Il tema della felicità nei "Carmina Burana"
Ci sono tanti modi di leggere un libro: tanti quanti sono gli interessi di ogni singolo lettore. Lo stesso testo, infatti, può essere letto sulla base di interessi diversi, e piegarsi a letture diversificate.
Rispetto a un testo come i Carmina Burana (databili per lo più fra il XII e il XIII secolo), ad esempio, ci può essere un approccio prevalentemente filologico, o strettamente linguistico, oppure di tipo estetico, o di tipo musicale... La lettura dello storico medievale sarà diversa da quella dello storico della lingua, o dello studioso di letteratura, o del filosofo, o dell’antropologo, o del cultore del genere poetico, o del musicologo: ognuno, quantomeno, evidenzierà cose diverse, su cui, consciamente o inconsciamente, volontariamente o involontariamente, sarà portato a fermare la propria attenzione.
Allo stesso modo, se ci si occupa di un tema specifico – ad esempio la critica al clero, o il problema degli ordini religiosi nel XII-XIII secolo, o il rapporto fra poesia e filosofia, o il modo di cantare l'amore, o i modi della trasgressione, ecc. –, ognuno cercherà e leggerà in uno stesso testo cose diverse, a seconda della propria formazione culturale.
Fra i vari temi possibili, avendone già trattato riguardo al mondo romano, vorrei proporre un percorso di lettura dei Carmina teso ad evidenziare in essi il significato e le possibili forme della felicità: o meglio, teso a capire
– se possibile
–
quale fosse la concezione diffusa di felicità nel Medioevo.
Anche nel Medioevo e nell'Umanesimo, come nel mondo antico, il tema della felicità è centrale in molte riflessioni filosofiche, ed è presente in numerosissimi scritti di carattere teologico: per citare alcuni autori fra i più noti, basti ricordare Boezio, Abelardo, Tommaso d'Aquino, Dante, Petrarca… fino a Lorenzo Valla; fra i meno noti, Giacomo da Pistoia, aristotelico averroista, attivo a Bologna dell'ultima decade del XIII secolo, autore di una Quaestio de felicitate.
Ed anche in queste epoche i diversi modelli di felicità 'filosofica' non possono che essere lontani dalle aspirazioni degli uomini comuni.
Tracce di quella che era la concezione diffusa di felicità nel Medioevo, possono essere forse reperibili in alcune opere non prettamente filosofiche o teologiche, ad esempio nella poesia di età carolingia, o nell’anonimo romanzo in versi Ruodlieb del secolo XI, o nel trattato Sull’amore di Andrea Cappellano, come pure nel Trattato del perfetto amore (o Sulla gelosia) dell'anonimo di Erfurt (XII/XIII secolo): è però certo che, almeno per quanto attiene all'immaginario comune, almeno nelle aspettative, i Carmina Burana appaiono – almeno in teoria – come l'opera tendenzialmente più ricca di possibili spunti.
Generalmente ascoltati nell'orchestrazione moderna di Karl Orff (1937), e raramente letti, i Carmina Burana evocano infatti l'immagine di festose compagnie di giovani, che cantano l'amore e bevono nelle osterie; rimandano al desiderio di piaceri terreni, all'amore per la vita errabonda e la libertà individuale, alla sregolatezza, alla genialità, alla ribellione agli schemi convenzionali, in un mondo come quello medievale almeno immediatamente percepito come oscuro e triste, posseduto dalla religione, imbevuto di tradizione clericale, concentrato sull'ansia dell'aldilà: anche se, in verità, questa è, in linea di massima, solo l'interpretazione tardo-romantica, risalente alla seconda metà dell'Ottocento.
Dei circa trecento carmi che compongono la raccolta, i primi duecentoventotto – riconoscibili come raccolta originaria – sono distribuiti in tre sezioni a seconda delle tematiche trattate:
Prima sezione( 1-55) - canti satirici e moralizzanti
La poesia di ispirazione satirica e morale, contro i mali del secolo e soprattutto della Chiesa, incontra nel XII secolo una grande diffusione e un grande successo. È una satira favorita dai contrasti interni della Chiesa, che però – e questo è il dato fondamentale - rimane sempre interna alle istituzioni religiose, che non ha niente a che vedere, ad esempio, con il movimento della Riforma protestante: è una satira che, di fatto, trova la sua origine e la sua ragion d'essere nel processo di rinnovamento voluto da Gregorio VII per un ritorno alla purezza apostolica, con la condanna di quegli elementa mundi (elementi mondani) che, penetrati nel corpo della Chiesa, ne avevano snaturato l'operato e il messaggio. Sennonché la riforma gregoriana (XI secolo), sostenendo l'esclusiva dipendenza del clero dall'autorità ecclesiastica, aveva di fatto favorito la trasformazione del papato in una struttura di potere teocratico, nemica dell'impero ma a questo sempre più simile: un apparato di governo con costi di gestione altissimi. All'interno della Chiesa nacquero ben presto aspre critiche contro la politica papale, contro la mondanizzazione del clero e l'avidità degli alti prelati, portate avanti da personaggi di spicco come Arnaldo da Brescia o Giovanni di Salisbury, maestro e amico dei poeti goliardici, ma rintracciabili anche negli scritti di Bernardo di Chiaravalle (suo irriducibile avversario).
A questa sensibilità si ispirano gli autori dei canti presenti nella prima sezione dei Carmina: poesia mai antiecclesiastica, ma ferocemente anticuriale. Simonia, concubinaggio, avidità, cupidigia, servile adorazione per il danaro, ipocrisia, falsità, superbia sono le colpe censurate con un linguaggio di grande violenza invettiva. La loro condanna coinvolge tutto l'alto clero e gli ordini monastici, accusati di non rispettare la regola e la disciplina evangelica, senza, nel contempo, nascondere le preoccupazioni per la condotta morale del basso clero, inquinato, per così dire, dal modello negativo delle alte gerarchie.
Seconda sezione
(56-186)
-
canti d'amore (estranei alla tematica i cc.122-134)
È la sezione più numerosa della raccolta: quella che, unitamente alla terza, ha caratteristiche almeno apparentemente stupefacenti, soprattutto considerando la condizione sociale degli autori. In realtà non è così: nel XII secolo l’amore terreno diventa infatti nuovamente protagonista della letteratura, perché, attraverso la sua celebrazione, la società esprime la riscoperta della dimensione terrena dell’esistenza e il desiderio di creare una nuova cultura che rappresenti la mutata realtà economica e sociale. Liriche in latino, poesia dei trovatori, trattatistica (ad es. il trattato Sull’amore di Andrea Cappellano) testimoniano di questa centralità del tema, al di là del fenomeno dei Carmina. E’ vero che, rispetto alla spiritualizzazione delle canzoni provenzali, i Carmina Burana colpiscono immediatamente per la sensualità sempre presente ed esaltata in modo libero e gioioso, mai repressa o sublimata: e, se può stupire che essa venga manifestata schiettamente da uomini di Chiesa, non va dimenticata da un lato quella che era la situazione particolare dei chierici; dall’altro, non va soprattutto dimenticato che la posizione della Chiesa nei confronti dell’amore terreno si era fatta molto meno rigida rispetto alla epoche precedenti; e non va dimenticato che, parallelamente all’accettazione dell’amore terreno, si era diffusa una nuova filosofia della natura. Si può dire, insomma, che il tema dell’amore terreno sia del tutto ‘interno’ alla società che circonda i goliardi.
Terza sezione (187-228) - canti bacchici e conviviali (satirico- moralizzanti i cc. 187-190, drammi religiosi i cc..227-228)
È la sezione più nota della raccolta: e sono sicuramente i canti più trasgressivi, dalla connotazione in superficie pagana, che infrangono, più ancora di quelli d’amore, le barriere del proibito. Sono canti pervasi di sentimento edonistico, frutto del godimento di piaceri concreti: canti dove domina assoluta la dimensione materiale e corporea dell’esistenza. Ma proprio per questa visione prettamente materiale, provocatoria, comica, l’ambito nel quale sono riconducibili è quello della più classica tradizione carnevalesca: come il carnevale è limitato nel tempo, così l’osteria è uno spazio chiuso, un luogo a sé, da cui restano fuori la vita sociale e politica, la religione, la morte stessa.
Tralasciando il gruppo di canti in latino e in tedesco, prevalentemente di carattere sacro, aggiunti più tardi alla raccolta originaria e non attribuibili alla cultura goliardica, i duecentoventotto canti delle tre sezioni, pur se composti da autori diversi con diversi livelli di cultura e portatori di sensibilità individuali diverse, almeno nelle due sezioni sull’amore e l’osteria risultano quasi tutti accomunati dal tema del piacere: e da un piacere che, nella contrapposizione terra-cielo, corpo-anima, riconduce immediatamente alla terra e al corpo. A fronte della beatitudo celeste, sarebbe lecito dunque aspettarsi di trovare esplicitata in questi canti una qualche filosofia della felicità terrena. Come pure sarebbe lecito attendersi dei riferimenti alla vera felicitas – ad una teorizzazione diversa della felicità dell’anima – nei canti satirici contro la degenerazione della Chiesa.
In realtà, su un centinaio di canti esaminati (appartenenti alle tre sezioni), i riferimenti al tema della felicità sono molto inferiori a quanto ci si potrebbe attendere.
Cominciamo dai canti 191 e 219 della terza sezione: quelli divenuti per così dire il manifesto della visione goliardica dell’esistenza.
Del primo, il 191, conosciamo l’autore, l’Archipoeta di Colonia: sappiamo che era di origine nobile e che preferì la vita del chierico a quella del soldato; sappiamo che, attorno al 1161, trovò un mecenate e un protettore nella figura di Rainaldo di Dassel arcivescovo di Colonia, e che, al suo seguito, accompagnò in Italia Federico Barbarossa; sappiamo che in Italia, si lasciò incantare dall’atmosfera universitaria di Pavia, trascurando i propri doveri; dopo il 1167 (morte di Rainaldo) di lui si perdono le tracce. Della sua produzione abbiamo soltanto una dozzina di composizioni, da cui emerge una grande conoscenza degli autori classici e della tradizione cristiana, ma anche della poesia contemporanea; ebbe grande successo nel Medioevo e contò numerosi imitatori; mostrandosi povero e squattrinato, amante dell’osteria e del gioco e delle donne, rappresentò di fatto l’ideale di vita goliardica.
Il canto 191, composto di venticinque strofe di quattro versi ciascuna, è la celebre Confessione di Golia: una confessione parodica, piena di riferimenti classici e biblici, in cui l’autore finge di confessare le proprie colpe a Rainaldo, finendo in realtà con l’esaltarle. Non ci sono al suo interno riferimenti alla felicità, ma il canto è interessante in quanto tratta di che cosa dovrebbe essere il sapiente (strofe 2); contrappone vita austera e gioco (4), vizi e virtù (5), e soprattutto, nella stessa strofe 5, parla del piacere – voluptas – che allontana dalla vita eterna, e della cura del corpo che uccide l’anima. Confessando parodicamente le proprie colpe, a giustificazione dei peccati d’amore il poeta afferma che «è un’impresa molto ardua vincere la natura» (7); per il gioco, afferma che l’animo infiammato ispira «i canti migliori» (10); per il vino che «i bicchieri accendono la luce dello spirito, e l’animo, ebbro di nettare, vola sino al cielo» (13). Conclude infine affermando che «la natura assegna a ciascuno un proprio limite… dà a ciascuno caratteristiche sue proprie» (16-17). Chi lo accusa è un ipocrita, perché tutti godono dei piaceri della vita (20). Le tre strofe finali (23-25) palesano infine il ‘falso’ pentimento. Secondo i critici, la confessione parodica sarebbe anche un canto di omaggio al patrono, ispiratore della politica religiosa del Barbarossa, contraria al papato e ai potenti ordini monastici come i cistercensi, la cui etica e la cui condotta di vita sarebbero continuamente parodiate.
Nel canto 219, anonimo, sono espresse le leggi fondamentali che governano la vita ed il comportamento di un immaginario ordine dei vaganti, pura creazione parodica delle regole e degli ordini monastici del tempo. Per quanto concerne la felicità, è da segnalare solo la presenza del verbo gaudere alla strofe 15 («Nessuno, durante un viaggio, si ponga contro i venti, né, se povero, assuma un’aria triste, ma nutra sempre una fiduciosa speranza: infatti, dopo un grande male la sorte riserva godimento»).
Nella prima sezione, su più di venti canti esaminati, di felicità si parla in qualche modo nel canto 24, che svolge i temi cari alla meditazione scolastica della fuga saeculi (fuga dalla secolarità, dalla mondanità) e del contemptus mundi (disprezzo del mondo). In un contesto ricco di citazioni bibliche, l’anonimo poeta parla dei falsa gaudia (falsi godimenti) offerti da un mondo dissennato, destinati ad appassire come i gigli nei campi e capaci solo di sottrarre vera premia (i veri premi) e spingere le anime all’inferno, invitando dunque a fuggire e disprezzare le dolcezze della vita e a vincere i desideri della carne, tutti beni effimeri, che potrebbero farci perdere doni preziosi. Solo così potremo meritare «di gioire insieme ai giusti e agli eletti nella gloria del Signore per tutta l’eternità».
Il tema è ripreso al canto 30 da Pietro di Blois, grande esponente della cultura e della politica del secolo, discepolo di Giovanni da Salisbury, autore, oltre che di moltissimi carmina, di numerose opere religiose e di un trattatello di retorica. Il canto, scritto in età matura, contrappone la gioventù e l’età matura, il piacere della carne e i vizi della prima alle virtù della seconda, concludendosi con un proposito di ravvedimento.
Il tema della felicità terrena è abbastanza presente nei canti della seconda sezione, ma – come s’è detto – in misura inferiore rispetto a quanto ci si attenderebbe. Su cinquantacinque composizioni esaminate, il lessico relativo alla felicità si incontra infatti soltanto in una quindicina, e si tratta di un lessico non sempre particolarmente connotato: e del resto anche nel trattato Sull’amore del Cappellano non compaiono mai termini relativi alla ‘felicità’.
Nel canto 56, troviamo i dulcia gaudia di Venere, assecondando il cui volere decet iocundari (si è rallegrati); oltre a iocundari, compaiono poi delectari e beari: la gioia del poeta (delectari) consiste nel vedere la sua amata vivere in letizia, ed egli sarà veramente felice (beari) se meriterà di essere da lei amato.
Nel canto 61, la fanciulla amata è, per il poeta, un vivido focolare di letizia (laetitiae), e un suo solo gesto lo rende beatum.
Nel canto 62, di cui si è proposta l’attribuzione ad Abelardo, vengono esaltate le qualità ristoratrici del sonno, definito antidotum felix, che placa le tempeste degli affanni e del dolore, e che, quando si insinua fra le palpebre già chiuse infonde un gaudium uguale alla dolcezza dell’amore. Il breve canto di sole quattro strofe, molto bello, è parodiato nel canto 197 (terza sezione), dove ad essere felix è la vita del bevitore «che placa le tempeste degli affanni e dei dolori».
Beare compare nel raffinato canto 70, ispirato alla psicologia dell’amor cortese, per indicare lo stato di due amanti che finalmente si congiungono; e felix sarà il vincolo che li legherà.
Ancora beari compare nel canto 72 di Pietro di Blois, che, definito solitamente canto passionale ed erotico, racconta in realtà uno stupro: dopo aver espresso, nella prima strofe, la propria gratitudine a Venere, che gli ha concesso di ottenere «il gradito e desiderato trofeo» sulla sua vergine fanciulla, dopo lunghe battaglie, nunc sentio me beari (ora sento di essere felice) scrive il poeta nella seconda; segue il racconto della conquista, con la conclusione, alla strofe 5, che «la cosa è piaciuta ad entrambi». Il tema dello stupro ritornerà, ancora più crudo, nell’anonimo canto 158, in cui la conquista finale è definita cosa odiosa per la fanciulla, ma gradita e soave per l’io narrante, che alla fine mostra però una lieve traccia di vergogna all’idea che il proprio padre, il fratello maggiore, o la madre possano venire a conoscere il suo gesto.
Un amplesso voluto da entrambi è invece al centro del canto 77, sicuramente uno dei più raffinati dell’intera raccolta, e forse il più intimamente legato all’esperienza cortese, dove motivi cristiani laicizzati, tradizione classica ed esperienze contemporanee si fondono armonicamente. Nell’amplesso, i dolori e i sospiri vengono scacciati lontano, gli amanti provano paradisi gaudia (i godimenti del paradiso), godono di ogni delizia, finché il gaudium risulta centuplicato. La conclusione (strofe 33) è che «ex amaris grata generantur (dalle amarezze nascono cose piacevoli), senza la fatica non si ottiene alcun profitto, e spesso viene punto chi coglie il dolce miele. Nutrano dunque speranze migliori coloro che più sono amareggiati».
Gaudium è, nel canto 80, quello che la primavera procura alla terra; gaudia sono quelli che amori senza macchia procurano all’amante e all’amato.
Non solo dulcia stipendia (dolci ricompense), ma anche gaudia felicia (godimenti felici) sono ciò che il poeta prova durante le ore che trascorre con la sua Flora, nel canto più intensamente erotico della raccolta, il canto 83.
Ancora gaudium e gaudia compaiono nei canti 85, 87, 116, 137, 143. Nel canto 116, il poeta afferma inoltre che supererebbe Giove in felicità (felicitate) se colei che ama lo volesse; nel 143 compare anche il verbo laetari.
Troviamo ancora gaudere al canto 111, e iocundari al 144.
Felix è la coniunctio (l’unione) del popolaresco canto 183: unione che allontana la noia.
Una attenzione maggiore merita il canto 92, un poemetto di settantanove strofe, che rientra nella vasta produzione sulla superiorità del chierico o del cavaliere nell’arte di amare: frutto, in sostanza, della rivalità culturale all’interno dell’aristocrazia, fra religiosi e laici. Il poemetto è ricco di immagini e di similitudini che richiamano la civiltà cortese e rimandano al gusto medievale per il simbolo e l’allegoria; presenta inoltre una insolita raffinatezza nel tratteggiare i sentimenti delle due protagoniste, Flora e Fillide, innamorate rispettivamente del chierico Alcibiade e del cavaliere Paride. Il giudizio viene sciolto da Cupido, accompagnato dalle tre Grazie, che sentenziano come, ovviamente, sia il chierico il più adatto per l’amore. Le strofe che interessano il tema della felicità sono tre: dalla 14 alla 16. Nella 14, Flora definisce Alcibiade «la creatura più bella di ogni creatura», che la natura ha reso beato (beavit) colmandolo di tutte le grazie (omnibus gratiis), per concludere che la condizione dei chierici (clericorum iura) è la sola felice (sola felicia). Nella 15 e nella 16, Fillide replica rimproverando a Flora che il suo nobile cuore sia servo di Epicuro, ed invitandola a risvegliarsi, perché il chierico stesso è solo un Epicuro, privo di qualsiasi bellezza, col fisico deformato dagli eccessi.
Nella terza sezione, su una ventina di canti esaminati, a parte il 191 e il 219 da cui siamo partiti, di fatto solo in cinque troviamo alcune parole riconducibili al concetto di felicità.
Del 197 (parodia del 62) si è già detto.
Nel canto 195 si accenna al gaudium che il vino sa dare.
Mente leta (con animo lieto) si beve nella taverna al canto 196, il più famoso canto goliardico (quello che inizia
«
In taberna quando sumus»). Il canto è composto su una trama di motivi religiosi, parodiati ed abbassati ad una visione prettamente corporea della realtà. Nelle strofe 3 e 4 vengono, sembra, parodiate le preghiere liturgiche del venerdì santo e si segnalano significative corrispondenze con le messe votive; nella strofe 7 viene ripreso e parodiato il Salmo 68.
Nel canto 200 si dice che «il dolce Bacco, addolcendo gli affanni e i dolori, reca iocum, gaudia, risus et amores (svago, godimenti, riso e amori)», così che l’animo è laetificatus (allietato).
Nel canto 211, Epicuro proclama a gran voce che il ventre pieno significa assenza di preoccupazioni, che il ventre pieno è il suo dio, che la sua gola non vuole altro dio all’infuori di questo… E il poeta, riferendosi ad Epicuro, commenta «Ecco il dio che fa per noi: non è mai digiuno e, ancor prima della colazione del mattino è ubriaco… La sua mensa e il suo bicchiere sono per noi beatitudo vera».
Che cosa emerge da questo excursus?
Innanzi tutto, per quanto concerne le caratteristiche generali della raccolta, è da annotare come la parodia sia la chiave di lettura di molte composizioni: parodia letteraria e stilistica che ha, come esito finale, la parodia della realtà circostante, finendo con l’attivare un suo rovesciamento. Di fatto i carmina mettono in atto un meccanismo di rovesciamento parodico, che pone in discussione il mondo e conduce alla formazione di una sorta di mondo paradossale, parallelo e contrario.
Ma con quale scopo?
Nei canti della prima sezione, la degenerazione degli istituti religiosi, la crisi morale della Chiesa sono evidenziate con una satira pungente e violenta. La tristitia temporis, la fine dei tempi in cui si praticavano le virtù, l’onestà, la generosità, la fedeltà, è fortemente sentita ed espressa, con apparente distacco e violenta ironia. Ma si avverte che il distacco è appunto apparente, e l’ironia è unita al riso straniato del paradosso e del mondo alla rovescia: non a caso è molto frequente la figura retorica dell’adynaton (= cosa impossibile), che indica la condizione di perversione morale del mondo attraverso il verificarsi di avvenimenti o situazioni inconcepibili («Gregorio discute all’osteria, l’ascetico Girolamo reclama la sua parte di denaro, Agostino e Benedetto si intrattengono in gran segreto sul raccolto e la vendemmia e vanno poi al mercato assiduamente. Maria non contempla più, Marta non è più attiva, Lia è sterile e Rachele ha gli occhio malati. Il severo Catone frequenta i postriboli e la casta Lucrezia si abbandona ad una lussuria scandalosa… il caldo si tramuta in freddo e l’umido in asciutto…» 6, vv. 21-40). Di fatto, siamo di fronte ad un modo diverso di esprimere le considerazioni analoghe ricorrenti con grande frequenza nelle pagine dei teologi del XII secolo. Un mondo teso al danaro e privo di spiritualità merita solo di essere disprezzato: e viene così ripreso e sviluppato il motivo del contemptus mundi (c.24), radicato fin dalle origini nel pensiero cristiano e molto vitale nel XII secolo. E al mondo terreno, fragile, precario e nemico, si contrappone necessariamente l’ideale della beatitudine celeste, raggiungibile attraverso il distacco dalla realtà mondana e la pratica delle virtù evangeliche (cc. 24 e 30). Abbiamo detto “poesia mai antiecclesiastica, ma ferocemente anticuriale”: e in effetti i goliardi non si pongono mai il problema di uscire dalla Chiesa, ma agiscono all'interno di quella Chiesa che intendono rinnovare («una nave squassata dalle onde, che fa naufragio» c.4, in cui «i vescovi portano le corna invece della croce» e «aguzzano i denti come leoni inferociti» c.39, e «i cardinali vendono il patrimonio di Cristo crocefisso» c.41), in accordo con i grandi teologi e i maestri delle università. E anche l’attacco ad una società in cui «l’onestà è morta, la virtù è sepolta, la generosità è ormai rara e l’avarizia dilaga», una società in cui «la falsità dice il vero e la verità si fa menzogna» (c.3), in cui gli studi annoiano e l’ozio vale più del sapere (c.6), in cui «il denaro è re assoluto» e «la venale curia papale ne è quanto mai ingorda» (c.11)… ebbene, anche l’attacco a questa società non ha niente di rivoluzionario, ché, ad esempio, non viene mai superata la dinamica della tripartizione sociale, di cui anzi si ribadisce la fissità, opponendo ai nobili e ai lavoratori manuali la propria supremazia culturale.
Riguardo ai canti della seconda sezione, che possono colpire per la schiettezza con cui viene esaltata la sensualità, oltre alla condizione particolare dei chierici, va tenuta presente – come s’è detto – l’accettazione dell’amore terreno diffusa nella cultura religiosa del tempo, anche attraverso una rilettura di Agostino, unitamente alla diffusione di una nuova filosofia della natura. L’uomo, specchio e immagine del macrocosmo, finisce col riflettere nella propria vitalità fisica e intellettuale la forza generatrice della natura; si fa strada una concezione diversa dell’uomo e della realtà, che scopre le proprie radici nella sensualità naturalistica del poeta latino Ovidio e nell’esaltazione della voluptas – del piacere – come forza generatrice, desunta dai versi iniziali del poema di Lucrezio, unitamente all’idealizzazione bucolica della natura in Virgilio; agli autori antichi si unisce poi il Cantico dei cantici, che offre l’immagine più chiara per esprimere la ritrovata consonanza fra l’uomo e la natura. All’interno di questo panorama, i Carmina si caratterizzano ancora una volta per la parodia: una parodia della vita cristiana, della fede religiosa, della militia Christi, trasformata nella fede al dio Amore, nella militia Amoris.
Allo stesso modo, l’osteria è il tempio del dio Bacco, dove si realizza l’utopia dell’abbondanza, dove il corpo assume la condizione di superiorità sullo spirito: e la filosofia della felicità si riconosce parodicamente negli pseudo-insegnamenti di Epicuro. L’abbiamo visto nel canto 92, dove Flora è definita serva di Epicuro e il chierico è identificato con Epicuro; ma ancora di più Epicuro è esaltato parodicamente nel canto 211, dove si dice che «la sua mensa e il suo bicchiere» rappresentano la vera felicità. Ed Epicuro compare anche nel canto 8 della prima sezione, di Gualtiero di Châtillon (uno dei poeti più grandi del secolo, che, durante un viaggio a Roma, rimase disgustato dalla corruzione della curia papale), canto che, trattando della degenerazione della Chiesa conclude «Nessuno più vive in modo puro, crolla ogni baluardo di moralità, solo Epicuro è venerato e nessuno pensa più al giorno della morte».
Nei canti bacchici, l’osteria è il corrispondente della festa, del carnevale che distrugge i vecchi valori e ne ricrea di nuovi, che crea di fatto un mondo alla rovescia; è il luogo dove i valori alti della tradizione colta si rovesciano, dove parodicamente si propone una visione speculare e rovesciata della realtà, trasferendo i riti e le manifestazioni della cultura ufficiale sul piano strettamente materiale.
Ma l’osteria è anche e soprattutto il luogo in cui si realizza l’utopia di rapporti umani liberi e ugualitari: utopia, e non progetto, perché, come s’è detto, non viene mai superata la dinamica della tripartizione sociale, di cui anzi si ribadisce la fissità. Ed è il luogo in cui non ci si cura della propria condizione mortale e non si teme la morte: è il luogo in cui si sta insieme, in cui si gode insieme, in cui si assiste alla proiezione di sé nell’altro.
Alla fine si coglie molto bene come, di fatto, i goliardi siano fondamentalmente legati alla visione tragica della realtà propria della loro epoca, dominata dalla imperscrutabile volontà divina, all’interno della quale l’uomo non riesce ancora a costituirsi una propria dimensione, ma deve abbandonarsi al Creatore: salvo creare, attraverso la parodia, un mondo alla rovescia; salvo rifugiarsi all’osteria e lasciare fuori la realtà. «Quando siamo all’osteria non ci importa più del mondo» recita il canto 196; e «felice è la vita del bevitore che placa le tempeste degli affanni e dei dolori» si afferma al canto 197; e «il dolce Bacco mitiga gli affanni e i dolori» anche nel canto 200 e nel 202 e in diversi altri ancora.
In questo quadro, il concetto di felicità – pur se manca una qualsiasi teorizzazione (e già l’assenza lascia supporre l’adesione ad un modello preesistente) – non può palesemente essere diverso da quello dei maestri della goliardia stessa: da quel grande modello normativo di felicità 'filosofica' che la cultura filosofica e teologica aveva prodotto e continuava a produrre.
Ovviamente è nei canti della prima sezione, per il loro più stretto legame con la società e la Chiesa, per il loro carattere più ‘morale’ e moralizzante che si riscontrano la tracce più cospicue dell’adesione a questo modello ‘alto’: e, oltre ai falsa gaudia di un mondo impazzito, oltre ai «veri praemi» e ai «preziosi doni» sottratti dai «desideri della carne» e dalle dolcezze della vita che spingono le anime all’inferno, oltre alla contrapposizione fra vizi e virtù dei canti 24 e 39, non a caso è lì che, in ben quattro canti, incontriamo la Fortuna, capricciosa, volubile, insensibile (canti 14, 16, 17, 18), ad ammonire come sempre che tutto il mondo terreno è nelle mani di Dio.
Quanto al complesso dei canti del secondo e terzo gruppo, la felicità, laddove la si prova, è fondamentalmente gaudium (una ventina di ricorrenze) attiene alla sfera del delectari (1 ricorrenza) e iocundari (2 ricorrenze), della laetitia (5 ricorrenze). Non a caso, l’inno internazionale della goliardia, a partire dal 1700, è quel famoso Gaudeamus igitur.
Felix/felicitas, beare/i e beatus/beatitudo, che pure compaiono, anche se, complessivamente, in misura più ridotta (7 e 7 ricorrenze), rimandano tutti, prevalentemente, al piacere del gesto d’amore o dell'atto sessuale, alla gioia dell’osteria, alla felicità dell’attimo: e comunque ad un piacere e ad una felicità che si esauriscono nel breve volgere degli studi e della giovinezza.
All’interno di queste brevi e fugaci ‘felicità’, più interessanti e da approfondire, in quanto allusivi ad una condizione per così dire permanente appaiono il beavit omnibus gratiis e i clericorum iura felicia. del canto 92 , la felix vita del canto 197, la beatitudo vera del canto 211.
Ora, nel canto 92, è innanzi tutto da sottolineare come sia la Natura che beavit omnibus gratiis il chierico Alcibiade, il che ci rimanda ad uno stereotipo senza particolari connotazioni, e, nel contesto, il significato di beare corrisponde all’uso che del verbo viene fatto in particolare nella commedia latina di Plauto e Terenzio; ma è soprattutto significativo il fatto che poi non si parli di vita, bensì di iura, ovvero di ‘diritti’, ‘privilegi’, ‘statuto’ (e dunque di una condizione prettamente materiale). Quanto alla felix vita del canto 197, non va dimenticato che si parla della vita potatoris, cioè di una vita da ubriaco, e dunque limitata ad una porzione di vita che resta per così dire fuori dalla vita stessa. Ed è per di più estremamente significativo il fatto che siamo in pieno nel paradosso dell’osteria come tempio, dove a placare «le tempeste degli affanni e dei dolori» e dunque a rendere felice la vita del bevitore, non è la fede in Dio ma quella in Bacco, al quale, parodiando la liturgia, viene anche rivolta la preghiera finale.
Se si pensa, infine, ai diversi ambiti di utilizzo dei termini felix/felicitas e beatus/beatitudo nella latinità classica e cristiana – dove i primi sono prevalentemente riferiti a successi materiali, mentre i secondi attengono ad una sfera morale e sono propri del linguaggio filosofico e teologico – ancora più significativo è il fatto che il nesso beatitudo vera compaia in un canto come il 211, in cui
– l'abbiamo visto – si elogia Epicuro affermando che la vera felicità, «la vera beatitudo», si identifica con «la sua mensa e il suo bicchiere»: dove non sembra improprio riconoscere un uso ‘satirico’ della parola, volto alla raffigurazione dei guasti morali di una Chiesa e di una società totalmente dedite alla ricerca di beni e piaceri materiali.