Ci eravamo chiesti in che modo la silloge Trotula ci parlasse: cosa ci dicessero questi testi in merito alle teorie mediche medievali sul corpo femminile; cosa ci rivelassero riguardo all’impatto della nuova medicina araba; e, soprattutto, riconoscendoli come testimonianza di scrittura femminile, che cosa ci comunicassero sulla visione che la donna aveva del proprio corpo e sulle circostanze sociali della salute femminile (v. 4. Trotula e la “Trotula”).
Torniamo ora alla terza domanda: se anche una sola parte del corpus è di scrittura femminile – o quantomeno ricondubile ad una donna –, o, meglio ancora, se è vero che i tre trattati, indipendentemente dai rispettivi autori, tramandano comunque i princîpi fondamentali della dottrina di Trotula, che cosa ci può comunicare la figura di Trotula? Che cosa si può evincere dalla intera silloge, o anche soltanto dai Trattamenti delle donne in merito alla sua visione del corpo femminile e al legame fra salute femminile e condizione sociale?
Prendiamo le mosse da un passo, che appare particolarmente interessante per quanto concerne l’esistenza di Trotula e delle sue pratiche mediche:
«Vi sono delle donne – si legge – che ricevono vento attraverso la vagina, il quale, essendo ricevuto a destra o a sinistra della matrice, genera così tanta ventosità che esse paiono soffrire di una lacerazione interna o di un problema intestinale. Di qui accadde che Trotula fosse chiamata come maestra di questa operazione allorché una certa giovane donna stava per essere operata per una ventosità di questo tipo come se soffrisse di una lacerazione, ed essa ne restò del tutto meravigliata. Pertanto, invitò la donna nella sua dimora così che in segreto potesse determinare la causa della malattia. In conseguenza di ciò, essa riconobbe che il dolore non proveniva da una lacerazione o da gonfiore della matrice ma dalla ventosità. E allora fece sì che per la donna fosse approntato un bagno nel quale erano state cotte altea (malva bianca) e parietaria, e la mise lì dentro. Poi massaggiò i suoi arti spesso e dolcemente, ammorbidendoli, e per lungo tempo la fece restare nel bagno. Dopo che ne fu uscita, fece per lei un impiastro con succo di rapastrello (rapa selvatica) e farina d’orzo, e lo applicò su di lei un poco caldo in modo che consumasse la ventosità. E di nuovo la fece sedere nel bagno summenzionato, e così essa guarì» (par. 151).
Nell’aneddoto, ci si riferisce a Trotula in terza persona: il che lascerebbe supporre che non sia lei l’autrice. Ma allora perché gli antichi copisti attribuivano a Trota il testo? La Green sostiene che essi mirassero di fatto ad attestare non che Trota fosse l’autrice del testo quanto che essa rappresentava l’autorità che vi stava dietro; sempre secondo la Green, un’altra ipotesi – avvallata da una frase presente in un manoscritto – è che i Trattamenti riflettano una trascrizione delle cure di Trota, così come potrebbe averle «dettate oralmente lei stessa a uno scriba, il quale poté aver aggiunto in seguito ulteriori elementi da lui/lei stesso/a prescelti» (p. 87).
In ogni caso, a prescindere dal suo valore come attestazione dell’esistenza della nostra medichessa, e al suo riconoscimento come autrice o meno del trattato, cosa ci racconta questo aneddoto?
Abbiamo dei medici, sicuramente uomini, che propongono una drastica terapia chirurgica: medici a scusante dei quali va detto peraltro che non potevano effettuare una visita ginecologica, dal momento che – a quanto risulta – non era loro nemmeno consentito un esame esterno dell’apparato genitale, pudoris causa, ma dovevano basarsi su ciò che loro collaboratrici riferivano. Trotula, dopo aver visitato la giovane donna rimane «del tutto meravigliata»: stupore che con ogni probabilità le deriva dalla diagnosi errata di chi l’ha preceduta. Instaura quindi con lei un rapporto più personale, portandola a casa propria: ed è lì, all’interno di una sorta di intimità, che riesce ad individuare la causa del disturbo, e ad individuare di conseguenza la giusta terapia. Ed è, per di più, una terapia assolutamente non invasiva. Peraltro, le erbe usate hanno proprietà emollienti, lenitive, antinfiammatorie, rilassanti, antispasmodiche, diuretiche, sudorifere, depurative, tutt’oggi riconosciute.
Abbiamo così un indizio su quello che era il procedimento adottato da Trotula con le sue pazienti: ogni malata rappresentava un caso a sé, da esaminare instaurando con lei un rapporto, da curare fin dove possibile con metodi naturali. Per quanto concerne poi il contesto generale, come giustamente fa notare la Green, i Trattamenti, pur utilizzando gran parte delle stesse categorie presenti in Malattie delle donne, presenta differenze notevoli, lasciando trasparire una concezione sostanzialmente diversa sulla natura dei problemi femminili, e, soprattutto, prestando una maggiore attenzione ai bisogni più immediati e concreti delle donne. Questo pragmatismo si manifesta per un ampio ventaglio di problematiche (dal controllo della vescica nelle donne più anziane alle labbra screpolate per i troppi baci; dal dolore del seno nell’allattamento al prolasso uterino); e anche per l’attenzione alle preoccupazioni quotidiane delle donne (pidocchi, scabbia, pruriti vari, alito, denti neri, allentamento dei denti, rughe, ecc.). Ed è un pragmatismo che potremmo definire laico, come si evince chiaramente dal modo in cui viene affrontato e analizzato ciò che attiene alla sfera della sessualità: intesa come componente fondamentale di un organismo sano, se ne affrontano, senza alcuna traccia di moralismo, diversi aspetti, come ad esempio quello dell’astinenza forzata. Recita il par. 141:
«Vi sono delle donne alle quali non è permesso il commercio carnale, a volte perché sono legate a un voto, a volte perché sono vincolate dalla religione, a volte perché sono vedove, dal momento che ad alcune donne non è concesso prendere voti fecondi. Queste donne, quando abbiano desiderio di congiungersi e non possono farlo, incorrono in gravi malattie. Per queste donne pertanto si disponga il seguente rimedio. Prendi del cotone e olio di muschio o di puleggio (mentuccia), ungilo e inseriscilo in vagina. Se manchi di un simile olio, prendi trifera magna (un antico preparato farmaceutico, composto da una densa miscela di spezie, erbe e miele, ancora ben noto anche nel XVIII secolo), e scioglila in un poco di vino caldo, e con del cotone o della lana umida inseriscila in vagina. Entrambi questi rimedi dissipano il desiderio e sedano la sofferenza».
Carattere fortemente pragmatico ha anche quello che potremmo chiamare il restauro della verginità, al cui fine troviamo ben sei ricette, fornite in gruppo:
«Un costrittore per la vagina da impiegare per far sì che le donne appaiano come fossero vergini. Prendi degli albumi d’uovo e mescolali con acqua in cui siano stati cotti puleggio (mentuccia) e erbe calde di simile tipo, e con un panno di lino nuovo intinto in essa, inseriscili in vagina due o tre volte al giorno. E se di notte essa dovesse urinare, lo si rimetta di nuovo. E si noti che prima di ciò la vagina dovrà essere lavata bene con la stessa acqua calda nella quale queste sostanze sono state stemperate» (par. 190). «Prendi la corteccia appena ricresciuta di un leccio. Dopo averla tritata, scioglila in acqua piovana, e con un panno di lino o di cotone inseriscila in vagina nella maniera summenzionata. E rimuovi tutte queste cose prima dell’ora in cui inizi il congiungimento sessuale» (par. 191). «Allo stesso modo, prendi della polvere di natron (minerale che corrisponde al carbonato di sodio) o di rovo e inseriscila all’interno: essa costringe la vagina in maniera mirabile» (par. 192). «Similmente, vi sono delle prostitute sporche e corrotte che desiderano essere trovate più che vergini. Esse preparano un costrittore a questo fine, ma sono male avvisate, divengono sanguinolente e ledono il membro maschile. Prendono vetro e natron e li riducono in polvere e li inseriscono in vagina» (par. 193). «In un’altra maniera, prendi galle di quercia, rose, sommaco (pianta della famiglia delle anacardiacee), piantaggine, consolida-maggiore (boragine), bolo armeno (minerale argilloso), allume e argilla smectica, un’oncia di ciascuno. Falli cuocere in acqua piovana e con quest’acqua fai fomentare le parti intime» (par. 194). «Affinché sia migliore, ciò che segue andrà fatto la notte prima delle nozze: fa che inserisca delle sanguisughe in vagina (ma si faccia attenzione a che non penetrino troppo in fondo), così che ne venga fuori del sangue e si trasformi in grumo. E così l’uomo sarà ingannato dall’effusione di sangue» (par. 195).
Come si può vedere, il gruppo dei rimedi si apre con una affermazione molto schietta, senza nessun tipo di giustificazione di ordine morale, e senza indicazione alcuna di finalità: produrre una falsa impressione di deflorazione? Aumentare il piacere sessuale? La risposta sembra essere in qualche modo suggerita dalle parole conclusive dell’ultimo rimedio descritto («E così l’uomo sarà ingannato dall’effusione di sangue»): ma, in questo caso, si tratta palesemente di un rimedio diverso, strettamente collegato alla fuoriuscita di sangue. L’unica riprovazione espressa è riguardo alle prostitute, «sporche e corrotte», ma, anche in questo caso, l’accento sembra porsi principalmente sulla nocività del rimedio: peraltro, proprio la condanna delle prostitute implica il consenso implicito per tutti gli altri casi di simulazione della verginità. In una cultura come quella del tempo, con l’onore della donna confinato alla sua purezza sessuale, queste ricette, se ben riuscite, avrebbero potuto fare la differenza per diverse donne: tra matrimonio e sicurezza da una parte, isolamento sociale e povertà dall’altra.
Sicuramente, un atteggiamento del genere nei riguardi della sessualità, soprattutto se assunto da una donna, non poteva non caratterizzarla – credo – in maniera negativa, quando si uscisse fuori dall’ambito prettamente medico: e sicuramente la parte della silloge Trotula relativa ai Trattamenti, per il linguaggio usato, per le sue caratteristiche pragmatiche, per il suo essere una sorta di prontuario, ben poteva avere diffusione e uso fra le donne, a prescindere dal suo utilizzo professionale da parte dei medici, cosa indirettamente comprovata dal racconto di Rutebeuf. Peraltro, anche nel cosiddetto primo trattato, ovvero quello sulle Malattie – di connotazione senza dubbio più medico-scientifica, con riferimenti continui a Galeno, Ippocrate ed altri medici, e riprese notevoli da trattati arabi –, compare lo stesso atteggiamento. Si leggano, ad esempio, i paragrafi 45-50, relativi al «soffocamento uterino», in cui si afferma che conseguenza di una prolungata inattività sessuale sarebbe la mobilità dell’utero, il quale, vuoto di liquido seminale, comincerebbe a muoversi dirigendosi verso organi quali il fegato e la vescica, ricchi di umori e fluidi: questi dirottamenti dell’utero provocherebbero una sensazione di soffocamento, di asfissia, di confusione mentale, che potrebbe culminare in uno stato comatoso, e, conseguentemente, si forniscono i rimedi per quelle donne, vedove o vergini, che debbano forzatamente astenersi da rapporti sessuali. O si leggano, ancora, i paragrafi 84-87, con le fantasiose (per noi) ricette anticoncezionali.
Ed è questo un atteggiamento che ritorna nella Cosmetica, dove si legge:
«In modo che una donna che sia stata corrotta possa essere presa per una vergine. Prendi una o due once ciascuna di sangue di drago, bolo armeno, cannella, buccia di melagrana, allume mastice e galle di quercia, oppure quanto vorrai di ciascun ingrediente preso singolarmente, e riducili in polvere. Tutte queste cose, dopo cha siano state riscaldate un poco in acqua, fa che siano preparate insieme. Metti un poco di questa preparazione nell’apertura che conduce alla matrice. In un’altra maniera, affinché la vagina ne venga ristretta. Prendi ematite, galle di quercia, bolo armeno e sangue di drago, pesta ciascuno molto finemente in modo che la polvere possa passare attraverso un panno, e mischia la polvere con succo di piantaggine e fa seccare al sole. E quando desidererai farne uso, prendi della polvere con il succo summenzionato e inseriscila per mezzo di un pessario (un batuffolo allungato, a forma di tampone, fatto di cotone o altri materiali), e fa che essa giaccia per un poco con le cosce e i fianchi tenuti stretti tra loro. Questa polvere è valevole per il flusso del sangue dal naso e per eccesso di mestruo. Un altro. Prendi galle di quercia e mettile in acqua, e con questo decotto fa che si lavi la vagina, e spargi sopra una polvere di bolo armeno e galle di quercia, e si restringerà» (parr.307-309).
Sulla base di tutti questi passi, se torniamo a Chaucer, e al libro delle «donne cattive» (v. 1. Il libro delle «donne cattive») di cui parla la Donna di Bath, credo che possiamo capire meglio il perché dell’inserimento fra loro della nostra Trotula. Anche se alcuni hanno avanzato l’ipotesi che Chaucer avesse letto solo il titolo dell’opera e ne ignorasse completamente il contenuto medico, mentre altri hanno pensato che volesse alludere al libro della Cosmetica (i cui consigli, atti a valorizzare artificialmente la donna, potevano apparire come incentivi all’astuzia e alla falsità femminile), credo sia più logico pensare allo scarto, per così dire immorale, fra morale e sessualità di cui Trotula – tutta la silloge Trotula – si fa portatrice.
Proprio questi passi, messi a confronto fra loro, con le loro strette somiglianze, mi fanno inoltre pensare che, pur dovendo quasi sicuramente accettare il fatto – direi ben dimostrato dalla Green – che i tre trattati non appartengano tutti a Trotula quale autrice, possano però di fatto tramandarci, tutti e tre, – come molti sostengono – quelli che erano i principi della sua dottrina e della sua pratica: che cioè il titolo Trotula dato alla silloge abbia una sua ragion d’essere più valida del semplice accostamento di tre testi, uno solo dei quali attribuito e attribuibile alla celebre guaritrice.