella raccolta in versi nota col nome di Carmina Ratisponensia (Poesie di Ratisbona), risalente alla fine dell’XI secolo o al più tardi agli albori del XII, in cui una trentina di lettere poetiche sono scritte, almeno apparentemente, da giovani ragazze di una scuola monastica di Regensburg (Ratisbona) e indirizzate al loro maestro: un vivace scambio epistolare, di cui le allieve appaiono come le principali protagoniste. Spesso frammentari e di non facile interpretazione, questi brevi componimenti, a volte licenziosi, testimoniano, da parte delle allieve, affetto, gratitudine, devozione e adorazione per il maestro, ma anche gelosie e risentimenti, biasimo per taluni suoi comportamenti, nonché a volte irriverente derisione, e – ciò che è più notevole – contengono orgogliose e sorprendenti ‘rivendicazioni’ femminili. Su quale sia la genesi della raccolta permangono non pochi dubbi: si è ragionevolmente supposto che i componimenti possano essere frammenti sparsi di un libello poetico perduto, opera forse dal maestro stesso, che avrebbe in esso raccolto l’audace scambio epistolare con le sue allieve; così come si è avanzata l’idea che le allieve fossero semplicemente impegnate in una scolastica esercitazione letteraria. Quello che sia, resta il fatto che, a prescindere dalla talvolta scarsa rifinitura dei versi e dal linguaggio spesso oscuro, le giovani donne che a qualche titolo ne sono autrici, al di là dei loro limiti artistici, mostrano di avere conquistato dei nuovi territori nell’espressione della propria femminilità, e di avere soprattutto acquistato sicurezza. Vicine a Dhuoda, per la capacità di fondere espressioni proverbiali con altre intime e personali, di usare sententiae note e prefissate per esprimere i propri personali affetti; vicine anche a Rosvita, per gli slittamenti fra sofisticatezza e apparente ingenuità (v. Scrittrici ‘invisibili’ fra V e IX secolo, Il teatro nel Medioevo, Rosvita di Gandersheim), queste giovani donne se ne allontanano infatti, almeno in parte, per il tipo di rapporto col mondo maschile che sembrano prefigurare: non a caso, almeno alcune di loro non sentono più il bisogno di sottolineare il loro essere ‘soltanto’ donne, creature deboli e inferiori rispetto all’uomo, ma rivendicano il proprio ruolo sociale, proponendo agli uomini che frequentano la loro società un ideale di comportamento gentile e cortese, colto, raffinato e misurato, attento ai desideri femminili. Basti leggere ad esempio i seguenti versi:
«Amiamo solo gli uomini modellati dalla prudente Eccellenza, / che Misura ha avvertito la riguardassero con deferenza…/ Ovidio, quel cavaliere di Amours (Amori) non casti, vi ha stregato, / persuadendovi ad amare il poema / in cui vengono sedotti, non resi migliori, uomini infelici…/ La grazia di una donna concederà tutto quanto è onorevole – questo darà a chi sempre chiede ammodo».
E ancora:
«Che gli uomini che l’impudicizia diletta si allontanino dalla nostra compagnia, / se sei di tal fatta sta’ lontano! / Perfino uomini provati in mille modi sono appena ammessi…/ Come per coloro cui Eccellenza vuole che diamo il nostro pegno…/ che siano opportunamente raffinati, con bei modi. / Per colui che ha acquistato un nome per cortesia come il nostro, la nostra virginale compagnia desidera la grazia della gioia» (citazioni tratte da P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1986, p. 129).
Se le ragazze di Regensburg non hanno nome, e anonime sono le loro poesie, conosciamo invece l’autrice di una lettera poetica indirizzata, sul finire dell’XI secolo, al poeta e scrittore francese Baldrico o Balderico di Bourgueil (1046–1130) da una giovane suora del convento di Le Ronceray, ad Angers in Francia. La lettera, firmata col nome di Costanza, è la risposta ad una di Baldrico, e ci è stata conservata all’interno del corpus poetico di Baldrico stesso: essendo l’unica risposta di un destinatario presente nella raccolta, da alcuni studiosi si è supposto trattarsi di una finzione letteraria ad opera di Baldrico, ma numerosi elementi ne confermano l’autenticità.
La lettera di Baldrico, in ottantanove distici elegiaci, è la lettera di un giovane ammiratore ad una più giovane donna, e, pur nella celebrazione di una amicizia spirituale, con ripetute affermazioni di un amore puro e libero dal veleno dei sensi, si rivela in realtà piena di giochi di parole, di sottintesi, di mondane civetterie, come, ad esempio, «La tua nuda mano toccherà la mia nuda pagina… puoi tranquillamente tenerla nel tuo grembo»; o ancora «Tu sei per me di più, migliore e maggiore, di una dea, di una vergine, di ogni amore che c’è; tu sei per me più di quello che Paride fu per Elena, Venere per Marte, Giunone per Giove»; e ancora «Tu potresti tirare il potente Giove giù dai cieli»: una vera e propria prova di virtuosismo, dove le emozioni non vengono mai apertamente rivelate, dove gli elogi e le dichiarazioni d’amore esagerate evocano lo scherzo, dove l’erotismo è mascherato dietro suggestioni verbali… La replica di Costanza – anch’essa di ottantanove distici elegiaci –, uniformandosi al genere di composizione preferito da Baldrico, che solitamente amava usare come modello le Heroides (Lettere di eroine) di Ovidio, è una sorta di moderna lettera nello stile appunto delle Heroides, con alcuni elementi biblico-cristiani: una lettera in cui le capacità e le astuzie letterarie sembrano tenere a bada una sorta di irrequietezza dell’anima, lasciando però trasparire un sentimento delicato e profondo, una intrinseca difficoltà a non trasgredire le convenzioni sociali, un insieme tumultuoso e a volte contraddittorio di pensieri e fantasie, ed anticipando in qualche modo quell’angoscia che, pochi decenni dopo, segnerà drammaticamente la vita di Eloisa. Questi sono alcuni brevi passi:
«Ho messo la lettera sotto il mio seno sinistro: dicono che sia più vicino al cuore… Infine, stanca, cercai di andare a dormire, ma l’amore risvegliato non sa della notte… Dormiente giaccio (no, insonne) per la pagina che hai scritto, che, pur stando sul mio seno, ha infiammato il mio grembo… Oh se solo potessi vivere come sposa di Dio! Eppure non odio il tuo amore per questo: la sposa deve amare i servi del suo Dio… Ma se tu preferisci e vuoi un’altra donna, sappi che questo non è uno scherzo… Dio condanna i bugiardi e i malfattori, e tu sei l’uno o l’altro, o anche le due cose insieme! Ma possa Dio correggerti, reprimere questo in te: non posso dimenticarti, turbata come sono…» (citazioni tratte da P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo, p. 123-126).
Nella folta schiera di quelle che abbiamo definito “scrittrici invisibili” (v. Sulpicia e le altre, Vibia Perpetua, Le discepole di san Girolamo, Scrittrici ‘invisibili’ fra V e IX secolo) ci sono dunque anche numerose rappresentanti dei secoli XI/XII. Costanza, le ragazze di Regensburg e la sconosciuta donna delle Lettere di due amanti scrivono in latino e parlano di sé e della propria visione dei rapporti umani, così come, a partire dalla seconda metà del XII secolo, è personale la poesia delle numerose scrittrici in lingua provenzale – le trobairitz o trovatrici –, di cui peraltro conosciamo diversi nomi: ma, in questi due secoli, le donne si cimentano anche con la narrativa, l’innografia, la favolistica e persino l’enciclopedismo, inserendo comunque molto spesso, anche in questi generi letterari, spiragli di consapevolezza femminile, piccoli dettagli umani, sensazioni personali.
Questo può valere, ad esempio, per Frau Ava, autrice di poemi religiosi in tedesco nell’Austria del primo XII secolo; per Herrat (o Herrada) di Landsberg, con la sua enciclopedia – l’Hortus deliciarum –; e ancora di più per Maria di Francia con la sua raccolta di favole – l’Isopet – e i suoi Lai.
Senza inoltrarci in un ambito troppo complesso e specialistico, senza cioè affrontare in alcun modo l’esame dei loro testi alla ricerca degli elementi ‘femminili’ in essi presenti, vale comunque la pena di accennare alla produzione letteraria di queste ultime tre scrittrici.
È ben poco ciò che conosciamo della vita di Frau Ava, la prima donna nota per avere scritto in tedesco: forse da identificare con Ava la reclusa, la monaca del convento di Melk, in Austria, morta nel 1127, sappiamo dai versi conclusivi del suo poema, Il giudizio finale, che era madre di due figli, uno dei quali già morto, e che proprio i figli le avevano spiegato il significato profondo degli episodi biblici da le raccontati. Oltre al Giudizio finale, altri titoli sono Giovanni Battista, Vita di Gesù, L’Anticristo.
Anche di Maria di Francia, la più antica poetessa francese, non si sa molto. La si è voluta talvolta identificare con Maria di Champagne, ma la cosa non è affatto accertata. «Marie ai num, si sui de France / Il mio nome è Maria, e vengo dalla Francia»: questa è la firma che la scrittrice lascia nell’epilogo della sua raccolta, ed è di fatto tutto ciò che sappiamo di lei con sicurezza. Vissuta probabilmente in Inghilterra nella seconda metà del XII secolo, era sicuramente una donna molto colta, che conosceva il latino, l’inglese, la letteratura contemporanea francese, quella provenzale e la letteratura cortese. Oltre che alle favole, il suo nome è legato a una dozzina di “lais” (laid, in irlandese antico, significa “canzone”, “melodia”): Maria usa in modo del tutto nuovo quella che inizialmente era un’opera in cui la musica accompagnava il racconto di antiche leggende, trasformando i lai in più o meno brevi racconti in versi di argomento amoroso e d'ambiente fiabesco, avventuroso e romanzesco. È anche autrice di un volgarizzamento francese del Tractatus de Purgatorio Sanctii Patricii del monaco inglese Henry di Saltrey, e la sua traduzione, dal titolo Espurgatoire Saint Patriz, una delle più celebri e conosciute versioni poetiche francesi del testo, rappresenta una tappa importante del percorso che, fra XII e XIII secolo, porterà alla ‘stabilizzazione’ del Purgatorio come luogo intermedio fra Paradiso e Inferno. Quanto all’Isopet (Esopo) il testo si inserisce all’interno della vastissima e complessa tradizione favolistica medievale, e, secondo alcuni studiosi, rappresenterebbe il salto di qualità della favola medievale di animali al livello di opera d’arte.
Sempre nel XII secolo si colloca infine l’opera di Herrada (o Herrat o Herrad) di Landsberg, l’Hortus deliciarum, una raccolta organica di testi sulle arti liberali, in latino, corredata da bellissime miniature, che, prima enciclopedia redatta da una donna, è di fatto definibile come la prima enciclopedia illustrata dell’Occidente.
«Per amor vostro – scriveva nella Prefazione la badessa del monastero di Hohenburg in Alsazia, rivolgendosi a religiose e religiosi – ho composto questo libro sotto l’ispirazione di Dio e in onore di Cristo e della Chiesa. Come una vivace piccola ape, ho estratto il succo dai fiori della letteratura divina e filosofica e ne ho fatto un favo colmo e stillante di miele, affinché i dolci diletti spirituali del vostro Sposo celeste ricreino la vostra anima quando è abbattuta, vi preservino dalle vanità di questo mondo e vi esortino all’eterna beatitudine».
Benché l’unico manoscritto dell’Hortus deliciarum sia andato distrutto nel 1870, durante il bombardamento di Strasburgo, attraverso le diverse copie e riproduzioni parziali, le varie testimonianze e i compendi trascritti durante i sette secoli della sua vita, è stato possibile farne una più che attendibile ricostruzione virtuale: ricostruzione culminata con l’edizione del Warburg Institute del 1979 (Hortus Deliciarum: Reconstruction).