La disposizione n. XVII del Concilio di Tours (813), promosso da Carlo Magno, dichiara che i vescovi, nel predicare, non debbano usare il latino, ma «tradurre (transferre) le prediche in modo comprensibile, nella lingua romana rustica o nella tedesca (in rusticam romanam linguam aut thiotiscam), affinché tutti possano comprendere più facilmente quel che viene detto»: dove rustica romana lingua indica i volgari di origine latina (ovvero le lingue romanze), e, nello specifico, il francese.

Nell’anno 842, col giuramento di Strasburgo, Carlo II il Calvo e Ludovico II il Germanico si giurano fedeltà reciproca, affermando che nessuno di loro stringerà patti di alleanza col fratello Lotario I. Il testo di questo giuramento è giunto fino a noi grazie allo storico Nitardo, che, all’interno delle sue Storie, scritte, com'era ovvio a quel tempo, in latino, inserì le formule di giuramento nelle lingue effettivamente usate: Carlo, di lingua francese, giurò in tedesco, per farsi meglio comprendere dalle truppe di Ludovico; quest'ultimo, di lingua tedesca, giurò nella lingua del fratello; i rappresentanti dei due eserciti, poi, giurarono ognuno nella propria lingua (Nitardo, Historiarum libri quattuor o De dissensionibus filiorum Ludovici Pii ad annum usque 843).

Sono, questi, due documenti ufficiali che ci attestano – nel IX secolo – la raggiunta consapevolezza dell’esistenza di lingue diverse dal latino.
Ma qual era stata fino ad allora la ‘storia’ del latino? E come si era arrivati a decretare – all’interno dell’Impero carolingio – la ‘nascita’ di queste altre lingue?

Originariamente, la lingua latina non era altro che uno dei dialetti parlati dalle popolazioni italiche che, a partire dal secondo millennio a. C., si erano stanziate nel territorio del Lazio.
Su queste popolazioni, Roma assunse via via una posizione predominante, e, nel tempo, quella che in origine era solo la lingua della città di Roma (o forse solo quella di uno dei gruppi etnici dalla cui fusione sorse in seguito la città di Roma) finì col sostituire gli altri dialetti, estendendosi sull’intero territorio. Successivamente, con l’espansione del potere di Roma, il latino si impose su tutta l’Italia, e infine nelle province fuori d’Italia, in Europa, in Asia, in Africa, subendo influssi dalle varie lingue con le quali veniva in contatto.
Quello che in origine era un modesto dialetto del Lazio divenne dunque una lingua mondiale: una lingua che, in Occidente, soppiantò quasi completamente le lingue precedenti, e che, in Oriente, pur continuando a convivere sia col greco, sia con lingue popolari locali (come l’egiziano, il siriano, l’aramaico, l’iranico), fu la lingua ufficiale dell’impero fino al V secolo d.C..

In Occidente, il latino conobbe vicende diverse.

Nel V secolo d. C. il potere imperiale e la sua organizzazione si disgregarono. Il processo giunse a compimento nel 476, quando l’Impero romano d’Occidente cessò ufficialmente di esistere, ma la sua destabilizzazione era già cominciata all’inizio del secolo, quando non era più riuscito ad arginare le invasioni barbariche e la conseguente nascita dei numerosi regni romano-barbarici.
In questa situazione, nelle varie parti dell’Impero, anche la lingua parlata subì un rapido processo di differenziazione geografica, e andò configurandosi con vicende diverse nelle diverse regioni e nelle diverse epoche, a seconda del grado di romanizzazione precedentemente raggiunto, in relazione al maggiore o minore impatto delle invasioni barbariche sul tessuto culturale e sociale preesistente, in rapporto alle trasformazioni politiche, economiche e sociali dei diversi secoli.
I secoli VII e VIII segnarono la fase più acuta della crisi linguistica latina in Occidente: sono i secoli in cui il cosiddetto sermo vulgaris (ovvero il latino parlato in Italia, in Gallia, nella penisola iberica) compie la più importante tappa della sua trasformazione nelle varie lingue romanze. Se infatti, fino al VI secolo, la lingua parlata nei diversi territori era ancora definibile come ’latino’ (pur se con una grande pluralità di livelli, con una lontananza estrema fra lingua letteraria e lingua parlata, con una grande varietà di situazioni linguistiche locali dovuta ai diversi livelli di romanizzazione), dopo due secoli di buio anche culturale, essa aveva ormai assunto strutture fonetiche, lessicali, morfologiche e sintattiche del tutto nuove.

Fu l’imperatore Carlo Magno, all’interno del suo vasto programma di riforme, a porsi concretamente il problema della ‘restaurazione’ della lingua latina, circondandosi di dotti provenienti da diversi paesi. Il latino fu per così dire ‘rimesso a nuovo’: il lessico fu ripulito, si tornò ad una ortografia corretta, furono rispettate la morfologia e la sintassi.
Ed ecco che, quando il processo di restaurazione fu compiuto, le parlate comuni, confrontate con quel latino ‘libresco’, apparvero completamente diverse, e si dovette prendere ufficialmente atto della loro nascita.

In Italia, il primo documento che ufficializzi l’esistenza di una lingua volgare, diversa dal latino, pare risalire alla fine del X secolo, ed è l’epitaffio di Papa Gregorio V del 999. In esso si legge che il Papa, usus Francigena, Vulgari et voce Latina, instituit populos eloquio triplici: ovvero, che egli «parlando il tedesco, il volgare e il latino, insegnò ai popoli nelle tre lingue» (Giusto Fontanini, Della eloquenza italiana, Roma 17763, I, 4, pp. 8-9).
Ovviamente, sia in Italia che altrove, fonti che ci attestano lo slittamento dal latino ai volgari sono antecedenti, e si trovano già a partire dal VII secolo, ma è comunque a seguito della riforma carolingia che si arriva a sancire ufficialmente la nascita delle lingue romanze o neolatine: l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, e – nell’attuale Romania – un idioma neolatino ‘estremo’ (in questo paese, infatti, per lo stanziamento di popolazioni slave o mongole slavizzate dietro le frontiere dell’Impero, si era da subito interrotta ogni comunicazione con la latinità: e, nell’isolamento totale, circondata com’era da molteplici lingue barbare, la lingua di Roma, importata a suo tempo da contadini e veterani, si trasformò gradatamente in una lingua che, pur derivando da essa, ne era lontanissima).

Se il latino parlato diede origine alle lingue romanze, il latino letterario fu salvato dalla Chiesa, che lo cristianizzò, e ne fece la lingua liturgica dell’Occidente: e siccome la Chiesa fu per molti secoli la principale, se non l’unica, depositaria della cultura, il latino, seppure imbarbarito, fu la lingua colta e internazionale dell’Europa occidentale.
Anche quando fu di fatto segnata la fine del latino come lingua di comunicazione naturale e spontanea, anche dopo la riforma carolingia, per tutto il Medioevo, in Occidente, si continuò a scrivere e a parlare in latino: il latino era lo strumento comunicativo della cultura di livello superiore, che soprattutto consentiva ai testi di circolare liberamente, oltre le frontiere che segnavano i volgari, romanzi e non; era l’idioma adoperato dagli intellettuali, dai professori e dagli studenti, dai clèrici, cioè, che godevano del raro privilegio di comprendere e farsi comprendere, da qualunque luogo provenissero; era la lingua dei sermoni, quando il predicatore si rivolgeva a confratelli di pari cultura. Era sì una lingua ‘artificiale’, acquisita mediante un lungo e faticoso tirocinio scolastico, ma era anche una lingua vitale e duttile, capace di assorbire spinte provenienti dal basso, capace di adattare il proprio vocabolario a mutate situazioni culturali e sociali: una lingua sicuramente diversa dal latino del mondo romano, una lingua – non viva, ma non morta – ricca al suo interno di molteplici e profonde differenze, una lingua difficilmente catalogabile secondo gli strumenti tradizionali.
Ed era una lingua che aveva un ambito spaziale vastissimo, essendo diffusa in tutto il territorio della Chiesa occidentale: un territorio le cui frontiere sono ancora più vaste di quelle del decaduto Impero romano d’Occidente.

Inizialmente, la cultura volgare fu prevalentemente orale, ma anche con il suo passaggio a cultura scritta, il latino continuò ad essere ampiamente utilizzato: un latino che si sviluppò sul tronco del latino medievale, ma senza più commistione alcuna con la lingua parlata, e che, soprattutto nell’Umanesimo, si caratterizzò per il suo ritorno sistematico ai modelli della latinità classica, cadendo in un lento ma inesorabile irrigidimento.
Di fatto, comunque, il latino decadde col cadere stesso del grande ideale unitario dell’Europa medievale. In campo religioso, la Riforma spezzò l’universalismo, determinando il distacco dalla Chiesa di Roma di molti popoli europei; in campo politico, ne risvegliò il sentimento di nazionalità, e si affermarono i nazionalismi: e questi furono due colpi mortali per il latino.
Assente l’universalismo dell’Impero, assente l’universalismo del Cristianesimo, solo dopo il XVI secolo, il latino si fece veicolo di un terzo universalismo: non più politico, non più religioso, ma scientifico. Per circa due secoli, l’astronomia, la matematica, l’anatomia, la botanica, e, pur se in misura ridotta, la filosofia gettarono prevalentemente in latino la basi del mondo moderno.
Poi, col Romanticismo, il silenzio.
Oggi, dopo l’abbandono anche come lingua liturgica, il latino è usato – ma sempre più raramente – in ambito filologico, ed ha ancora un suo uso in ambito ecclesiastico, dove è anche lingua ufficiale della Santa Sede.

Nell’accezione più comune, il latino è una lingua morta, parlata un tempo dagli antichi Romani, ma questo pur breve e sintetico excursus mostra tutti i limiti di una tale definizione, perché il latino non è stato e non è solo questo: imposto progressivamente su un territorio sempre più vasto abitato da popolazioni di lingua diversa, ha dato nel tempo origine a lingue diverse; già definibile come ‘morto’ alla fine del VI secolo, ha continuato per tutto il Medioevo ad essere usato dalle persone di cultura sia per comunicare oralmente che per scrivere opere fruibili in un ambito spaziale enorme, tanto da poter essere definito come lingua "non viva ma non morta"; ha arricchito la produzione letteraria nell’Umanesimo, si è fatto successivamente veicolo di universalismo scientifico e filosofico, esistendo e resistendo per secoli a fianco delle diverse lingue da esso generate.

In molti oggi  – soprattutto in Italia – sostengono che il latino non sia affatto una lingua morta, e la polemica con chi invece la definisce tale è in corso da anni: una polemica che oserei definire vuota, perché il latino è oggettivamente un antenato delle moderne lingue romanze, e, come tale, vivo o morto che lo si voglia definire – entrambe le definizioni hanno una loro legittimità – , ha necessariamente lasciato in esse tracce importanti, che sono racchiuse ed emergono nel nostro stesso parlare quotidiano.

Più che di morte del latino e nascita delle lingue romanze dovremmo forse parlare di metamorfosi, e riandare col pensiero ad Ovidio e ai miti metamorfici: per esempio, ad Aci trasformato in fiume, a Dafne trasformata in alloro, a Filomela e Procne trasformate in uccelli, a Narciso trasformato in fiore, ecc..
Il giovane Aci, ucciso per gelosia dal ciclope Polifemo, si trasforma in un fiume, continuando così a vivere. Dafne, figlia della divinità del fiume Peneo, per sfuggire al dio Apollo che innamorato la insegue, chiede alla terra e al padre di distruggere il proprio aspetto e di trasformare la propria bellezza, ed ecco che «il suo tenero petto è cinto da una sottile corteccia, i capelli crescono in fronde e le braccia in rami; i suoi piedi, prima così veloci, si attaccano al suolo con immobili radici…»: ed Apollo continua ad amarla, e toccando il tronco sente ancora battere il suo cuore sotto la corteccia.
Le due sorelle Filomela e Procne, dopo essersi vendicate in maniera orribile di Tereo – marito di Procne e violentatore di Filomela –, mentre cercano di sfuggire alla sua furia, si trasformano magicamente in un usignolo e in una rondine, e la caratteristica macchia rossa sul petto della rondine ricorda l’uccisione del proprio figlio perpetrata da Procne. Narciso, macerato dall’amore per la propria immagine riflessa in una fonte, si lascia morire, come consumato da un fuoco nascosto: quando le ninfe delle acque e dei boschi si apprestano a trasportarne il corpo sul rogo, si accorgono che il corpo non c’è più, ma al suo posto c’è un fiore col cuore giallo rossiccio e i petali bianchi.
Morti o vivi che fossero i personaggi prima della loro metamorfosi, il paradigma di Ovidio consiste in un mutamento di forma che implica la persistenza dei personaggi stessi sotto la superficie della variazione.

In un processo secolare, il latino ha subìto una vera e propria metamorfosi, trasformandosi in altre lingue, nuove, formalmente e strutturalmente diverse.
Possiamo anche pensare che, in un certo momento, il latino abbia cessato di esistere; possiamo anche affermare che, già nei secoli VII e VIII, esso, come sistema fonetico, grammaticale e lessicale dotato di una sua specificità e riconoscibilità, non esistesse più: ma è un dato di fatto che, sotto la superficie delle lingue romanze, permangono segni – più o meno numerosi, più o meno significativi e vitali – della sua presenza.
Indipendentemente dall’essere morto o meno, il latino è innegabilmente sopravvissuto alla propria metamorfosi.