Abbiamo già affrontato, in termini generali, il discorso sulla scrittura femminile in Occidente e sul ridotto spazio letterario lasciato nei secoli alle donne (vedi Sulpicia…e le altre).

A tutt’oggi, se pure è vero che la storia della donna nel Medioevo e nell'Umanesimo, nei suoi aspetti sociali, legali ed economici, ha fatto molti progressi, la maggior parte dei risultati intellettuali che la donna ha raggiunto è ancora, purtroppo, abbastanza trascurata, e, almeno per il Medioevo, non sempre di facile accesso.

Per quanto riguarda le donne che, fino al V secolo, si sono cimentate in varie forme di scrittura, abbiamo parlato di Sulpicia e di Proba Petronia (v. Sulpicia…e le altre); di Vibia Perpetua (v. Vibia Perpetua. Il diario di una martire cristiana); di Paola, Marcella, Eustochio, Principia (v. Le discepole di San Girolamo); di Fabia Aconia Paolina (v. Fabia Aconia Paolina. In memoria del marito morto); di Egeria (v. Egeria e il suo pellegrinaggio in Terrasanta).

 

Riguardo ai secoli immediatamente successivi, risalenti al periodo fra la seconda metà del V e il VII ci restano soltanto pochi isolati frammenti di scrittura femminile, quasi tutti consistenti in lettere e dovuti a donne di alto rango, con due uniche eccezioni: un breve poema in sedici distici di una certa Eucheria, e, a distanza di un secolo, una Vita di Radegonda scritta da Baudovinia.

 

La composizione poetica di Eucheria ci è conservata all’interno della Anthologia Latina, una antologia di carmi, molto probabilmente riconducibile ad ambienti scolastici, messa insieme nel VI secolo.

Non sempre è facile datare le poesie raccolte nell’Antologia, dal momento che la maggior parte degli autori in essa riportati sono altrimenti sconosciuti ed è difficile identificarli con certezza: sorte, questa, che tocca anche ad Eucheria, sulla cui figura sono state avanzate ipotesi diverse, più o meno seducenti, tutte con margini di incertezza più o meno ampi. Questi sono i suoi versi:

Voglio intrecciare fra loro dorati fili sfavillanti d’oro e ruvidi grovigli di setole. / Dico che drappi di seta, tessuti del Peloponneso splendenti come gemme sono da equiparare a pelli di caprone. / Si unisca nobile porpora a stoffa grossolana, si incastoni nel piombo pesante la fulgida gemma. / E sia ora la perla prigioniera della propria lucentezza, e sfavilli rinchiusa nel buio dell’acciaio. / Parimenti si incastoni lo smeraldo nel rame della Gallia, sia ora equiparata a sassi l’ametista. / Sia detto il diaspro simile a massicce rocce, scelga ormai la luna le sole tenebre infernali. / Ordiniamo ora che i gigli si uniscano alle ortiche, e la funesta cicuta stringa la diafana rosa. / Disprezzati i pesci, aspiriamo ora a svilire anche le delizie del mare. / Il rospo ami l’orata, ami l’anguilla il pesce di scoglio; parimenti ora la trota desideri per sé la lumaca. / E si accoppi la leonessa con la spregevole volpe; la scimmia si prenda la splendida lince. / Si accoppi ora la cerva con l’asino, ora la tigre con l’onagro; si accoppi la veloce gazzella allo stanco bue. / Lo sgradevole succo di silfio alteri ora il nettareo vino di rose, e si mescoli il miele con l’amaro fiele. / Mescoliamo acqua limpida e fango di fossato. Mischiata allo sterco vada l’acqua di fonte irrigatrice. / Se la spassi col funesto avvoltoio la rondine benaugurante; canti ora l’usignolo assieme al fastidioso gufo. / Stia il triste allocco con la chiara pernice, e giaccia unita al corvo la bella colomba. / Scambino questi accoppiamenti mostruosi l’ordine dell’universo con leggi di natura sconosciute; e solo allora un villano compiacente chieda Eucheria per sé.

La poesia, che si compone di sedici distici, è interamente basata sulla figura retorica dell’adynaton,  molto frequente nella poesia classica: una sorta di ragionamento per assurdo che, partendo dalla ideazione di eventi impossibili a verificarsi, è volto a dimostrare l’ancor più assoluta irrealizzabilità di un altro evento, subordinandolo alla realizzazione dei primi. Normalmente, soprattutto nella letteratura latina, non si fa uso di un adynaton isolato, ma se ne formula una serie: quello di Eucheria è però, sicuramente, il più lungo elenco di ‘impossibilità’ – peraltro tutte legate al tema dell’accoppiamento – che la letteratura latina ci abbia lasciato. Ed è proprio di un altro accoppiamento che si vuole dimostrare l’irrealizzabilità: «Haec monstra – conclude infatti la poetessa – incertis mutent sibi tempora fatis; / Rusticus et servus sic petat Eucheriam».

Siamo dunque di fronte ad una donna che mostra la coscienza della propria dignità, rifiutandosi ad un uomo – rusticus et servus – da lei ritenuto inferiore: una donna che però non riusciamo ad identificare con certezza. Si è ‘cercata’ Eucheria dentro i suoi versi, e l’uso di alcuni termini ha suggerito una sua collocazione nella Gallia romana; mettendo in rapporto fra loro le poche e sparse notizie rintracciabili, si è di volta in volta supposto che potesse essere una nobile dama, o la moglie dell’aristocratico e letterato provenzale Dinamio di Marsiglia (dedicatario di un carme del poeta Venanzio Fortunato), o addirittura una cortigiana d’alto bordo; che vivesse in ambienti gravitanti attorno al poeta Sidonio Apollinare, e che il Rusticus del verso finale sia da intendersi come nome proprio riferito a Rustico di Bordeaux amico di Sidonio…  

Ciò che possiamo dare più o meno per certo è la collocazione spaziale del testo poetico nella Gallia romana e la sua collocazione cronologica fra la seconda metà del V e l’inizio del VI secolo; respingendo l’ipotesi, pure avanzata, che Eucheria non fosse il vero nome dell’autrice, ma un semplice pseudonimo dietro al quale si nascondeva un uomo, possiamo asserire che Eucheria apparteneva alla aristocrazia, che aveva un notevole bagaglio culturale e una significativa conoscenza della letteratura classica, che era libera e indipendente ed aveva una forte consapevolezza di sé: e ciò, chiaramente, porta ad allargare il discorso dalla poesia alla società, induce a riflettere sul ruolo della donna e sulle gerarchie sociali, apre le porte a diverse possibili letture ed interpretazioni del testo…

 

 

Quanto all’epistolografia, accogliendone testimonianze da testi coevi diversi, Peter Dronke, nel suo volume Donne e cultura nel Medioevo (Il Saggiatore,1986), riporta le lettere di Amalasunta (figlia del re ostrogoto Teodorico) e di Gudelina (moglie di Teodato, cugino di Amalasunta); le lettere della principessa visigota Brunilde (figlia del re Atanagildo); due lettere in versi e il testamento di Radegonda, un tempo regina, sposa del re merovingio Clotario, rifugiatasi poi nel convento di Santa Croce a Poitiers, da lei stessa fondato; tre lettere di Erchenefrega al figlio Desiderio, vescovo e santo. Di queste ultime, le prime due, rivolte al giovane che viveva allora alla corte di Clotario II, rivelano le preoccupazioni di madre di Erchenefrega: nella prima, raccomanda al figlio di tenersi lontano dal peccato, di seguire i precetti divini, di amare e temere sempre Dio e di essere fedele al suo re; nella seconda ribadisce le medesime raccomandazioni, esortandolo anche alla castità, e invitandolo a rileggere spesso la precedente epistola, lasciandosene guidare. La terza lettera è invece una richiesta al figlio perché ricorra legalmente contro l'assassinio del fratello, il vescovo Rustico di Cahors.

 

Era invece una semplice monaca Baudovinia, la prima interprete femminile del genere letterario della biografia, che trascorse tutta la vita nel convento di Santa Croce a Poitiers, vivendo a stretto contatto con Radegonda,che lì si era ritirata. Baudovinia doveva godere di un certo prestigio tra le consorelle, se appunto a lei la badessa del convento chiese di scrivere – dopo quella già scritta da Venanzio Fortunato – una seconda Vita di Radegonda, in cui fossero narrati gli episodi di cui l’autore precedente aveva taciuto. Baudovinia si mise all’opera e, nei primi anni del VII secolo, compose la sua biografia: e il suo è un racconto che mette in evidenza la psicologia di Radegonda, i suoi desideri di donna e di cristiana, i suoi drammi interori, il suo amore per prossimo che si fa passione politica. Verso la fine del VI secolo, regni e città in Gallia, erano sempre sul punto di porsi l’uno contro l’altra: parlando di Radegonda, Baudovinia ne evidenzia la volontà di soccorrere chiunque soffra, e il conseguente desiderio di pace, la conseguente esigenza unitaria, che, in un’esigenza unitaria tutta politica, si manifesta nell’intervento presso i potenti a che si muovano per la pace:

«Sempre preoccupata per la pace – si legge ad esempio –, e sollecita della salvezza della patria, ogni volta che i vari regni si affrontavano, poiché amava tutti i re, pregava per la vita di tutti e ci insegnava a pregare senza intermissione per la loro stabilità. Quando poi veniva a sapere che dei contrasti spiacevoli erano sorti fra di loro, tremava tutta, e rivolgeva lettere all’uno e all’altro, affinché non venissero alle armi e non iniziassero una guerra, ma confermassero la pace, e così la patria non venisse meno. E altre lettere inviava ai grandi funzionari, perché consigliassero i loro re in modo tale che i loro popoli e la patria stessa fossero più sicuri […] Cosi per il suo intervento si manteneva la pace fra i re, la guerra si placava, la salvezza della patria era possibile […] E. riuscendo ad ottenere la vittoria, cioè la pace fra i re, grazie al re del cielo, ancor più si dava prontamente e devotamente a Dio, dedicandosi tutta al servizio di tutti» (II, 10).

 

Andando avanti nel tempo, sempre attraverso il fondamentale testo del Dronke, sappiamo poi che, nell'VIII secolo, cinque religiose scrissero a Bonifacio lettere rimaste conservate assieme alla sua corrispondenza; ma le lettere più appassionate e ricche di sensibilità sono tre, collocate quasi alla fine della raccolta, che non hanno legami diretti col Santo: ragion per cui non compaiono nelle moderne raccolte di lettere di Bonifacio, e non sono state né tradotte né discusse. Sono scritte da una suora di nome Berthgyth al proprio fratello, entrambi legati da un rapporto di parentela ad un compagno di Bonifacio.

«La mia anima è stanca della vita, langue per il nostro amore fraterno – scrive Berthgyth nella seconda delle sue tre lettere  – […] Ci sono molte acque adunate fra te e me: ma restiamo una cosa sola nell’amore, perché il vero amore non è mai infranto dalla lontananza dei luoghi». «Eppure ti dico – continua, citando il Cantico dei Cantici – che la pena non si è mai allontanata dalla mia anima e anche nel sonno non trovo pace, “perché forte come la morte è l’amore”. Così ora ti chiedo di venire da me, amatissimo fratello, o di invitarmi a venire da te, così che io possa vederti prima di morire, perché l’amore per te non ha mai lasciato la mia anima. Fratello, la tua unica sorella ti saluta in Cristo. Prego per te come per me stessa, tutti i giorni e le notti, tutte le ore e gli attimi, che tu possa sempre star bene in Cristo».

 

Una suora anglosassone di nome Hugeburg, che poco dopo il 761 si era stabilita in Germania, è invece l’autrice di una Vita dei fratelli Willibald e Wynnebald (rispettivamente, un vescovo e un abate).

Sia Berthgyth che Hugeburc non possiedono un latino sufficientemente sciolto per poter trasmettere tutte le sfumature dei loro pensieri e sentimenti; negli scritti di entrambe restano molti problemi di interpretazione (in particolare, per Hugeburc, anche a livello grammaticale): eppure negli scritti di entrambe, così diverse in quello che volevano esprimere, brilla qualcosa di indiscutibilmente originale. Nelle lettere della prima, c’è di memorabile la straripante tenerezza verso il suo unico parente, il suo tentativo di usare i legami cristiani di preghiera per rafforzare i legami umani, il dubbio doloroso che l’altro possa non capire. Dal canto suo,  Hugeburc, così consapevole del suo scrivere un’opera letteraria a pieno titolo, anticipa scrittrici successive nel modo elusivo, in parte difensivo e in parte ironico, con cui affronta un pubblico maschile, esitando di fronte ad esso, riconoscendo a parole tutti i preconcetti di superiorità maschile, ma in ultima analisi ben determinata a non farsene condizionare. All’inizio della biografia di Willibald, scrive infatti:

«A tutti coloro qui convenuti sotto la guida della legge sacra, io, indegna, di razza anglosassone, l’ultima fra coloro che sono qui, non solo per l’età ma anche per i costumi, io trascurabile creatura in confronto ai miei compagni cristiani, io ho comunque deciso di parlare, in una sorta di preludio, degli esordi della vita di quel venerabile uomo che fu Willibald».

Confessa quindi la sua «fragile femminile pochezza», ammette di non essere «sostenuta da alcuna prerogativa di conoscenza né esaltata dall’energia di una grande forza», ma, pur definendosi «piccola ignorante creatura», pur parlando della pochezza della propria arte, dichiara di essere «spinta spontaneamente dall’ardore della volontà» ad iniziare la sua opera.

 

In età carolingia, molti sono gli autori che potremmo definire famosi, normalmente ricordati nei manuali di storia della letteratura latina medievale.

Non sempre, fra questi nomi, compare però quello di Dhuoda. Nata attorno all’803, in una famiglia dell’alta nobiltà, cresciuta forse nel nord del regno dei Franchi (dove il nome Dhuoda risulta ben attestato), di lingua madre sicuramente germanica, Dhuoda andò sposa a Bernardo di Septimania il 29 giugno dell’anno 824 (come ci dice lei stessa) nel palazzo imperiale di Aquisgrana (vicino a Colonia). Il padre di Bernardo, Guglielmo, era cugino di Carlomagno, e Bernardo divenne uno dei principali pretendenti al potere all’epoca di Ludovico il Pio (814-840). Ludovico affidò a Bernardo la cura delle Marche spagnole. Dhuoda, all’inizio, accompagnò il marito nei suoi viaggi e nelle imprese militari, finché non diede alla luce il figlio Guglielmo. Non sappiamo quando e perché il marito l’abbia inviata a Uzès, nel sud della Francia: se per motivi di sicurezza, o perché se ne era stancato ed era diventato l’amante dell’imperatrice Giuditta (seconda moglie di Ludovico). Subito dopo la morte di Ludovico, nell’anno 840, Bernardo andò a trovare Dhuoda e la mise nuovamente incinta: il secondo figlio nacque il 22 marzo 841. Negli scontri per la successione di Ludovico, Bernardo combatté dalla parte dei perdenti: per far pace col nuovo re, Carlo il Calvo, gli inviò il proprio primogenito Guglielmo, quattordicenne, in pegno di buona fede; ben consapevole del pericolo in cui aveva posto il figlio maggiore, e ben deciso ad assumersi il totale controllo del secondogenito, lo portò quindi via alla madre prima ancora che fosse battezzato, conducendolo con sé in Aquitania (nella Francia sud-occidentale). Separata da entrambi i figli, neppure a conoscenza del nome dato al secondo, Dhuoda cominciò a scrivere, e scrisse il suo Liber manualis, dedicato al figlio primogenito Guglielmo, che formalmente è una sorta di Speculum principis (Specchio del principe), una guida alla vita cristiana di un principe: un Manuale etico-pedagogico fondato su una personale elaborazione dei concetti scritturali. Più profondamente, il libro appare in realtà come uno scritto autoconsolatorio, un tentativo di mantenere un qualche vivo legame col figlio che le è stato strappato e sentirsi così ancora vicina a lui:  

«Quando ti sarà giunto, dopo essere uscito dalle mie mani – scrive infatti Dhuoda –, voglio che tu lo stringa nelle tue con amore: e che, tenendolo stretto e sfogliandolo e leggendolo, tu ti impegni a fondo a tradurlo nelle tue azioni […] La maggior parte delle madri di questo mondo può godere della vicinanza dei suoi figli, mentre io, Dhuoda, sono tanto lontana da te, figlio mio Guglielmo, e vivo dunque in uno stato d’ansia, acuito dal desiderio di esserti utile; ecco perché ti invio questo libretto scritto da me, affinché tu lo usi come uno specchio ai fini della tua formazione: sarò felice se, pur essendo io fisicamente assente, proprio questo libretto ti riporterà alla mente, quando lo leggerai, ciò che devi fare per amor mio». «Spero che tu, soffocato dalla moltitudine degli impegni mondani e secolari – ribadisce più avanti –, legga sovente, in memoria di me, questo libretto». E ancora: «Se, morendo, ti verrò a mancare (cosa che dovrà pure accadere), avrai in mia memoria questo libretto»; «Il mio cuore vigile arde dal desiderio che tu riceva le parole che sono venuta annotando in questo libretto».

Accanto a questo tratto umano, il Manuale – a dispetto delle rituali e ripetute dichiarazioni di Dhuoda sulla «fragilità» del proprio sesso, sulla propria ‘indegnità’ a scrivere, sulla «modestia» del proprio ingegno – presenta un interesse singolare dal punto di vista letterario, col suo latino, tutto intriso di reminiscenze e intessuto di passi della Scrittura, non certo classico, ma notevolmente corretto. E presenta un notevole interesse storico, riflettendo un momento particolarmente significativo nell’agitata epoca che segue la morte di Carlomagno, i rapporti dell’aristocrazia carolingia con la monarchia, i caratteri che distinguono la feudalità con le sue complesse strutture, relazioni, esigenze e rappresentanze.