L'unico trattato completo giuntoci dal mondo romano sulla felicità è il ( ) di Seneca (scritto attorno al 58 d. C.), e dunque il modello filosofico di felicità da lui costruito risulta particolarmente importante. Per quanto concerne il lessico della felicità, i lemmi usuali nel trattato sono , e e – o meglio – compaiono solo tre volte e, se in un passo ha la medesima valenza di (par. 16 « » = «Dunque la vera felicità risiede nella virtù»), negli altri due, non a caso, e sono usati ad indicare una definizione errata di felicità. Al par. 6, Seneca scrive: «Aggiungi poi che il piacere si accompagna anche alla vita più vergognosa, ma la virtù non ammette una cattiva vita, e alcuni sono infelici ( ) non perché privi dei piaceri, ma proprio a causa dei piaceri». Al par. 13, continuando il discorso su Epicuro, iniziato al paragrafo precedente, Seneca critica l'uso strumentale e distorto che alcuni fanno dei suoi giusti insegnamenti, e conclude: «Chiunque chiami felicità ( ) l'inoperosità oziosa e l'alternanza dei piaceri della gola e dei sensi cerca un valido sostenitore della sua cattiva condotta». A prescindere dalle osservazioni sul lessico, che testimoniano comunque i due diversi ambiti semantici di e , Seneca – nel come altrove – svolge fondamentalmente la tesi per cui la virtù sola è il vero bene che può rendere felici gli uomini, mentre sono in realtà cose indifferenti quelli che gli uomini chiamano beni, affannandosi per essi. Il sommo bene è la virtù e non il piacere; secondo i canoni dell’autosufficienza stoica, il saggio è felice per tale consapevolezza e per l’esercizio della virtù. Di fatto, vi è un solo modo per essere felici, ed è perseguire il bene dello spirito, sottraendosi all’esempio dei più e convincendosi che agli uomini non occorra nulla di ‘esterno’, nessuno di quei beni illusori di cui si rendono volontariamente schiavi. La saggezza è innanzi tutto educazione di sé, che pone l’uomo nelle migliori condizioni per affrontare il difficile compito di vivere. Chi è giunto a trasformare se stesso alla luce del vero bene saprà anche perseguirlo, servendosi nel modo migliore degli strumenti che il caso pone a sua disposizione e di cui conosce bene la funzione e l’uso: in questo quadro, persino la ricchezza, che tanto spesso porta gli uomini alla rovina ed è causa di tormenti e dolori, in sé e per sé non è altro che uno strumento di cui il saggio sa e può servirsi per diffondere il bene. Passando dallo stoicismo all’epicureismo, molto interessante è l’uso del lessico della felicità nel ( ) di Lucrezio (I secolo a. C.), dove l’aggettivo compare solo due volte (in I, 100 e V, 1378), rispettivamente nel senso di “favorevole” e “rigoglioso”; e una sola volta (in V, 165) riferito agli dei immortali. Una sola volta è usato peraltro anche l’aggettivo , in V, 1194, dove ad essere definito «infelice» è il «genere umano». Che gli dei siano gli unici a poter essere definiti , a fronte dell'infelicità del genere umano, non stupisce, se si pensa alla filosofia di Lucrezio: nell’universo epicureo, infatti, gli dei sono completamente indifferenti nella loro egoistica felicità, e abbandonano il mondo alla cieca necessità; il genere umano, dal canto suo, si è condannato all’infelicità dal momento in cui, scontrandosi con l’incomprensibilità dei paurosi fenomeni celesti, ne ha attribuito l’origine agli dei e alla loro ira (« »). La paura è dunque per Lucrezio la premessa della religione, e l’ignoranza ne è la condizione: l'ignoranza porta l’uomo a credere che gli dei siano padroni onnipotenti, e fa sì che egli si aggiri smarrito alla cieca, coltivando pensieri in realtà indegni degli dei e procurando a se stesso una vita infelice. Ed è di timori la religione si nutre, primo fra tutti quello delle pene eterne dopo la morte: quando la realtà è che la morte è un nulla che non ci riguarda, perché quando corpo e anima si separeranno noi non esisteremo più e niente ci potrà accadere. La realtà è che i morti non possono avere rimpianti e sono immuni da ogni affanno: il che riduce la condizione della morte ad una pace più serena di ogni sonno. Le guerre sono la maledizione degli uomini, il – l’attività e l’impegno pubblico – è la condizione della loro ansia: ansia di arricchire, di primeggiare, di schiacciare gli altri. Alle guerre e all’ansia del possesso si contrappongono la pace, l’amicizia, e l' speculativo del saggio, ovvero il tempo dedicato alla vita privata e agli studi. Il genere umano si affanna in perpetuo, invano e senza frutto, consumando la vita in travagli inutili, «perché non conosce la misura del possesso, e nemmeno sa fin dove il genuino piacere si accresca» (III, 1430-1433), quando invece «null'altro la natura ci chiede con grida imperiose, se non che il corpo sia esente dal dolore, e l'anima goda d'un senso gioioso, sgombra d'affanni e di timori» (II, 17-19); «se si guidasse la vita con giusto criterio, la grande ricchezza dell'uomo sarebbe vivere sobriamente e con animo quieto» (V, 1117-1119). Ed ecco che troviamo il piacere, la quiete, la gioia… una felicità dipinta per così dire a tinte più sfumate, attraverso l’uso dei termini , / , / , ; e poi , , , , . Nella medesima direzione va – dopo Lucrezio e prima di Seneca – il poeta Orazio, di cui credo sia sufficiente ricordare la bellissima I, 1, nota come la satira dell’incontentabilità umana, quella che inizia così: «Come accade, Mecenate, che nessuno viva contento della sorte che le sue scelte di vita gli hanno dato o che il caso gli ha posto di fronte, apprezzando invece chi segue altre strade? “Fortunati i mercanti!” dice il soldato appesantito dagli anni, col corpo ormai fiaccato dalle molte fatiche; e, a sua volta, il mercante, mentre i venti che soffiano da sud sbattono la sua nave, “Meglio la vita del soldato! E che? Si corre a battaglia, nel breve spazio di un’ora giunge sollecita la morte o lieta la vittoria”. L’esperto di diritto e di leggi, quando il cliente bussa alla porta al canto del gallo, esprime apprezzamento per la vita dell’agricoltore…». Molto vicino all’epicureismo, Orazio esprime il concetto fondamentale che la natura ci impone di vivere rimanendo all’interno di quelli che sono i suoi limiti, ovvero non andando oltre quelle che sono le esigenze naturali: la natura – sostiene – ci obbliga alla soddisfazione dei bisogni primari, ma tale soddisfazione non comporta alcuna delle fatiche e inquietudini di cui invece gli uomini si riempiono la vita (vv.49-50 / 106-107). L’avidità di guadagno è il motore della incontentabilità; il danaro dovrebbe avere l’unico valore di servire a comprare il pane, la verdura, un quartino di vino, e poche altre cose non strettamente necessarie ma utili a procurare un po’ di piacere (vv. 73-75). Lucrezio, Seneca e, per certi versi, anche Orazio si pongono nell’ottica di una felicità filosofica, e, come s’è detto, corre grande distanza fra gli ideali filosofici e le aspirazioni comuni: tutti, però, aprono inevitabilmente uno squarcio sulla concezione diffusa della felicità, perché, di fatto, contrappongono ad essa il proprio modello. E la loro critica all’ansiosa ricerca di beni materiali, inutili e illusori, ci fa comprendere come, di fatto, la felicità rimandasse generalmente – allora come ora – al possesso di qualcosa: non a caso, del resto, l’avverbio è costantemente usato ad indicare il successo di eventi ed azioni. Una riprova può esserci fornita peraltro dal di Petronio, ‘romanzo’ di straordinaria modernità, che dipinge un affresco molto vivo della società dell’epoca (siamo attorno alla metà del I secolo d. C.), con la sua varia e composita umanità, con i suoi luoghi ‘equivoci’, con la sua realtà socioeconomica. Ebbene, nel , i termini / / sono sempre usati con riferimento a situazioni concrete: si è infelici perché ci si trova in condizioni di difficoltà materiale o di pericolo grave ed immediato (21 e 80); si è infelici quando si è afflitti da desideri insoddisfatti (82); si è infelici per la caduta dei capelli (109) o perché si è diventati impotenti sessualmente (134). Per converso, a rendere felici sono le gioie del convito (61), così come è felice una madre per il proprio figlio bello e virtuoso (94); e la felicità è identificabile col benessere materiale (75 e 125), è data dal soddisfacimento del desiderio sessuale (86) e dall’avere ottenuto successo (125). Petronio usa inoltre con la stessa valenza semantica anche i termini e , rispettivamente ai capitoli 38 (dove è relativa al possesso di innumerevoli beni materiali) e 57 (dove a rendere sono le gioie del convito): semplice testimonianza di una sinonimia diffusa? Espressione di una diversa ed anticonformistica concezione del mondo? O, al contrario, un uso ‘satirico’ delle parole volto alla raffigurazione dei guasti morali di una società totalmente dedita alla ricerca di beni e piaceri materiali? La controversa personalità di Petronio, alternativamente considerato come ribelle e anticonformista o, al contrario, come moralista attratto dal buon tempo antico, non consente una risposta. Di certo, comunque, il significato ‘riduttivo’ da lui attribuito alla sfera semantica / merita una riflessione, sia perché questa ‘riduzione’ non sembra essere usuale, a fronte della più comune assimilazione di a di segno opposto; sia soprattutto in considerazione del fatto che, quasi sicuramente, il appartiene agli stessi anni del trattato di Seneca, ovvero all’epoca dell’imperatore Nerone.
De vita beata
Sulla felicità
vita beata
beatevivere
beatus;
felicitas
felix
infelix
felicitas
vita beata
Ergo in virtute posita est vera felicitas
felicitas
infelix
infelices
felicitas
beatus
felix
De vita beata
De rerum natura
La natura delle cose
felix
beatus
infelix
beati
O genus infelix humanum, talia divis cum tribuit facta atque iras adiunxit acerbas
negotium
otium
voluptas
quies
quietus
laetitia
laetus
gaudium
placidus
serenus
tranquillus
iucundus
securus
Satira
feliciter
Satyricon
Satyricon
felicitas
felix
infelix
beatitudo
beatus
animi beatitudo
beatus
beatus
beatitudo
felicitas
beatitudo
Satyricon
Sulla felicità