«I beni si disprezzano quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o si è in procinto di perderli»: questa frase, che compare spesso citata in Internet fra “Le frasi di Leopardi più famose”, o “Aforismi di G. Leopardi”, o “Frasi e aforismi sulla perdita”, ecc., è tratta dallo Zibaldone, e fa parte di un elenco di motivazioni dell’amore dei vecchi per la vita. Il testo prosegue così: «E come quel disprezzo era maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all’uomo, è il vero possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente» (296).

 

La frase leopardiana ricorda molto da vicino i versi 142-43 della commedia plautina Captivi / I prigionieri, la commedia che rappresenta quasi un unicum nella produzione del poeta latino per l’inconsueta serietà e il sentimentalismo che la caratterizzano. Ad essere messo in scena è il disperato desiderio del vecchio Egione di ritrovare i propri figli: uno, Filopolemo, caduto prigioniero in guerra e uno rapitogli da bambino. Nei versi citati, a parlare è il parassita Ergasilo, che si rivolge al vecchio Egione dicendogli quanto a lui fosse caro Filopolemo, un giovane del cui valore si era però reso conto fino in fondo solo dopo averlo saputo prigioniero: «Tum denique homines – dice – nostra intellegimus bona, quom quae in potestate habuimus ea amisimus – Noi uomini finiamo per capire di quali beni abbiamo goduto solo dopo aver perduto quelli che abbiamo avuto a disposizione».

Ci troviamo palesemente in un contesto che nulla ha a che vedere con quello leopardiano, e, per di più, le belle parole sulla perdita e la consapevolezza sono poste in bocca ad un personaggio che ben poco ha di elevato. Nelle commedie, infatti, a caratterizzare il parassita è il suo perenne desiderio di cibo, che lo pone nella condizione di dover ricorrere ad ogni mezzo, compresa l’adulazione, per riuscire a mangiare gratis: e lo scopo ultimo di Ergasilo è proprio quello di adulare Egione con la speranza di riuscire di nuovo a mangiare gratis a casa sua. Il ricorso di Plauto ad un linguaggio di stile medio-alto crea dunque, comicamente, uno scarto profondo fra la situazione reale e il modo di esprimersi del parassita, ma, nel contempo, suggerisce che il concetto ‘filosofico’ da lui espresso fosse in qualche modo universalmente noto.

Se la frase di Ergasilo è definibile come un aforisma sulla “perdita”,  molti altri aforismi  sono derivabili dalle commedie plautine: ad esempio, sulla “bellezza”, sui “cattivi costumi”, sulla “capacità di giudizio”, sulla “fortuna”, sulla “giustizia”, sul “guadagno”, sui “mali”, sul “pericolo”, sulla “speranza”, sulla “vita”, ecc.

 

Sulla bellezza:

«Ebur atramento candefacere – Imbiancare l’avorio con l’inchiostro»

In una scena della Mostellaria/ La commedia del fantasma, compaiono come personaggi la cortigiana Filemazio, una serva e il giovane innamorato Filolachete. Filemazio si sta agghindando per piacere all’innamorato, curando il proprio aspetto fisico in tutti i particolari, dal bagno agli abiti, ai gioielli, ai capelli; a un certo punto, chiede alla serva il bianchetto (cerussa) da stendere sulle guance – una specie di moderno fondotinta utile a schiarire la pelle, per accentuare il pregio di una carnagione chiara –, ed è allora che la serva, nel negarglielo, le si rivolge affermando: «Una opera ebur atramento candefacere postules – Sarebbe come pretendere di imbiancare l’avorio con l’inchiostro». Il medesimo rifiuto viene espresso subito dopo riguardo al rossetto: ché, per la giovane età e la bellezza naturale di Filemazio, l’uso di qualunque impiastro per il viso risulterebbe non solo del tutto superfluo, ma anche disdicevole. Pare logico pensare che, in senso più generico, la frase possa suggerire come ogni ornamento artificioso non serva ad abbellire cose già belle per natura, ma conduca semmai a deturparne la bellezza.

 

Sulla capacità di giudizio:

«Non oris causa modo hominis aequom fuit sibi habere speculum, ubi os contemplarent suom, sed qui perspicere possent cordis copiam – Non solo per l’aspetto fisico sarebbe giusto che gli uomini avessero a disposizione uno specchio in cui guardarsi la faccia, ma anche per poter scrutare di quanta capacità di giudizio dispongano» (Epidicus / Epidico, vv. 382-85).

 

Sui cattivi costumi:

«Mores mali quasi herba inrigua succrevere uberrume – I cattivi costumi sono cresciuti rigogliosi come l’erba bene annaffiata».

Nel Trinummus / Le tre monete, il vecchio Megaronide compare in scena all’inizio del primo atto, e, nel suo breve monologo, parla della «malattia che ha appestato i buoni costumi di una volta»: i buoni costumi ormai agonizzano, mentre «mores mali quasi herba inrigua succrevere uberrume – i cattivi costumi sono cresciuti rigogliosi come l’erba bene annaffiata» (vv. 30-31). I cattivi costumi – continua – si possono comprare a basso prezzo, si possono mietere come una messe rigogliosa; in troppi si preoccupano ormai solo di ingraziarsi chi ha il potere, i favori prevalgono sull’interesse generale, l’utilità pubblica e privata vanno in rovina.

C’è un’ampia tradizione medievale di massime basate sulla facilità con cui cresce la gramigna, e numerosi sono i proverbi sull’erba cattiva che cresce facilmente senza che nessuno la semini, e che non muore mai (dove l’erba cattiva è spesso usata metaforicamente ad indicare una persona malvagia o una cosa nociva o un vizio): degno di nota è che il paragone fra i cattivi costumi e la mala erba, per la velocità con cui attecchiscono, sia già presente in Plauto.

 

Sulla fortuna:

«Fortuna humana fingit artatque ut lubet – La Fortuna plasma e deforma le faccende umane come le pare e piace» (Captivi, v. 304).

«Centum doctum hominum consilia sola haec devincit dea – I progetti di cento uomini in gamba li manda in malora da sola la dea Fortuna» (Pseudolus / Il bugiardo, v. 678).

«Sapiens […] ipsus fingit fortunam sibi – Chi è saggio plasma da sé la propria fortuna» (Trinummus, v. 363)

 

Sulla giustizia:

«Iniusta ab iustis impetrari non decet, iusta autem ab iniustis petere insipientia est – È sconveniente chiedere ingiustizie ai giusti, ma è una scemenza chiedere la giustizia agli ingiusti».

Il prologo dell’Amphitruo / Anfitrione consiste in un lungo monologo di Mercurio. I versi 33-37 consistono in una sorta di scioglilingua con la ripetizione ossessiva della contrapposizione iustus / iniustus: «Voglio ottenere da voi – dice il dio – una cosa semplice e giusta (iustam). Perché io sono un ambasciatore giusto, mandato a chiedere una cosa giusta a uomini giusti (nam iusta ab iustis iustus sum orator datus). E infatti è sconveniente chiedere ingiustizie ai giusti, ma è una scemenza chiedere la giustizia agli ingiusti (Nam iniusta ab iustis impetrari non decet, iusta autem ab iniustis petere insipientia est), perché le canaglie non conoscono la giustizia e non la rispettano».

 

Sul guadagno:

«Est etiam ubi profecto damnum praestet facere quam lucrum – Ci sono circostanze in cui si dovrebbe preferire la perdita al guadagno».

La frase è pronunciata dal vecchio Egione nei Captivi (v. 327), e il contesto rende chiaro il significato, ovvero che a volte è meglio perdere che guadagnare in modo disonesto. Questo riconduce al detto di Chilone di Sparta (VII/VI secolo a. C.) tramandatoci da Diogene Laerzio (III secolo d. C.), che recita: «La perdita incide meno gravemente del guadagno disonesto, perché la prima reca dolore solo una volta, il secondo sempre e continuamente» (Vite dei filosofi, I, 3, 69).

 

Sui mali:

«Nota mala res optumast – Quando i mali sono conosciuti la situazione è eccellente» (Trinummus, v. 63): come a dire «A male conosciuto rimedio risaputo».

 

Sul pericolo:

«Non tu scis quom ex alto puteo sursum ad summum escenderis, maxumum periclum inde esse ab summo ne rursum cadas? – Non sai che, quando dal fondo di un pozzo sei riuscito a risalire sul bordo, proprio allora corri  il pericolo maggiore di ricadere giù? » (Miles gloriosus / Il soldato fanfarone, vv. 1150-51).

 

Sulla speranza:

«Qui speraverint spem decepisse multos – La speranza ha deluso molti che campavano di speranza» (Rudens / La gomena, v. 401).

 

Sulla vita:

«Ut bene vivitur, diu vivitur / Quanto più virtuosamente si vive, tanto più a lungo si vive» (Trinummus, v. 65).

 

Ovviamente, sugli stessi temi, sono numerose le frasi estrapolabili anche da altri autori e, altrettanto ovviamente, alcune ripetono con parole diverse i medesimi concetti.

Che la fortuna sia volubile o traditrice o fragile o ingiusta sono, ad esempio, luoghi comuni molto diffusi, come lo è l’invito a non farsene strumento passivo. In qualche modo, da questi luoghi comuni si distacca un verso di Seneca tratto dal primo coro dalla tragedia Agamemnon / Agamennone: un coro che, come altri nelle tragedie senecane, insiste sulla precarietà della condizione regale – e potremmo dire di ogni posizione di potere – particolarmente esposta agli inganni della fortuna. La fortuna è infida e fissa la residenza del potere su un precipizio. Chi ha il potere non vive mai tranquillo e al sicuro: vuole essere temuto, ma finisce col circondarsi di continui timori. Sulla vita di chi vive nella residenza del potere la fortuna si abbatte più che su altri:  «Quidquid in altum Fortuna tulit, ruitura levat – Tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, ce lo porta per farlo poi crollare» (vv. 100-101).

Ancora a titolo di esempio, la frase di Plauto «Quando i mali sono conosciuti la situazione è eccellente» può trovare parziale riscontro in un passo di Livio (Ab urbe condita libri / Storia di Roma dalla sua fondazione, XXIII, 3), dove si legge: «Ita dilabi homines, notissimum quodque malum maxime tolerabile dicentes esse – E così gli uomini si dileguarono, dicendo che il male più conosciuto è quello più tollerabile». In questo caso, “il male più conosciuto” è rappresentato dai senatori in carica: Livio racconta infatti che, all’avvicinarsi di Annibale, il magistrato supremo di Capua, Pacuvio Calavio, convinto che la plebe, ostile al senato, avrebbe trucidato i senatori e consegnato la città ai cartaginesi, ricorse ad uno strattagemma per salvare il senato stesso ed evitare la defezione della plebe: d’accordo coi senatori, li rinchiuse nella curia; convocò quindi il popolo in assemblea, proponendo che si processassero e si condannassero ad uno ad uno i senatori, avendo però cura, per ogni senatore giustiziato, di cooptare prima al suo posto un uomo migliore. Sennonché, ogni volta che qualcuno faceva un nome, in molti si opponevano con grandi schiamazzi e proteste, e non si venne a capo di alcuna sostituzione. «E così gli uomini si dileguarono, dicendo che il male più conosciuto è quello più tollerabile, e ordinando che il senato fosse rimesso in libertà». Qualche somiglianza in più con la frase plautina si può peraltro trovare nel verso 515 della tragedia di Seneca Oedipus / Edipo, che recita: «Iners malorum remedium ignorantia est  Medicina inefficace per i mali è la non conoscenza».

 

Quanto alla vita, è facile comprendere come, in molti autori latini, possa essere spesso rilevabile il nesso fra vita virtuosa – che comprende partecipazione alla vita pubblica e ossequio alla religione –  e vita lunga e felice. Per il collegamento della vita alla materia che se ne evince, per la loro modernità e, soprattutto, per le suggestioni di lettura che esse offrono, mi piace però concludere con due citazioni che vanno per così dire controcorrente, entrambe tratte dal De rerum natura (La natura delle cose) di Lucrezio, l'opera che, con la sua razionalità filosofica e la sua ‘laicità’ di pensiero, rappresenta a pieno l'epicureismo nel mondo romano.

Entrambe le citazioni sono tratte dal III libro, centrato sulla paura della morte e sulla necessità di combatterla.

Se la natura cominciasse ad un tratto a parlare – scrive Lucrezio – rimprovererebbe l'incontentato e incontentabile, che non vuole morire: «Che cosa ti sta così a cuore, o mortale, che indulgi in modo eccessivo al dolore, e piangi e ti lamenti della morte? Se la vita finora trascorsa ti è stata gradita, e se tutte le gioie, quasi accolte in un'urna incrinata, non sono fluite via, né si sono perse divenute ormai sgradevoli, perché non ti allontani dalla vita come un commensale sazio, e non cogli a cuore sereno, stolto che sei, un sicuro riposo? Se invece tutto ciò che hai goduto è perito e si è dissolto nel nulla e la vita ti è venuta a noia, perché cerchi ancora di aggiungere ciò che a sua volta avrà una triste fine e un ingrato tramonto totale, e non poni piuttosto fine alla tua vita e ai tuoi affanni? […] Via le lacrime, vecchio furfante, frena le tue lagne. Dopo avere già goduto della vita, il tuo corpo marcisce. Ma poiché tu desideri sempre ciò che è lungi da te, e non ti curi di ciò che è presente, la vita ti sfugge imperfetta ed ingrata, e la morte si arresta inattesa accanto al tuo capo già prima che tu, sazio ed appagato, possa allontanarti dal mondo. Abbandona ogni cosa che non si addica ai tuoi anni, e ai tuoi anni arrenditi sereno. È destino». Il vecchio – continua Lucrezio – deve lasciare sempre il posto al giovane, perché «occorre materia a che crescano le stirpi future, che pure, trascorsa la vita, seguiranno la stessa tua sorte e, non meno di quelle perite già prima di te periranno. Così mai cesserà di prodursi una cosa dall'altra». Perché, insomma, «vita[…] mancipio nulli datur, omnibus usu – la vita non è data in possesso a nessuno, ma in uso a tutti» (v. 971). Ho scelto di porre l’attenzione su quest’ultima frase perché, oltre a caratterizzarsi come un aforisma sulla vita particolarmente vicino alla mia sensibilità, essa riconduce in qualche modo al passo leopardiano citato all’inizio, laddove si legge che «il giovane, per quanto è concesso all’uomo, è il vero possessor della vita»: certo, Lucrezio afferma che la vita non è data in possesso a nessuno, mentre Leopardi designa il giovane come suo possessore, ma l’apparente contraddizione è fortemente mediata attraverso l’inserimento della limitativa «per quanto è concesso all’uomo».

E si dovrebbe poi riflettere sul fatto –prosegue ancora Lucrezio – che tutti muoiono, anche i migliori, i re, i sovrani di grandi popoli, i generali più famosi, gli scienziati e gli artisti e i poeti. «Lo stesso Epicuro morì, trascorso il lume della vita, egli che superò con l'ingegno tutto il genere umano […]. Tu vero dubitabis et indignabere obire? Mortua cui vita est prope iam vivo atque videnti  […] E tu esiterai, e ti indignerai di dover morire? Tu, cui è morta la vita mentre ancora sei vivo e hai occhi per vedere e consumi nel sonno la maggior parte del tempo, e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni, e hai l'animo tormentato da vane angosce […]» (vv. 1042-1049): come a dire che, di fatto, chi vive tormentato da vane angosce e dal timore di morire “è già morto e non se ne è accorto”. E, se pure è vero che il detto “Siete morti e non ve ne siete accorti” è a tutt’oggi di uso abbastanza comune in differenti contesti, a livello letterario i versi di Lucrezio non possono non evocare la poesia di Virginia Wolfe Resta viva, che recita appunto: «Qualunque cosa succeda, resta viva. Non morire prima di essere morta davvero. Non perdere te stessa, non perdere la speranza, non perdere la direzione. Resta viva, con tutta te stessa, con ogni cellula del tuo corpo, con ogni fibra della tua pelle […] C’è solo una cosa che non devi sprecare della vita, ed è la vita stessa».