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"Sia bbenedetto li Papa Leoni" - La medicina fra speranza e rifiuto

2022-02-17 11:36

Claudia Pandolfi

Divagazioni moderne, La peste da Tucidide a Seneca, Epidemie di vaiolo, Vaccinazioni, Gioacchino Belli, La "fides" nel patto sociale, Epidemie, Patto sociale e "fides",

"Sia bbenedetto li Papa Leoni" - La medicina fra speranza e rifiuto

La peste rappresenta fin dall’antichità un topos, presente in diversi generi letterari, a partire dalla descrizione della peste di Atene del 430 a. C.

La peste rappresenta fin dall’antichità un topos, presente in diversi generi letterari, a partire dalla descrizione della peste di Atene del 430 a. C. raccontata da Tucidide (Storie, II, 47-54). Nel mondo latino, la cronaca dell’epidemia offerta da Tucidide ha una splendida rilettura in Lucrezio, che parla di mortifera cladis, morborum pestilitas, mortifer aestus  (La natura, VI, 1090-1286, e in particolare 1138-1286); Virgilio riferisce della peste (morbus) del Norico, nell’attuale Austria, con la terribile moria di bestiame che finì col colpire anche gli uomini (Georgiche, III, 478-566); nel libro VII delle Metamorfosi, Ovidio narra della terribile pestilenza (luesmortale malum, morbus, pestis) inviata dalla dea Giunone sull’isola di Egina (vv. 523-614), e nel XV, a partire dal v. 626, di quella (dira lues) che colpì il Lazio e che fece nascere a Roma il culto di Esculapio, di cui parla anche Livio (Storia di Roma, X, 47); lo stesso Livio ricorda diverse pestilenze (pestis, pestilentia), più o meno gravi, che colpirono Roma (II, 34 – III, 2, 6 – IV, 21, 25, 52 – V, 3, 14 – VI, 4, 21 – VII, 1, 3, 27 – VIII, 3, 17 – IX, 28 – X, 31 – XXVII, 5, 23 – XXVIII, 8, 46 – XL, 3, 19, 36, 42, ecc.); nella tragedia Edipo, Seneca fa parlare il protagonista della peste (lues, pestis) a Tebe (vv. 29-81, 124-201)… Andando avanti, diverse fonti greche e latine riferiscono di orribili epidemie che colpirono l’impero romano: dalla cosiddetta peste Antonina nel II secolo a quella di Cipriano nel III, fino a quella di Giustiniano, protrattasi per circa due secoli dal sesto all’ottavo.  

Sotto il nome generico di peste si celano in realtà malattie diverse, riconosciute dalla medicina solo secoli dopo, e, per l’antichità, non sempre, dalle descrizioni, è possibile identificare di quali specifiche malattie si trattasse: riguardo alla peste di Atene, ad esempio, si avanzano ipotesi diverse, che comprendono vaiolo, tifo, morbillo; la peste descritta da Virgilio è stata da alcuni identificata come un’epidemia di afta epizootica; vaiolo o morbillo sono le principali supposizioni relative alla peste Antonina; per la peste di Cipriano i sospetti includono ancora una volta il vaiolo, o un’influenza particolarmente aggressiva e contagiosa, o una febbre emorragica; la peste di Giustiniano è generalmente riconosciuta come peste bubbonica, causata da un batterio molto simile a quello responsabile della peste nera che colpì l’Europa del XIV secolo… Ma, indipendentemente dalle varie forme che la peste potesse assumere, indipendentemente dai quadri clinici più o meno simili che emergono dalle descrizioni, ciò che, nell’antichità, sembra accomunare il racconto di tutte le pestilenze – a prescindere dalla maggiore o minore crudezza, dal maggiore o minore impatto emotivo – è la constatazione della totale impotenza da parte della medicina: l’ineluttabilità della morte, la certezza di morire e lo strazio dell’attesa, l’assenza di ogni speranza di guarigione fin dall’insorgere dei primi sintomi sono ciò su cui le fonti, a partire da Tucidide, non mancano di soffermarsi.  

«Un tale contagio e una tale strage non erano avvenuti in nessun luogo a memoria d’uomo: perché non bastavano a fronteggiarla neppure i medici, che, non conoscendo la natura del male, lo trattavano per la prima volta; anzi loro stessi morivano più degli altri, in quanto più degli altri si accostavano al malato, e nessun’altra scienza o arte umana era utile contro la pestilenza. Tutte le suppliche fatte nei luoghi sacri, il ricorso agli oracoli e ad altre cose del genere risultavano inutili, e alla fine, sopraffatti dal male, gli uomini desistettero da ogni tentativo […].  Alcuni morivano per mancanza di cure, altri nonostante un’assistenza assidua e precisa. Non esisteva, per così dire, nessuna medicina particolare che si potesse applicare e risultasse universalmente positiva: la cura che per uno si dimostrava utile era nociva per un altro […]. Il lato più terribile della malattia era lo scoraggiamento da cui uno era preso non appena si faceva strada la certezza di avere contratto la malattia (la disperazione prostrava rapidamente lo spirito, ci si lasciava andare molto di più e non si era in grado di resistere al morbo); inoltre, il fatto che, per curarsi a vicenda, le persone si contagiavano e morivano l’una dopo l’altra, come le pecore»  (Tucidide, Storie, II, 47-51).

  

«Non c’era requie al male: giacevano stremati i corpi. La medicina si chiudeva titubante in un pavido silenzio, quando, tante volte, i malati ruotavano gli occhi brucianti per la malattia e per la privazione del sonno […]» (Lucrezio, VI, 1178-1181).  

 

«Ormai del resto non ha senso cambiare i pascoli, e si rivelano nocivi i rimedi tanto cercati; i grandi medici hanno rinunciato, il Filliride Chirone e Melampo di Amitaone […]» (Virgilio, Georgiche, III, 548-550).  

 

«Non c’era nessuno che potesse porre un freno al male: fra i medici stessi dilagò la strage, le cure finirono col nuocere a chi le apprestava […]» (Ovidio, Metamorfosi, VII, 561-562).  

«Stanchi di vedere la gente morire, dopo essersi resi conto che a nulla valevano i tentativi umani, a nulla valevano le arti mediche, chiesero l’aiuto divino […]» (Ovidio, Metamorfosi, XV, 628-630).  

 

«Nessuna preghiera, nessuna scienza riesce a dare sollievo a chi è stato afferrato dal male: cadono morti i medici, il morbo trascina con sé chi cerca di aiutare […]» (Seneca, Edipo, 69-70).     

 

Per lungo tempo, vaiolo e morbillo furono confusi. Ad indicare le differenze fra le due malattie, in un breve libro Sul vaiolo e il morbillo, fu per primo, nel 930, il medico persiano Abu Bakr Muhammad Al-Razi (o Rhazes), ed è dunque a lui che si deve la prima vera descrizione del vaiolo. Poco dopo, sempre nel X secolo, il vaiolo trovò una accurata descrizione nel Canone della medicina del persiano Avicenna, precisamente nel libro IV del Canone, dedicato alle febbri pestilenziali, al vaiolo e al morbillo (nella traduzione latina, De febribus pestilentialibus […] et variolis, et morbillo): il vaiolo è trattato nei capitoli dal 6 al 12. A tradurre dall’arabo le loro opere, rendendole così accessibili all’Occidente, fu, nella seconda metà del XII secolo, l’italiano Gerardo da Cremona, che lavorava all’interno di un gruppo di traduttori operante in Spagna, a Toledo, nell’ambito di un generale impulso all’assorbimento di testi scientifici arabi: e, una volta leggibile, Il Canone (Liber canonis medicinae) divenne uno dei testi chiave della medicina occidentale, continuando ad occupare una posizione di grande rilievo fino a quasi tutto il Cinquecento.  

Sennonché, quando il vaiolo scoppiò virulento e si presentarono tremende epidemie, le cure proposte non si rivelarono efficaci.  

Nel XVI secolo, le epidemie determinate dalla colonizzazione nel  Nuovo Mondo causarono vere e proprie stragi. Nel XVIII secolo, fu l’Europa a conoscere una esplosione devastante del virus, con tassi altissimi di mortalità e gravi danni permanenti all’aspetto e alla salute dei sopravvissuti.  

La ‘vecchia’ medicina era impotente, nuove cure si dimostravano inutili ed occorreva aprirsi a nuovi orizzonti: ci si concentrò dunque sulla profilassi, e si introdusse in Europa il metodo della variolizzazione (variolae erano chiamate, in latino, le lesioni cutanee tipiche della malattia), che proveniva dal mondo arabo, e che, semplificando, consisteva nell’inoculare materiale prelevato appunto da lesioni vaiolose o dalle relative croste. Fra dubbi, inefficienza, pericolosità, casi di infezione e di morte, rifiuti e utilizzo limitato, la variolizzazione – che comunque contribuì notevolmente a ridurre la mortalità –, fu applicata fino al 1796, quando Edward Jenner iniziò a sperimentare il suo vaccino. E fu a seguito del successo ottenuto contro il vaiolo che la ricerca scientifica si impegnò ad estendere la vaccinazione ad altre malattie infettive.        

 

Nel 1822, nello Stato pontificio, allora guidato da Pio VII, era stata attuata una massiccia campagna vaccinale contro il vaiolo. Nella relativa legislazione veniva anche specificato come, per ottenere sussidi, benefici o premi, fosse necessario allegare un certificato di avvenuta vaccinazione: di fatto, un vero e proprio obbligo.    

L’obbligo era stato  rimosso meno di due anni dopo dal Papa Leone XII.  

Nuovo impulso alla campagna vaccinale era stato dato  nel 1831 dal successore di Leone XII – Papa Gregorio XVI –, che aveva anche disposto la vaccinazione obbligatoria per i detenuti.  

È proprio sotto il pontificato di Gregorio XVI –  ripetutamente vituperato dal poeta e da lui considerato imbelle, acquiescente, buono a nulla, vizioso, mangione, dilapidatore, ecc. – che, nel 1834, Gioacchino Belli scrive un sonetto contro la vaccinazione in lode di Leone XII.  

«Er linnesto. Sia bbenedetto li Papa Leoni, / e ssin che cce ne sò, Ddio li conzoli; / c’ha llibberato li nostri fijjoli / da st’innoccolerie de vormijjoni. /Vedi che bell’idee da framasoni  / d’attaccajje pe fforza li vaglioli /pe ffajje arisvejjà ll’infantijjoli  / e stroppiàcceli poi, come scroppioni! / Iddio scià mmessa la Madre Natura / su st’affari, coll’obbrigo prisciso /de mannà cchi jje pare in zepportura. / Guarda mó, ccazzo!, pe ssarvajje er viso / da du’ tarme, se leva a una cratura / la sorte d’arrobbasse er paradiso (L'inoculazione. Sia benedetto Papa Leone, e fin che ce n’è Dio lo consoli: ha liberato i nostri figlioli da queste inoculazioni di ‘morviglioni’ (o ‘morbiglioni’ = termine medico col quale all’epoca si indicava una malattia esantematica). Vedi che bell’idea da massoni, attaccargli per forza il vaiolo per far loro risvegliare le convulsioni e storpiarceli poi come scorpioni! Dio ha affidato a Madre Natura queste cose, con l’obbligo preciso di mandare chi vuole al cimitero. E guarda oggi, invece! Per salvargli il viso da due cicatrici si toglie a una creatura la fortuna di guadagnarsi il Paradiso)».  

Ci si può chiedere se l’io parlante del Belli – il suo popolano immaginario – sia in questo caso  strumento o bersaglio della sua satira: se cioè le sue parole riflettano il pensiero del poeta o se in esse si celi una possibile ironia contro la diffusione di certe convinzioni. E ci si può anche interrogare sulle motivazioni ‘politiche’ di un sonetto in lode di un Papa ormai defunto da tempo. 

Ciò che comunque è certo è il fatto che per il popolo minuto il vaccino era qualcosa di contro natura: qualcosa dietro il quale c’era la massoneria (dal 1811 al 1813 Jenner era stato di fatto Maestro venerabile della sua Loggia di appartenenza); qualcosa che rendeva storpi, toglieva spazio al ruolo affidato da Dio a Madre Natura, portava a non riconoscere il potere divino di decidere della morte o della vita.  

Cronache dell’epoca ci dicono però che contro l’inoculazione – fin dai suoi esordi in Europa – si schierarono anche buona parte del clero di base, medici cattolici, intellettuali di varia formazione: e le reazioni contrarie si inasprirono ancora di più nell’Ottocento, estendendosi nel ceto borghese, quando entrò in uso l’inoculazione d'un siero ‘mediato’ dagli animali (il vaiolo della vacca, da cui i neologismi “vaccino” e “vaccinazione”), che fu visto e sentito come una contaminazione animale del sangue umano, un’offesa alla sacralità dell’uomo.  

A suo tempo, Voltaire, nel ricostruire la storia della pratica vaccinale, dall’Arabia alla Circassia alla Turchia, riconduceva l’ostilità dei preti verso l’inoculazione a pregiudizi teologici, dovuti anche al fatto che si trattava di una pratica non cristiana, che proveniva dall’Oriente, dagli “infedeli”, e che solo tra gli islamici poteva avere successo (Lettera filosofica XI, Sull’inoculazione del vaiolo, 1734). La medesima cosa era stata  peraltro affermata in precedenza anche da un Gesuita, che, facendo ironia sui cattolici anti-innesto, aveva avuto a scrivere «Sembra quasi che temano che col vaiolo sia inoculato anche l’islamismo!» (G. Minois, Il prete e il medico, p. 260).  

Certo, ci si può stupire dell’ostilità al vaccino, soprattutto riflettendo sull’oggettiva inesistenza di possibili cure, sulla totale impotenza dimostrata dalla medicina, e sull’impressionante numero di morti – vecchi, adulti e bambini – causate dal vaiolo: riflettendo sul fatto che allora, come ad Atene «non c’era requie al male: giacevano stremati i corpi. La medicina si chiudeva titubante in un pavido silenzio, quando, tante volte, i malati ruotavano gli occhi brucianti per la malattia e per la privazione del sonno […]».   

 

Certo, si può fare dell’ironia sui pregiudizi teologici messi in campo da Voltaire, o sulla paura nei confronti degli islamici, o sui Massoni che avrebbero tramato nell’ombra, o sulla mescolanza impura di sangue umano e animale, o sulla intoccabile sacralità dell’essere umano…  Sta di fatto, però, che già il primo vaccino della storia – una delle più grandi innovazioni mediche – creò dibattiti, scontri politici ed ideologici… nonché qualche inevitabile dietrologia; sta di fatto che le preoccupazioni sull’efficacia, la sicurezza e gli effetti collaterali del vaccino si protrassero almeno fino agli anni ’50 del Novecento; sta di fatto che, nel corso dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, la questione maggiormente dibattuta fu quella dell’obbligatorietà o meno, della contrapposizione fra ‘bene pubblico’ e ‘libertà individuale’ (obbligatorietà sospesa in tutti i paesi solo a partire dagli anni ‘70/’80 del Novecento, data la pressoché totale scomparsa della malattia nel mondo); sta di fatto che le strategie argomentative messe in campo contro la vaccinazione per il vaiolo e il suo obbligo furono molto simili alle odierne (come dimostrano ampiamente i popolari opuscoli del medico canadese Alexander Milton Ross, pubblicati nel 1885 durante l’epidemia di vaiolo a Montreal).  

E allora, certo, si può fare dell’ironia, affermando che siamo fermi all’Ottocento, oppure che all’Ottocento siamo tornati; certo, si può e si deve riconoscere quale straordinario progresso sia stata l’eradicazione, grazie ai vaccini, di malattie come il vaiolo e la poliomelite; e, certo, si possono ricordare – magari con un po’ di nostalgia – l’adesione e la fiducia che, dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ’80 del Novecento, hanno caratterizzato il rapporto del ‘pubblico’ con la medicina e la scienza, da cui si pensava potesse giungere   la guarigione per ogni male.  

Pur nella divaricazione fra le varie rappresentazioni, sta di fatto, però, che gli anni ’80 sono stati segnati, nel bene e nel male, da mutamenti ideologici e sociali profondi, e si sono verificati eventi che hanno in seguito profondamente mutato il rapporto del pubblico con la politica, con la cultura, con la scienza, con la medicina… Proprio agli inizi degli anni ’80, causato dal virus HIV, è arrivato l’AIDS, un’epidemia che, a tutt’oggi, ha causato oltre 35 milioni di morti e circa 70 milioni di contagiati  nel mondo: e, al di là del triste ‘corredo’ di pregiudizi e discriminazioni, al di là dell’avere cancellato anni di liberazione sessuale e avere dato vigore alla paura del ‘diverso’, l’AIDS ha purtroppo ricordato a tutti che la medicina ha dei limiti, e che i virus sono nemici potenti.  

Sta di fatto che la storia della vaccinazione del vaiolo, e non solo, è segnata da rischi e incertezze, che hanno trovato sedimentazione nell’ inconscio collettivo.  

Sta di fatto che i casi di malasanità, verificatisi nel tempo, hanno portato ad interiorizzare l’idea che, vaccinandosi, si sia oggetto di scelte altrui, e che, a fronte di errori, nessuno poi debba pagare (penso ad esempio alla storia dei ventotto bambini morti nel ’33 a Gruaro  per un lotto di vaccino antidifterico risultato difettoso).  

Sta di fatto che legami poco chiari fra politica e case farmaceutiche sono stati a più riprese stigmatizzati.  

E sta di fatto – la storia del vaiolo col suo lungo imperversare ce lo insegna – che le malattie pandemiche sono difficili da debellare, nonostante l’esistenza dei relativi vaccini: per il vaiolo si può forse parlare di un sostanziale progresso verso l’eradicazione solo a partire dal 1967, quando un vaccino, seppure ‘imperfetto’, esisteva già da circa duecento anni e un nuovo più efficace vaccino da ventisette.    Accanto ai vaccini (la cui qualità può e deve essere senza dubbio migliorata nel tempo), oltre a strategie multiple e a campagne efficaci di comunicazione, oltre ad uno sforzo globale e condiviso, è necessario – a detta degli esperti – che si instauri un clima di fiducia: fiducia nell’informazione, fiducia nelle istituzioni sanitarie e governative, fiducia nella scienza e nella medicina. Sennonché, in questa fiducia si sono di fatto aperte numerose crepe, e, negli spazi, hanno trovato e trovano posto la disinformazione, il complottismo, le strumentalizzazioni dilaganti.  

Purtroppo, finora, il modo in cui le istituzioni hanno reagito non solo non è stato efficace per contrastare le obiezioni alla vaccinazione, ma, in parte, è stato addirittura controproducente, facendo sì che le persone leggessero in quelle reazioni una conferma del loro essere nel giusto, e si arroccassero nelle loro convinzioni.  

Non avendo le competenze necessarie per entrare nel campo specifico delle strategie di contenimento, o in quello dell’impegno globale (che comunque registra ritardi e inadempienze nella distribuzione dei vaccini  ai paesi con meno risorse), mi limito a ricordare brevemente gli innumerevoli errori e limiti della comunicazione istituzionale e medico-scientifica nel nostro paese, fra allarmismi, messaggi contraddittori e retorica dell’ottimismo: caratteristiche negative, che non solo non lo hanno consolidato, ma hanno anzi ulteriormente logorato quel tessuto di fiducia sociale e istituzionale fondamentale per affrontare al meglio la situazione. 

Un diffuso e maggioritario senso della comunità e dell'etica comunitaria, unitamente ad una buon margine di fiducia complessiva nella scienza e nella medicina, hanno retto, almeno fino ad ora, consentendo comunque una gestione abbastanza efficace delle misure di contrasto: ma, andando avanti, a meno di non rassegnarsi a tempi inevitabilmente troppo lunghi, sarà necessario che le istituzioni si interroghino sul come rinsaldare il legame di fiducia col pubblico; e allora occorrerà tener conto del fatto che la fiducia è una relazione di reciprocità.  

L’azione di credere in qualcuno, di fidarsi, esige la qualità simmetrica dell'essere credibile e affidabile: la fides laica, che sta alla base di ogni promessa e giuramento, quella virtù che Cicerone definisce  «l’osservanza e la sincerità degli impegni e degli accordi» (I doveri, I. 23), che rappresenta il fondamento della giustizia, che è una delle basi dell’onestà ed è determinante – i latini ce lo insegnano – per sancire il patto sociale, non è persuasione, non è obbedienza, ma è fiducia, è credito, è qualcosa che può essere dato e fatto solo liberamente.