“Amore” è sicuramente uno dei termini più ambigui ed equivoci di qualunque dizionario, perché, di fatto, la nozione di amore non gode di alcuna spiegazione completa e soddisfacente; e, ad essere indefinibile, non è solo l’amore in generale, ma anche ogni sua singola tipologia: compreso dunque l’amore che lega fra loro due persone Innamoramento e fuoco
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È di quest’ultimo tipo di amore che da sempre hanno parlato i poeti, quasi esploratori di un luogo incerto e pericoloso.
Sennonché, l’amore è invisibile, è una realtà immateriale, è un luogo dell’anima, e, come tale, difficile da rappresentare e rendere conoscibile senza un rinvio ad esperienze visive, auditive, tattili, olfattive: senza l’uso, dunque di un linguaggio metaforico, capace di ricorrere a cose visibili per descrivere e dare significato all’invisibile.
Quando cantano l’amore, i poeti latini intessono i loro versi di similitudini e metafore, alcune delle quali diventate nel tempo veri e propri topoi letterari: motivi presenti a volte in forma variata, ma pur sempre ricorrenti.
È così che, a partire da Catullo, diventano usuali le metafore dell’innamoramento come fuoco che brucia e dell’amore come schiavitù: tema – questo del servitium amoris – che, a partire dai poeti elegiaci Tibullo e Properzio, gode di grandissima fioritura. Sempre a partire dai poeti elegiaci, si moltiplicano le metafore relative al dio greco Eros (per i Romani, Amore o Cupido) con le sue armi, le sue frecce, le sue fiaccole, i suoi accampamenti e le ferite da lui inferte; Orazio per primo sembra infine usare poeticamente la metafora dell’amore come guerra, destinata ad avere in seguito notevole fortuna.
Amore e schiavitù: servitium amoris Presente solo in due carmi, ma sicuramente intensa, è, in Catullo, la metafora dell’amore come schiavitù, con specifico riferimento alla croce e alla tortura in generale. – Nel Carme 99, indirizzato al giovane Giovenzio, si legge: Mentre giocherellavi…ti ho rubato un bacio, più dolce dell’ambrosia, ma l’ho pagata cara: ricordo ancora di essere stato conficcato in cima a una croce per più di un’ora, mentre mi giustificavo con te, né potevo in alcun modo placare un poco con le mie lacrime la tua sevizia…. Non la finivi più di torturarmi in tutti i modi possibili». – Ma, prima che nel Carme 99, la tortura compare nel famosissimo Carme 85: « Odi et amo, quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior / Odio e amo. Magari ti interroghi su come faccia. Non lo so, ma sento che è così e mi torturo». In Orazio, le due metafore più significative si trovano in: – Odi I, 33: «Così ha voluto Venere, a cui piace, con un gioco crudele, sottomettere al duro giogo disparati corpi ed anime». – Odi II, 8 a Barine: «…cresce una nuova schiera di schiavi, né quelli di prima, seppure spesso lo minaccino, abbandonano il tetto della perfida padrona». Ripetutamente ribadita da Tibullo è la propria schiavitù amorosa, non a caso già evidenziata nella prima elegia del libro I, dove afferma: «Si addice a te, Messalla, guerreggiare per terra e per mare… avvincono me, vinto, le catene di una bella fanciulla, e, come un portiere, sto seduto davanti ad una porta che non si apre» (53-56). Diverse altre sono le metafore per così dire articolate. – Ad esempio, quando la donna amata, Delia, lo lascia per un amante più ricco, Tibullo le scrive: «Facevo il duro; dicevo che avrei sopportato bene la separazione, ma ora il vanto di essere forte è lontanissimo da me. E infatti sono spinto come una trottola che vortica qua e là su un terreno spianato, mossa velocemente a colpi di sferza da un fanciullo con la consueta destrezza» (I, 5). – In I, 6, confessa: «Non protesto di fronte alle crudeli staffilate; non rifiuto di portare ai piedi le catene». – In II, 3, ribadisce: «Sotto il comando della mia padrona dividerò i campi in solchi; non mi sottraggo a catene e staffilate». – L’elegia quarta del libro II inizia, infine, con l’affermazione che egli vede pronte per sé «una schiavitù (servitium) e una padrona (domina)». Ancora più numerose sono le metafore usate da Properzio. – Di «schiavitù» a lui «più familiare» parla il poeta riferendosi al suo amore per Cinzia in confronto a quello per altre donne: un amore che è vero e proprio furor (Elegie, I, 4). – Il servitium torna nella già citata elegia I, 5, dove, rivolgendosi a Gallo, che sta cercando di ottenere i favori della sua Cinzia, Tibullo lo mette in guardia: «Quante volte, respinto con disprezzo, correrai alla mia porta, quando le tue parole energiche cadranno fra i singhiozzi, e un terrore che ti farà rabbrividire sorgerà fra i tuoi pianti desolati…e qualunque parola vorrai dire fuggirà via cacciata dai lamenti, né, misero, sarai in grado di sapere chi tu sia o dove tu sia! Sarai costretto, allora, a conoscere la pesante schiavitù che la mia fanciulla impone, e che cosa significhi tornare a casa dopo essere stato scacciato…». – Il totale assoggettamento di chi ama è al centro dell’elegia 3 del libro II: ché smettere di amare, pensare che l’amore possa cancellarsi è come pretendere che i pesci vivano all’asciutto sulla sabbia e i cinghiali nel mare; «e come il toro in principio rifiuta l’aratro, ma poi, assuefattosi al giogo, va mansueto sui campi, così inizialmente i giovani scalpitano fieri in amore, ma poi, domati, sopportano il giusto e l’ingiusto». – In II, 5, Properzio, fortemente sdegnato per il comportamento di Cinzia, rivolge a se stesso un’esortazione per riuscire a lasciarla, per separarsi da lei: «Fintanto che puoi – scrive –, libera il collo dall’immeritato giogo! Certo, soffrirai un po’, ma solo per la prima notte: ogni sofferenza d’amore, se resisti, si fa lieve». – In II, 23, Properzio scrive che «poiché a chi ama non resta più alcuna libertà, se qualcuno vorrà amare non sarà mai libero»: dunque, l’amore è una schiavitù. – In II, 25, infine, il linguaggio metaforico investe sia il tema della guerra che quello della schiavitù: «Il soldato carico di anni, messe da parte le armi, vive in solitudine; i buoi vecchi non trascinano più gli aratri; la nave marcita rimane ferma sull’arenile vuoto; il vecchio scudo, appeso in un tempio, non ha più guerre da combattere: ma nessuna vecchiaia distoglierà me dall’amarti». Quanto ad Ovidio, il motivo del servitium amoris, non si ritrova molto spesso: Ovidio è piuttosto il ‘cantore’ della militia amoris. Amore e guerra: militia amoris – Nel libro III delle Odi, Orazio, chiedendo a Venere di punire l’arroganza di Cloe, scrive: «Ho vissuto fino a poco tempo fa piacendo alle fanciulle, e ho militato non senza gloria sotto le insegne dell’amore. Ora questa parete, che protegge il fianco sinistro della Venere marina, conserverà le armi e la cetra che ha ormai compiuto le sue battaglie. Qui deponete, o servi, torce accese e sbarre e archi, strumenti minacciosi contro le porte che oppongono resistenza» (26). – Il motivo – unitamente a quello del servitium amoris e del fuoco – ritorna in Odi IV, 1, dove, trascorsi anni, troviamo la stessa dea Venere, che chiama il poeta a nuove battaglie: «Tu, o Venere, sollevi di nuovo contro di me le guerre a lungo abbandonate: risparmiami, ti prego, ti supplico! Non sono più quello che ero sotto il supremo potere della buona Cinara. Cessa, o madre crudele degli Amorini, di piegare ai tuoi teneri ordini un uomo di quasi cinquant’anni ormai indurito: vattene dove ti reclamano le lusinghiere preghiere dei giovani. Più opportunamente, se cerchi un fegato adatto ad infiammarsi, ti recherai, portata in volo dagli splendidi cigni, a casa di Paolo Massimo: infatti è un giovane nobile ed elegante, e pronto a parlare in difesa di accusati ansiosi; e, giovane dotato di cento pregi, porterà per ogni dove le insegne della tua milizia… Ma, ahimè, perché mai, o Ligurino, qualche rara lacrima mi scende lungo le gote?... Nei miei sogni notturni io già ti afferro e ti tengo stretto, già seguo te mentre corri veloce sul suolo erboso del Campo Marzio, e seguo te, spietato che sei, tra le rapide acque». – Tibullo, in Elegie I,1, rivolgendosi a Delia, afferma: «Ora è tempo di darci all’amore senza pensieri… In questo, io sono un buon condottiero e un buon soldato (73-75). – Con riferimento all’amore come guerra, l’amplesso con Cinzia ispira talmente l’animo di Properzio da renderlo capace di comporre «una Iliade infinita» (Elegie II, 1). – Le vicende amorose sono equiparate alle solenni guerre della storia in II, 8: «Sei vinto o vinci: in amore questa è la ruota. Spesso caddero grandi condottieri, e caddero grandi tiranni: si ergeva un tempo Tebe, ed era grande Troia». – Una metafora bellica pare essere anche quella presente all’inizio dell’elegia 17 del libro II, dove si legge che mentire sulle proprie intenzioni, promettere un incontro e non mantenere la promessa, è anche questo «avere le mani sporche di sangue». In perfetto accordo con i temi dell’elegia, Ovidio attinge frequentemente all’ambito metaforico dell’amore come guerra, o, per meglio dire, è uno dei suoi topoi l’inserimento della vita amorosa in un quadro militare. – In particolare, nella raccolta Amori, in cui, usando il filtro dell’ironia, rappresenta l’amore in ogni sua fase e situazione, l’elegia I, 9 codifica di fatto le regole della militia amoris: interamente costruita sulla metafora bellica, l’elegia parte dal presupposto che – come recita il primo verso – «ogni amante è un soldato, e Cupido ha i suoi accampamenti», e prosegue elencando tutti i tratti che accomunano l’innamorato e il soldato. – Ancora negli Amori, l’elegia II, 9, ricca di metafore belliche, inizia con una invocazione a Cupido, che risiede perennemente nel cuore del poeta, «soldato che non ha mai disertato» le sue insegne; metafore simili si trovano anche in II, 12 – II, 14 – II, 17. – La militia amoris, con relative metafore è fortemente presente anche ne L’arte di amare, dove l’eros è vissuto come una sorta di divertimento galante coniugato prevalentemente, se non totalmente, al maschile, e dove il tema dell’amore come guerra è costantemente affiancato da quello dell’amore come caccia, che vede ovviamente l’uomo nelle vesti di cacciatore. – Un vero ‘campionario’ di metafore – dalle fiamme alla guerra, dalla schiavitù alle armi di Cupido è presente, infine, in Amori I, 2, in cui Ovidio celebra il trionfo di Amore come quello di un generale vittorioso: «… Frecce sottili hanno trafitto il cuore, e il crudele Amore – scrive il poeta – si è impadronito della mia anima e la sconvolge. Devo cedere, o, lottando, devo accendere un fuoco improvviso? Meglio che io ceda: diventa più lieve un peso ben sopportato! Mosso il tizzone, ho visto accrescersi le fiamme scosse, e le ho viste estinguersi di nuovo se non agitate da alcuno. Devono sopportare più percosse i buoi che all’inizio rifiutano il giogo, rispetto a quelli cui piace l’uso dell’aratro. Il cavallo ribelle si rompe la bocca sul morso dentato, quello che si adatta ai finimenti sente meno il freno. Amore incalza molto più duramente e crudelmente coloro che gli resistono di coloro che riconoscono di doverne sopportare la schiavitù. Ecco, io lo riconosco: sono la tua nuova preda, Cupido: porgo le braccia vinte al tuo comando. Non serve la guerra: ti chiedo benevolenza e pace, e non avrai gloria con le armi: sarò un vinto inerme. Intreccia la chioma col mirto, appariglia le colombe di Venere; il tuo stesso patrigno ti darà un carro degno di te, e su questo carro donato tu ti ergerai e guiderai abilmente gli uccelli aggiogati, mentre il popolo acclamerà il tuo trionfo. Sfileranno i giovani prigionieri e le prigioniere fanciulle: questo corteo sarà il tuo magnifico trionfo. Anch’io, recente preda, avrò la ferita appena ricevuta, e porterò le mie nuove catene con l’animo del prigioniero. Sfileranno, con le mani legate dietro la schiena, la Saggezza e il Pudore e chiunque possa costituire un pericolo per i tuoi accampamenti… Ti accompagneranno Blandizie, Errore e Furore… Dal sommo dell’Olimpo, tua madre, lieta, applaudirà il tuo trionfo… Persino allora, se ti conosco bene, brucerai non pochi; persino allora, passando, infliggerai molte ferite: le tue frecce non possono avere sosta, nemmeno se fossi tu a volerlo; la fiamma ardente brucia chi le è vicino…Dunque, potendo io esser parte del tuo sacro trionfo, non sprecare con me le tue forze, o vincitore! Guarda le armi fortunate del tuo consanguineo Augusto: con la stessa mano con cui li vinse, egli protegge i vinti». Innamoramento e dio dell’amore I riferimenti al dio dell’amore, al suo arco e alle sue frecce e alle ferite inferte, sono ovviamente innumerevoli, e già nelle metafore qui riportate ne abbiamo visti diversi. Fra le immagini che lo ritraggono mi piace però ricordarne almeno due, per la loro originalità e vividezza: – Nella già ricordata Ode a Barine (Odi, II, 8), Orazio accusa la sua amante di godere nello spergiurare sulla propria vita, sulle ceneri della propria madre, sugli astri e sugli dei, dopo di che commenta: «Ride di ciò, credo io, la stessa Venere, ridono le ingenue Ninfe e il feroce Cupido,che appuntisce continuamente le sue frecce infuocate sulla cote insanguinata. – Un intreccio continuo di metafore sono i versi dell’elegia I, 9 di Properzio, dedicata ad un amico innamorato: un amico, che prima lo derideva e che ora giace prostrato, sottomettendosi supplice al dispotismo di una giovane donna; che, impazzito, va cercando acqua in mezzo a un fiume; che non è ancora arso dal fuoco, ma ha già in sé la prima scintilla dei futuri supplizi. Quando ciò accadrà, «preferirai – dice il poeta all’amico – affrontare le tigri armene, provare le catene della ruota infernale, piuttosto che sentire ripetutamente nel profondo della carne le frecce dell’arco del fanciullo e non riuscire ad opporre alcun rifiuto alla tua donna in preda all’ira. Mai Amore offrì ad alcuno le proprie ali benevole, senza poi soffocarlo con l’una e l’altra mano… Amore non si manifesta apertamente, finché la sua mano non è arrivata a toccare le ossa…». Similitudini e metafore ‘eccentriche’ Il Carme 11 di Catullo, quello dell’addio definitivo a Lesbia, ci regala una delle similitudini più belle sull’amore tradito: quell’amore che, per colpa della donna amata, è «caduto, come un fiore reciso sul limitare del prato, toccato dall’aratro che si allontana». Una serie di metafore belle, inusuali e di notevole impatto ci offre Properzio. – In Elegie I, 7 troviamo la metafora dell’amore come usuraio: ché «spesso l’amore arriva tardivo, e richiede grandi interessi». – In I, 8B, nella convinzione che il suo amore sia pienamente corrisposto, Properzio esclama: «io posso ora camminare sopra le somme stelle… Cinzia è mia!». – In I, 11, la donna amata è equiparata alla casa, e non solo: ché «tu sola – scrive Properzio – sei la mia casa; tu sola, Cinzia sei per me padre e madre; tu sei ogni istante della mia letizia». – In I, 14, l’amore è ricchezza: quando Cinzia trascorre con lui la notte desiderata, quando vivono insieme una giornata di sereno amore, allora dentro la casa di Properzio «arrivano le acque aurifere del fiume Pattolo e si raccolgono perle sotto il Mar Rosso». – In II, 4, troviamo contrapposti amore eterosessuale ed omosessuale: e, se «amare una donna» è pericoloso, amare un ragazzo è come «navigare in un fiume tranquillo su una barca sicura». – In II, 22A, volendo dimostrare l’avvenuto affrancamento dal servitium di Cinzia, Properzio, rivolgendosi ad un amico esprime l’idea che la vita sessuale possa contemplare contemporaneamente più amori. Per lui, infatti, una sola donna è poco: meglio averne due, e che sappiano l’una dell’esistenza dell’altra, perché «di certo, due ormeggi difendono meglio la nave, e una madre ansiosa si sente più al sicuro allevando due gemelli».