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La felicità: fra "felicitas" e "beatitudo"

2021-04-21 09:25

Claudia Pandolfi

Per una storia della felicità, felicitas - beatitudo, felicità ed etimologia,

Il significato delle parole, soprattutto per quanto attiene ad idee e concetti astratti, subisce nel tempo slittamenti semantici, evolvendosi e modificandosi col diversificarsi delle culture.



Peraltro, definire l'essenza di astrazioni è in ogni epoca molto complesso: se il concetto è un'abbreviazione utile per afferrare molti fatti, cosa significa per noi, oggi, il concetto di felicità?



La felicità, come il dolore o il piacere, non rimanda ad alcun fatto in sé, ma è un punto di vista per controllare e valutare una certa quantità di fatti; ma a quale rappresentazione rinvia? E quanto è unitaria e condivisa questa rappresentazione?



Se consultiamo un dizionario, leggiamo che “felicità” è «lo stato di chi è felice, di chi ritiene soddisfatto ogni suo desiderio»; “felicità” è sinonimo di «gioia, soddisfazione completa»; «eterna felicità» corrisponde a «la beatitudine del paradiso». E “felice” è «chi è sereno, appagato, completamente soddisfatto»; sinonimi di “felice” sono «lieto, contento».



Dunque la


felicità

rimanda a


soddisfazione completa

e


gioia

; così come


felice

rimanda a


soddisfatto

,


sereno

,


appagato

,


lieto

.



Ma se andiamo avanti, se cerchiamo le singole parole a cui i termini


felice

e


felicità

rimandano, ne troviamo ancora altri, che talora sembrano di segno contrario:


contento

,


allegro

,


quieto

,


tranquillo

;


allegria

,


letizia

,


contentezza

,


piacere

,


godimento

,


diletto

,


pace

,


tranquillità

,


serenità

,


quiete

,


gaiezza

,


soddisfazione dei sens

i o


dell'intelletto

. Quanto a "beatitudine", è definita come «felicità intensa, perfetta e assoluta» e anche come «felicità soprannaturale derivante all'anima dalla visione di Dio nell'Aldilà».



C'è poi una parola che compare più volte associata ai vari termini, ed è "desiderio". La felicità è «lo stato di chi ritiene soddisfatto ogni suo desiderio»; soddisfatto è «chi è appagato nei propri desideri», così come è appagato chi è «soddisfatto nel suo desiderio». E “desiderio” è «moto intenso dell'animo, che spinge a realizzare o a possedere qualcosa che si considera un bene»; e “bene” è «tutto ciò che è buono, giusto, onesto, e che perciò è degno di essere conseguito». Da notare infine il legame fra felicità e “piacere”, considerato come sinonimo di “soddisfazione” e definito a sua volta «sensazione gradevole derivante da una soddisfazione dei sensi o dell'intelletto».



Se chiediamo a persone diverse che cosa sia la felicità, che cosa significhi la parola “felicità”, abbiamo tendenzialmente risposte diversissime, anche se, in generale, – sia nella definizione del dizionario, sia, maggiormente, nella coscienza comune – il termine rimanda comunque al possesso di qualcosa, che sia la salute, o la serenità familiare, o l'amore, o il successo professionale, o il benessere economico, o un'equilibrata mescolanza di tutte queste cose: la ricerca generalizzata del benessere, il godimento privatistico e la definizione soggettiva del bene sembrano misure non negoziabili di felicità.



Ad un livello più profondo di riflessione, poi, la felicità sembra configurarsi come qualcosa di irraggiungibile, e viene di fatto identificata con una sorta di tranquilla accettazione dell'infelicità; la fragilità del bene appartiene intrinsecamente alla nostra cultura, e per la maggior parte la felicità è connotata da una precarietà estrema, è costituita da attimi fugaci.



Insomma, capire a quale rappresentazione condivisa rinvii, oggi, nella nostra lingua, il termine “felicità” non è affatto semplice.



Ancora più difficile è, ovviamente, capire che cosa il concetto di felicità significasse per gli antichi; a quale rappresentazione rinviasse per loro la felicità, e quanto unitaria e condivisa potesse essere questa rappresentazione.



Siamo in grado di recuperare il filo della felicità 'filosofica', dato che la cultura filosofica ha da sempre prodotto grandi modelli di felicità, che configurano forme di vita ideale: ma non dobbiamo dimenticare la distanza che da sempre intercorre fra il filosofo e gli altri, fra gli ideali dei filosofi con le loro pretese normative e le aspirazioni degli uomini comuni (


Storia della felicità. Gli antichi e i moderni

, Torino, Einaudi, 2001).



La storia occidentale della felicità – della riflessione sulla felicità – trae origine dalle riflessioni dei Greci sulla


Tyche

(la “fortuna”), una divinità terribile e incontrollabile: e la felicità era per i Greci


eudaimonía

, ovvero “buona tutela dei demoni”. Possedere la felicità significava di fatto essere dominati da una potenza divina favorevole.



Sennonché, da una lingua all'altra, nella traduzione, molte parole cambiano e si mutano, perché la lingua di appartenenza, eco dei comuni modi di pensare, impone di fatto una sorta di schiavitù nel tradurre il pensiero originario da un’altra lingua.



Nel mondo romano la “felicità” diventa


felicitas

, ovvero una parola collegata etimologicamente a


fetus

,


fecundus

: dunque all’atto del generare e alla fecondità della natura; dunque al ciclo vitale, alla prosperità, e conseguentemente anche all'incertezza. Ed è ovviamente da


felicitas

che deriva la nostra “felicità”.


I Romani avevano però anche un altro termine per indicare immediatamente la condizione di chi è felice, per indicare la felicità, ovvero


beatus

(da cui


beatitudo

,


vita beata

): e


beatus

ha un'etimologia incerta, ma – pare – collegata a


bonus

,


bene

: dunque qualcosa di ben diverso da


felix

, di meno ‘concreto’, e comunque maggiormente legato ad una sfera morale.


Nella latinità, i due termini –


felicitas

e


beatitudo

– possono essere usati sinonimicamente, ma, già ad un rapido controllo sui più completi dizionari, emergono due ambiti diversi di utilizzo: si può cioè affermare che l’aggettivo


beatus 

sia presente con grande frequenzanegli scritti dei filosofi e successivamente in quelli dei Padri della Chiesa,che usano abbastanza spesso anche il sostantivo


beatitudo

(soprattutto Agostino) usato invece raramente dai pagani; di contro,


felix

/


felicitas

sono usati soprattutto con riferimento più o meno esplicito al possesso di benimateriali, a desideri esauditi, a successi ottenuti.



In una epistola, Cicerone scrive,ad esempio, che la felicità (


felicitas

) non è altro che «il successonelle nobili azioni» (


honestarum rerum prosperitas

); «oppure, per dirloin altre parole, la felicità è la fortuna che ci assiste nei propositi onesti,senza i quali nessuno può essere in alcun modo felice: ne deriva che neipropositi corrotti e malvagi non può trovarsi felicità alcuna» (frammento diuna lettera a Cornelio Nepote, conservatoci da Ammiano Marcellino IV. scl.


Resgestae

XXI.16,3). C’è il riferimento al ‘bene’ – ai buoni consigli, aipropositi onesti –, ma l’accento è posto sul «successo».



Una definizione simile di


felicitas

si trova in Agostino, ne


La città di Dio

(4,18), laddove,riferendosi al rapporto fra felicità e fortuna stabilito dai pagani – con unpalese, anche se non palesato rimando a Cicerone – scrive: «La felicità èciò di cui i buoni godono per meriti antecedenti, mentre quella che vienechiamata buona fortuna capita a buoni e cattivi fortuitamente, senza alcunesame di merito».