"Si vis pacem para bellum"
Nel prologo del libro III della Epitoma Rei Militaris (Epitome sull’arte della guerra, o L’arte della guerra), si legge:
«Se gli Ateniesi si sono molto adoperati per lo sviluppo non solo dell’arte della guerra, ma anche di ben altre arti, gli Spartani si sono consacrati soprattutto alla guerra. Alla fine, traendo insegnamento dall'esito delle battaglie, si dice che essi furono i primi a mettere per iscritto l'arte dei combattimenti, tanto da elevare la pratica militare […] al grado di disciplina e oggetto di studio, e che incaricarono maestri d'armi […] di inculcare nella loro gioventù le varie pratiche di combattimento. […] Seguendo il loro esempio, I Romani hanno a loro volta conservato per la pratica le regole del mestiere di Marte e le hanno consegnate alla scrittura. Queste conoscenze, disperse nei libri di diversi autori, tu, imperatore invitto, hai dato alla mia modesta persona l’ordine di compendiarle, per evitare che dalla troppa abbondanza d fonti derivasse la noia o che, in un quadro ridotto, facesse difetto la fedeltà […] Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum; qui uictoriam cupit, milites inbuat diligenter; qui secundos optat euentus, dimicet arte, non casu. Nemo prouocare, nemo audet offendere quem intellegit superiorem esse, si pugnet. Dunque, che colui che desidera la pace prepari la guerra; che colui che aspira alla vittoria istruisca accuratamente i suoi soldati; che colui che si augura il successo combatta seguendo l’arte della guerra e non affidandosi al caso. Che nessuno osi né provocare né affrontare chi sa essere superiore a lui nel combattere».
Sull’autore dell’Epitome sappiamo ben poco, e anche il suo nome, Publio Flavio Vegezio Renato, è incerto. Molte incertezze avvolgono anche l’identificazione dell’imperatore al quale il manuale è dedicato (Teodosio I o Valentiniano o Teodosio II) e, conseguentemente, la sua data di composizione, anche se studi più recenti indirizzano verso la figura di Teodosio II (408-450) e, con reciproche discordanze, datano l’Epitome in anni più o meno compresi fra il 425 e il 448.
La sua opera ebbe nel Medioevo una sorprendente popolarità, in particolare nell’età carolingia, come testimonia l’ingente numero di codici manoscritti che ce l’hanno tramandata, e, a partire dal XIV secolo, fu anche tradotta nelle principali lingue volgari, garantendone così la fortuna nei secoli a venire: una fortuna dovuta a diverse ragioni, fra cui, non ultima forse, l’appartenenza di Vegezio alla cristianità e la possibilità di applicare le sue nozioni sull’arte della guerra alla cristiana lotta contro il male; l’utilità, dunque, di quelle nozioni per il miles christianus, impegnato a propagare il vangelo della pace, combattendo contro gli spiriti del male. Va poi aggiunto come i princìpi di apologia dello sforzo, austerità e disciplina fossero utili alla Chiesa, per la compilazione di exempla e per i sermoni da rivolgere ai nobili; e come Vegezio potesse rivelarsi utile ai propositi di moralizzazione dei guerrieri.
Peraltro, il motivo della utilitas, usuale nella trattativa tecnica, è centrale nell’Epitome, dove assume un doppio ruolo: da un lato, viene riferito al metodo compositivo, che mira a presentare le nozioni in modo unitario e non dispersivo, attingendo alle fonti e compendiandole; dall’altro, si insiste sull’utilità pratica delle nozioni stesse per lo Stato: il fatto che l’opera sia dedicata all’imperatore evidenzia infatti come la lettura debba trasformarsi in azione, tradursi cioè nella realizzazione concreta delle indicazioni avanzate (appunto, l’utilitas).
Quanto alle fonti trattatistiche militari, è lo stesso Vegezio ad indicarle (Publio Tarutieno Paterno, Catone il Censore, Aulo Cornelio Celso, Sesto Giulio Frontino, Publio Tarrutenio Paterno), e sono fonti che vanno dal II secolo a. C. al II d. C.: fonti, dunque, che – pur se preziose per la conoscenza della storia militare romana – sono riferibili ad età ed ordinamenti militari sicuramente diversi da quelli di appartenenza del trattato, e raccolte per di più da un autore che, per sua stessa affermazione, non possedeva alcuna esperienza diretta della guerra.
Ciò non toglie che, al di là del suo valore storico e letterario, l’Epitome contenga elementi utili a comprendere i meccanismi che stanno alla base di ogni organizzazione militare, che racchiuda alcuni precetti di carattere per così dire universale in materia di strategia e di politica difensiva, che in alcune sue parti risulti adattabile alla filosofia militare di qualsiasi età: elementi, tutti, che spiegano il perdurare della sua fortuna nei secoli.
Fra i ‘precetti’ di Vegezio, uno ha avuto ed ha particolare fortuna, anche se – così come viene spesso citato – non è stato propriamente scritto da lui: ed è il famoso Si vis pacem para bellum (Se vuoi la pace prepara la guerra), ripetutamente usato nell’ambito delle relazioni internazionali per legittimare il principio della deterrenza nei lunghi anni della “guerra fredda”, e ritornato ora prepotentemente alla ribalta, con lo scoppio del conflitto russo-ucraino, per la sua riscoperta e il suo utilizzo da parte dei sostenitori dell’interventismo e , soprattutto, di coloro che auspicano una corsa europea al riarmo.
Qualcuno, alla ricerca di citazioni più o meno antiche che rendano per così dire inoppugnabili le proprie opinioni, non si accontenta di un detto ‘anonimo’, che deriva probabilmente da un autore latino non troppo noto come Vegezio, ma va oltre, e cita un passo della VII Filippica di Cicerone: «si pace frui volumus, bellum gerendum est (se vogliamo usufruire della pace, bisogna fare la guerra)» (Philippicae, VII, 6,19).
Le Filippiche sono le orazioni pronunciate da Cicerone contro Marco Antonio (tranne la II, mai pronunciata) dal settembre del 44 all’aprile del 43 a. C., e sono chiamate Filippiche con allusione alle requisitorie del grande oratore ateniese Demostene contro il re di Macedonia Filippo II (Filippo il Macedone, 382-336 a. C.): la paternità ciceroniana del titolo è controversa – alcuni scrittori antichi le chiamano Antoniane –, ma è comunque certo che Cicerone usa il termine Filippiche nella sua corrispondenza, anche se in senso scherzoso.
Il vuoto di potere causato dalla morte di Cesare aveva lasciato la scena politica romana divisa fra tre fazioni, quella dei cesaricidi, che godeva dell'appoggio del Senato, quella che faceva capo ad Antonio, e quella dei veterani delle legioni di Cesare, che avevano trovato una guida in Ottaviano, figlio adottivo ed erede testamentario di Cesare. Di fronte al potere che Antonio andava acquistando, Cicerone, che appoggiava Ottaviano, iniziò una violenta campagna denigratoria contro di lui, pronunciando appunto le sue Filippiche: la VII, databile agli inizi del 43, testimonia il clima di guerra civile ormai consolidato, e Cicerone si trova a suo dire costretto dalle circostanze a farsi promotore di quella stessa guerra.
C’è chi vuole trattare con Antonio – dice Cicerone –, c’è chi sostiene che le sue richieste siano moderate, mi accusano di volere la guerra, sostengono che non bisognasse irritare Antonio. Chi sono costoro? Sono quelli che si sono creati la fama di democratici, e che oggi scelgono di essere non più democratici ma cattivi cittadini. Nessun tempo è mai stato tanto decisivo come l’attuale, «e così io, che sono sempre stato un fautore della pace […] io, che per così dire mi nutro di pace […], ebbene io, che – ripeto ancora – ho sempre lodato e promosso la pace, proprio io ora non voglio che ci sia la pace con Marco Antonio. Perché dunque non voglio la pace? Perché la pace sarebbe vergognosa, pericolosa, impossibile […] E non è che io non voglia la pace, ma ho paura di una guerra che si nasconda sotto la falsa sembianza di pace: perciò, se vogliamo usufruire della pace, bisogna fare la guerra; perciò, se rinunciamo ora alla guerra, non usufruiremo mai della pace (Quare, si pace frui volumus, bellum gerendum est; si bellum omittimus, pace numquam fruemur). È proprio della vostra saggezza, Senatori, guardare il più lontano possibile nel futuro» (1, 3- 6,19).
Non mancano nemmeno riferimenti a Platone, sia come sostenitore della necessità della guerra ai fini della pace, sia come ‘precursore’ del detto Si vis pacem para bellum.
Il passo di Platone a cui si allude si trova nel I libro del dialogo Le leggi, dialogo che rappresenta l’ultima espressione del pensiero politico del filosofo. Gli interlocutori sono tre vecchi: l’Ateniese (in cui si riconosce lo stesso Platone), il cretese Clinia e lo spartano Megillo, rappresentativi dei tre più importanti modelli costituzionali della Grecia antica. Il tema di cui si inizia a discutere è quale sia il fine ultimo che un legislatore deve porsi nello stabilire le leggi. Clinia pensa che questo fine sia la guerra: «A me sembra – afferma infatti, parlando di Creta – che il legislatore abbia inteso condannare la mancanza di senno dei più, i quali non si accorgono che tutti gli Stati per tutta la loro durata sono sempre in guerra continua con tutti gli altri […] Quella che la maggior parte degli uomini chiama pace è tale soltanto di nome, mentre di fatto tutti gli Stati sono sempre, per loro stessa natura, in guerra non dichiarata con tutti gli altri. Considerando la cosa da questo punto di vista, troverai che il legislatore di Creta ordinò tutte le nostre istituzioni, pubbliche e private, avendo come fine la guerra, e che per questo ci diede le leggi da osservare, come se non ci fosse alcuna utilità in nessun’altra cosa, né nei beni né nelle occupazioni, qualora non si vincesse in guerra, perché tutti i beni dei vinti diventano dei vincitori» (625).
Alle affermazioni di Clinia, che uno Stato ben costituito debba avere ordinamenti tali da vincere in guerra gli altri Stati, e che dunque anche nei periodi di pace si debba pensare alla guerra, l’Ateniese replica, argomentando ampiamente e allargando il discorso ai villaggi, alle famiglie, ai singoli individui, fino a concludere che «il maggior bene non è né la guerra né la sedizione interna (che anzi si devono fare voti a che di esse non ci sia bisogno), ma la pace e la reciproca benevolenza […] Chi […] mirasse solamente e principalmente alle guerre esterne non sarebbe mai un saggio uomo di governo, e non sarebbe un perfetto legislatore qualora non regolasse a favore della pace ciò che riguarda la guerra, anziché a favore della guerra ciò che riguarda la pace» (628).
Ora, senza affrontare il tema complesso del modo in cui Platone considera la guerra, rispetto alla quale, di fatto – considerando il Protagora e La Repubblica – non trasmette affatto una visione in sé per sé negativa (la guerra è considerata parte della politica, e anche strumento di accrescimento dello Stato nonché mezzo di progressivo incivilimento), è palese come ne Le leggi emerga fortemente l’esigenza di una fondazione razionale, in chiave filosofica, del concetto di pace.
Dunque, Platone pone in bocca al cittadino spartano una teorizzazione ancora attuale, ovvero che di fatto «gli Stati sono sempre, per loro stessa natura, in guerra non dichiarata con tutti gli altri», che gli uomini si illudono di vivere in pace mentre quella pace «è tale soltanto di nome», che la guerra serve a difendere le proprietà e la sicurezza degli Stati stessi, e che dunque prepararsi ad essa rientra fra i ruoli di chi governa: sicuramente, affermazioni che di fatto ‘assomigliano’ al detto Si vis pacem para bellum; affermazioni, però, – abbiamo visto – che Platone contesta, e che usa per poter sviluppare un discorso di carattere ben diverso, indirizzato verso la costruzione di una possibile pace.
In ogni caso, al di là delle possibili interpretazioni del pensiero platonico e del suo sviluppo, che nei secoli hanno interessato, in epoche diverse, personalità notevoli della filosofia, ciò che non può non destare perplessità è il fatto che alcuni suoi testi – in particolare La Repubblica –, invece di essere studiati per capire meglio quel pensiero, e soprattutto analizzati nel loro significato per l’epoca – ovvero, invece di essere contestualizzati – siano talvolta diventati uno strumento per l’applicazione di prospettive filosofico-politiche che nulla avevano a che vedere con la Grecia del IV secolo a. C.
Se la contestualizzazione è importante per la lettura e la comprensione di testi filosofici, nonostante le loro tematiche universali, essa diventa un dovere imprescindibile per altri generi di opere, come possono essere le orazioni di Cicerone o il trattato militare di Vegezio.
La VII Filippica – come abbiamo detto – testimonia il clima di guerra civile ormai consolidato fra Marco Antonio e Ottaviano: una guerra civile che Cicerone considera ormai inevitabile.
C’è chi, a proposito di questa orazione, ha parlato del disagio e della sofferenza che trasparirebbero dalle parole dell’oratore, costretto a farsi promotore di ciò che la sua morale considera una vera e propria sciagura: lui, fautore della pace – come ripetuto quasi ossessivamente –, costretto a diventare fautore di una guerra, e non di una guerra qualunque, ma addirittura di una guerra civile.
In realtà, al di là delle sue possibili teorizzazioni sulle «guerre giuste» e su quelle «ingiuste», deducibili da alcuni passi del De re publica (La Repubblica) del De legibus (Le leggi) e del De officiis (I doveri), che Cicerone fosse realmente un fautore della pace è qualcosa su cui appare più che legittimo avere dei dubbi, tenendo conto delle sue vicende biografiche: considerando il contesto, è comunque certo che la frase «se vogliamo usufruire della pace, bisogna fare la guerra» non ha alcun intento o valore universalistico, ma è riferita esclusivamente alla situazione contingente: assolutamente fuorviante, dunque, considerarla espressione del suo pensiero filosofico-politico.
Peraltro, quella sua contingente posizione non portò bene né alla Repubblica (la cui fine è, almeno formalmente, riconducibile al triumvirato del 43), né a lui: la manovra di riportare Ottaviano sotto le ali protettrici del Senato fallì; Ottaviano si sottrasse alla tutela del Senato e strinse un patto con Antonio e Lepido; Antonio chiese la testa di Cicerone. Condannato all’esilio perpetuo, Cicerone si mosse da Roma per andare in Macedonia; arrivato a Formia, da cui avrebbe dovuto imbarcarsi, si fermò un giorno a causa del mare in burrasca, dando così il tempo ad Antonio di trasformare l’esilio in assassinio. Il 7 dicembre del 43, mentre si recava in lettiga verso l’imbarcazione, Cicerone fu raggiunto dai sicari di Antonio; avvertito un certo frastuono, si sporse fuori dalla lettiga per vedere cosa stesse succedendo, e gli venne mozzata la testa di netto; poi, per ordine esplicito di Antonio, gli furono anche tagliate le mani (che avevano osato scrivere le Filippiche); le membra mozzate furono portate a Roma ed esposte sui rostri da cui parlavano gli oratori, mentre il corpo fu sepolto nel luogo dell’uccisione.
Quanto a Vegezio, non va dimenticato che egli vive in un’epoca di grande declino dell’impero romano, caratterizzato anche dal forte impatto delle invasioni barbariche: a fronte di ciò, Vegezio scrive un trattato militare, auspicando che possa servire a dare nuova linfa agli eserciti imperiali, che essi possano in qualche modo reinventarsi, e che, con essi, acquisti nuova linfa l’impero. Siamo cioè di fronte ad un testo che si propone di essere funzionale ad una politica di espansione dell’impero: un impero che, al momento, viveva costantemente sotto minaccia, in una condizione di grande crisi ed instabilità, e che solo in un rilancio espansionistico poteva trovare la sua speranza di sopravvivenza. Di fatto, Vegezio auspicava un ritorno agli antichi fasti, quando i Romani erano stati capaci di conquistare il mondo con la forza delle loro armi: quando il loro imperialismo ante litteram faceva pronunciare al capo dei Caledoni, Calgaco, il discorso riportato da Tacito nel De vita Iulii Agricolae (Vita di Giulio Agricola, 30-32), con la famosa frase «Rubare, massacrare, devastare, con un eufemismo lo chiamano impero, e là dove fanno il deserto quella la chiamano pace (Auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant)» (30); quando la ‘pace’ poteva solo essere il risultato di una guerra di espansione vinta.
Abbiamo detto che l’Epitome racchiude alcuni precetti di carattere per così dire universale: ebbene, al di là delle intenzioni o delle convinzioni del suo autore, la frase «qui desiderat pacem, praeparet bellum» – non a caso seguita da riferimenti alla vittoria militare – è chiaramente frutto del contesto storico in cui è stata scritta e delle finalità per cui è stata scritta; non ha alcun rapporto diretto con la deterrenza, e può assumere una validità ‘generale’ solo se riferita a contesti storici caratterizzati dalla volontà espansionistica di alcuni Stati contro altri.
E non è detto che funzioni: nonostante Vegezio, non molti anni dopo, il 476 d. C. segnò infatti la definitiva caduta dell’impero romano d’Occidente.
E veniamo infine all’anonimo motto Si vis pacem para bellum e alla sua diversità nell’uso rispetto a tutti i presunti ‘progenitori’, progenitori fra i quali potremmo anche aggiungere diversi altri passi tratti da autori greci e latini: ad esempio, in Tucidide 1.124.2, i Corinzi, al fine di ottenere l’adesione alla propria causa durante la guerra del Peloponneso, affermano che «la pace è resa più salda dalla guerra». Ancora, nella biografia di Epaminonda, Cornelio Nepote narra di come il grande condottiero di Tebe, famoso artefice dell’egemonia tebana contro Sparta (IV secolo a. C.), fosse per così dire calunniato dal concittadino Meneclide, il quale, per sminuirne l’importanza, vista l’eccellenza militare di Epaminonda, esortava i Tebani ad anteporre la pace (pacem) alla guerra (bello); Epaminonda – il cui obiettivo contingente era quello di una pace che tutelasse i Tebani dall’asservimento a Sparta – lo accusò di ingannare i cittadini, col suo volerli allontanare dalla guerra, poiché «in nome di una pace oziosa» ne favoriva di fatto la schiavitù: «la pace, infatti, – diceva – è generata dalla guerra (nam paritur pax bello)» (Epaminonda, 5, 4-5).
Contrariamente a quanto accade nella cultura greca e romana, in cui il concetto che la guerra sia necessaria ad ottenere la pace è sempre storicamente contestualizzato, in epoca moderna esso è da sempre usato come massima universalmente valida: sia per affermare il principio della dissuasione, ovvero la costituzione di un apparato militare paragonabile a quello del nemico potenziale, come metodo di equilibrio tra le nazioni e di deterrenza dei conflitti, sia per sostenere – più raramente – che chi intende pianificare una guerra deve far abbassare la guardia alle altre nazioni, promuovendo la pace.
La pretesa universalità del concetto, che parrebbe essere nata nel XVI secolo, allorché, in seno al pensiero politico italiano, s’impone una forte riflessione su ciò che oggi chiamiamo “lo Stato”, trova ampio riconoscimento solo nell’Ottocento: complice, probabilmente, la politica per così dire machiavellica di Napoleone, che faceva sue le tesi sostenute da Machiavelli ne Il Principe (basti pensare in particolare al capitolo XIV).
Quanto all’espressione del concetto stesso nella forma oggi diffusa del Si vis pacem para bellum, c’è chi sostiene – ma non sono riuscita a controllare la notizia alla fonte – che esso compaia sulla stampa del documento che, nel 1892, celebrava la convenzione militare fra la Russia e la Francia in funzione anti-tedesca, ma risulta attestato anche in precedenza (come parrebbe anche solo dimostrare una lettera di Karl Marx a Friedrich Engels del 1859, fortemente critica verso la chiamata alle armi e il fanatismo bellico del momento). Grandissima diffusione la frase ebbe poi nel clima della guerra fredda: fra i tanti che la usarono, anche Giovanni Guareschi, che, su Il Candido del 26 giugno 1950, la ricordava ai firmatari di una petizione contro la costruzione delle armi atomiche, accusandoli di essere servi del comunismo. Molte sono anche – già prima della guerra in Ucraina – le sue citazioni recenti, fatte per avvalorare scelte militari (ad esempio, Ronald Reagan 11/1/89, Silvio Berlusconi 6/2/2003, Romano Prodi 17/3/2004).
In conclusione, se si è d’accordo nel considerare gli armamenti o la guerra tout court come unica garanzia per la pace, si usi pure il ‘grido di battaglia’ Si vis pacem para bellum, ma lo si faccia senza tirare in ballo fonti antiche: senza voler rendere per così dire intoccabili e indiscutibili le proprie opinioni attraverso il ricorso strumentalmente improprio a citazioni erronee, o quantomeno prive di qualsiasi contestualizzazione.
Che, se poi si volesse negare l’importanza della contestualizzazione e si insistesse a riconoscere un valore universale alle citazioni di Cicerone, o di Nepote, o di Vegezio…, occorrerebbe prendere atto che, in relazione al rapporto fra pace e guerra, Livio, almeno in un passo, ‘teorizza’ qualcosa di ben diverso, che potrebbe riassumersi in “Si vis bellum para bellum”.
Siamo nel 304 a. C., anno in cui si concluse con un trattato di pace la seconda guerra sannitica. Livio racconta che i Sanniti – nel desiderio di porre fine alla guerra o di ottenere una tregua – avevano inviato a Roma ambasciatori per discutere della pace, ma era stato loro riposto che già troppo volte avevano chiesto in precedenza la pace mentre in realtà continuavano a preparare la guerra, e che quindi un trattato di pace non poteva essere stipulato sulla base di una semplice discussione fra le parti: il trattato fu quindi stipulato solo dopo che l’esercito romano ebbe percorso il Sannio in lungo e in largo, verificando le oggettive intenzioni e condizioni di pace. Una situazione analoga si verificò poi con gli Equi, che per anni avevano tramato coi Sanniti, ostentando una falsa volontà di pace: quando rifiutarono di dar conto del proprio infido comportamento, facendo fallire ogni possibile trattativa, Roma decretò contro di loro la guerra e, in breve, li sottomise definitivamente (IX, 45).
E, se poi, in relazione alla guerra in Ucraina, qualcuno volesse insistere a citare il Vegezio del «qui desiderat pacem, praeparet bellum», sarebbe giocoforza rispondergli con la massima immediatamente successiva «Nemo prouocare, nemo audet offendere quem intellegit superiorem esse, si pugnet (Che nessuno osi né provocare né affrontare chi sa essere superiore a lui nel combattere)».